SU DI ME

‍ Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941 e vive a Torino.

Copiosa la sua produzione letteraria (tra le raccolte di poesia: “La vita nascosta”, “Vita trasversale e altri versi”, “La vita immaginata”); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in nove lingue.

Intensa anche la sua attività redazionale.

Sue pubblicazioni sono presenti in Academia.edu e in Alessandria today.

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Biografia completa__Felice Serino

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Recensioni e commenti

RECENSIONI E NOTE CRITICHE

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(a cura di Marco Nuzzo, Lorenzo Spurio, Fernanda Ferraresso, Giordano Genghini, Giovanni Perri, Giuseppe Vetromile, Angela Greco, Guglielmo Peralta, Antonio Spagnuolo, Vanni Spagnoli, Donatella Pezzino, Raffaele Piazza, Michele Barbera, Sabrina Santamaria, Mario Saccomanno, Enrico Marià, Renzo Montagnoli, Andrea Crostelli, Fabio Greco, Luca Rossi, Enrico Cerquiglini.

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RECENSIONE ALLA SILLOGE DI FELICE SERINO “IN SOSPESO DIVENIRE”, 2013


al di fuori di me -


io stesso luogo-non-luogo – 


mi espando



Così, Felice Serino, dà alla luce l’ultima breve ma intensa silloge, “In sospeso divenire – Poesie dell’impermanenza”, titolo alquanto suggestivo e che, in pochi tratti descrive il ruolo stesso del poeta-uomo, dello scrittore, considerato per antonomasia il saggio, il pensatore, conscio d’una realtà fuggevole e capace, pertanto, di ravvisarne gli atomi in una sincrasi eclettica, unendo particelle e parole con una palpabilità maniacale. Ho parlato di“saggio” per un motivo ben preciso. Leggendo il Serino, m’è parso di risentirela lontana eco del Dao Dezi di Lao Tsu, saggio cinese che – nella succitata opera - scrisse una ben precisa frase: “Per questo il santo permane nel mestiere del non agire e attua l'insegnamento non detto. […]. Compiuta l'opera egli non rimane e proprio perché non rimane non gli vien tolto”. Si noti che la parola “Saggio” e “Santo” hanno, nel Tao TeChing, la stessa funzione di soggetto. Come per queste “poesie dell’impermanenza”, il Serino ha la funzione di lasciare un’impronta, un segno lieve “in sospeso divenire”, per l’appunto, per poi partirsi, allontanandosi dopo aver detto. Il suo è un divenire lasciato ad altri, un qualcosa di incompiuto ma capace di tessere trama e ordito con una originalità impertinente, tra figure retoriche e costrutti semantici ridotti all’essenziale, eppure talmente precisi da centrare il cuore del bersaglio: 



in trasognato sfarti figura


-quasi rito-


t’invetri


incielata diafana



qui troviamo qualcosa di molto raro, quasi una sorta di gioco di parole e reinventati neologismi privi di peccato ma che trascendono all’interno di un Locus amoenus racchiuso nell’utopia e nella stagione di una vetrina al di fuori del tempo.


Il Serino però è un treno in corsa lungo diverse stazioni, sfiora emozioni di ogni sorta e non placa sicuramentela propria sete nella forra dei giochi della parola propriamente detta. Egli si fa anche semplicità negli occhi e nei sogni di una bambina, diventa foriero dei cambiamenti dell’animo… si fa madre e poi muore alla vita.


Senza voler troppo aggiungere, per non guastare del lettore la sorpresa, il poeta Serino disvela e tributa la seconda parte dell’opera ai suoi amori, quelli familiari come quelli letterari, finanche alle letture di Ungaretti, Merini e Ginsberg. È una nota che suona differente in ogni tasto, il Serino e in questa breve silloge dà prova di quanta musica possa vantarsi l’animo umano, un Pathos capace di elevare o, talvolta, di colpire, lasciando senza parole attraverso la bellezza e l’irripetibilità delle sue dinamiche.



Di Marco Nuzzo



e-book realizzato da poesieinversi.it


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Casa di mare aperto

di Felice Serino

Recensione a cura di LORENZO SPURIO

E’ una poesia dotta, filosofica e ricca di rimandi alla letteratura europea quella di Felice Serino contenuta nella sua ultima raccolta dal titolo enigmatico “Casa di mare aperto”. Ed è un po’ tutta la poetica di Serino ad essere attraversata da un certo ermetismo che si realizza in un criticismo del linguaggio, in una frantumazione dell’identità e in numerosi squarci visionari e addirittura onirici. Serino parte dal mondo che lo circonda, ma non è quello il suo interesse nell’arte della scrittura, perché l’intenzione è altra. La poetica si trasfonde a un livello più alto, a tratti irraggiungibile a tratti difficile da capire, ma l’artifizio della poesia sta anche in questo: nel dire e nel non dire, nell’utilizzare un concetto per elevarlo a qualcosa d’altro, metafisico, che non può aver concretezza proprio perché ha a che fare con la coscienza dell’uomo.

Importanti e degni di rispetto le poesie d’impianto civile, che nascono cioè dal voler ricordare alcuni personaggi centrali nel processo di crescita e progresso storico com’è lalirica dedicata al Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi nella quale Serino utilizza l’isotopia del sangue e della violenza per tratteggiare il clima d’odio, repressione e vendetta nei confronti della statista appartenente all’opposizione: “Dal suo sangue si leva alto/ il grido d’innocenza/ a confondere intrighi di potenti” (p. 20). La condanna alla tirannia, alla democrazia messa a tacere è evidente anche se il linguaggio di Serino evita la durezza e si contraddistingue sempre per una certa armonia e levità, anche quando parla di drammi in piena regola. Ma ci sono anche poesie in cui il poeta mette allo scoperto terminazioni nervose dolorose dal puntodi vista sociale, come è il caso della poesia “A ritroso” ispirata al fenomeno poco noto degli hikikomori in Giappone che riguarda dei giovani che si auto-recludono letteralmente in casa evitando una vera vita sociale.

Centrale anche il tema della morte che ritorna in varie liriche come pensiero spesso assillante, altre volte come semplice dato di fatto dal quale bisogna partire con consapevolezza nell’impostazione del proprio progetto di vita. L’interesse per il mondo, per la socialità, la vicinanza all’altro e la riflessione sulla nostra esistenza fatta di giorni che sembrerebbero identici ma che non lo sono, trova ampiezza in una lirica in particolare, “In questo riflesso dell’eterno” dove il poeta con sagacia e freddezza verga la carta scrivendo: “imbrigliati noi siamo in un tempo/ rallentato/ noi spugne del tempo/ assediati da passioni sanguigne” (p. 61) in cui si ritrovano molti temi/aspetti che contraddistinguono la vita dell’uomo d’oggi: il tempo che scorre in maniera rallentata, troppo lenta, forse perché non è più in grado di vivere i momenti che riceve in maniera autentica, ma forse perché l’uomo senza lavoro, precario, disoccupato o immigrato che sia, senza una occupazionenon può che vedere il suo tempo scorrere in maniera lenta, dolorosa e oziosa; l’uomo è una spugna nel senso che riceve dal mondo, ma è sempre meno in grado di dare; che assorbe, si assoggetta, accetta e che, al contrario, non fa, non dà, non propone. Il mondo frenetico e alienante chepropone una società sempre più efficiente, veloce e altamente tecnologizzata in realtà provoca un certo indolenzimento che si ravvisa nel sonnambulismo etico e pratico dell’uomo. Infine gli uomini sono “assediati da passioni sanguigne”: amore e sesso che, come si sa, non sono la stessa cosa e che spesso possono portare alla follia, al delirio, allo spargimento di sangue, inun doloroso banchetto in cui Eros e Thanatos giocano beffardi ignari di cosa stanno combinando. In “L’alba che sa di nuovo” Serino esordisce con versi acuminati: “la si vive nel sangue la nottata” (p. 89).

Numerosissimi i riferimenti e le citazioni a numerosi padri della letteratura europea, tra cui Mallarmé, Ungaretti, Zanzotto, Pessoa che, oltre a sviscerare il grande amore di Serino nei confronti della letteratura e la sua profonda conoscenza, rendono l’opera un gradevole e profumato percorso in altre storie, tempi e luoghi.

Lascio ai lettori di questa recensione un’ultima lirica del Nostro nella quale si respira un senso d’incertezza e un sentimento di sospensione che non è dato all’uomo capire; il serpente presente quale immagine di fondo della lirica alla quale si tende analogicamente (si richiama il verde e il serpeggiare), rimanda ancora una volta all’immagine del peccato, dell’avvelenamento e dunque della morte. Ma la cosa curiosa è che in questo caso non vi sono vittime, se non la serpe stessa:

Di un altrove (p. 78)

d’un altrove

striscia

di luce verde la mente

l’interrogarsi serpeggia

si morde la coda

LORENZO SPURIO

-scrittore, critico letterario-

Jesi, 1 Agosto 2013

FELICE SERINO è nato a Pozzuoli nel 1941; autodidatta, vive a Torino.

Ha pubblicato varie raccolte: “Il dio-boomerang” (1978), “Cospirazioni di Altrove” (2011).

Ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici.

E’ stato tradotto in sei lingue. Intensa anche la sua attività redazionale.

http://blogletteratura.com/2013/08/04/casa-di-mare-aperto-di-felice-serino-recensione-di-lorenzo-spurio/

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Un oltre in sé, quella “Casa in mare aperto” di F. Serino – Fernanda Ferraresso

L’epigrafe di apertura, ripresa dalla dedica di Raffaele Crovi , a Flavio e Teresio, pare individuare con precisione quale sia la scialuppa di salvataggio per praticare quel mare aperto e arrivare a casa.

La poesia allena l’ “analfabeta”/ancora vergine di conoscenza / a “disincagliarsi dalla vita” /e a viaggiare dentro il mistero/(che è la somma delle verità).

Ma si tratta di trasparenze lacere, così le chiama Felice Serino, queste visioni , o voci, che arrivano da quel mare di cui dice e non ha nome, se non umanità, storia, e sembrano voci lacerate dalle perdite. I testi evocano, in questa silloge breve, altre parole, messe nell’acqua del linguaggio da altri , sin dal titolo del libro, che riprende una frase di Piernico Fè, come cita nella prefazione Marco Nuzzo: -creando una sorta di sprazzo sui diversi moti del mondo, ornato dalle molte sfaccettature e che ne compongono, malgrado tutto, una visione d’insieme talvolta succube delle vicissitudini carnali, umane. -E dovunque nel libro si sentono questi echi da terre senza nome, dispersi nei moti dei venti e tra le orme liquide dei naviganti, che hanno messo in mare i loro legni, le loro sementi, portando anche all���autore ulteriori germinazioni. Ciò che mira l’occhio di Serino non è direttamente il viaggio, ma il viaggiatore, poiché, come dice Pessoa, è lui il cammino. E qui , proprio riportando al suo piede e al suo occhio, al suo orecchio interiore, le voci degli altri, facendone terra del suo essere, Serino moltiplica questo andare in sé, lui terra e osservatorio di quel territorio senza fine, ma anche angusto, per la grevità dei gesti che si ripetono, e sono gesti umani, stratificazioni del pianeta e della memoria, miseria e guerra e preghierecome pietre che sembrano infossarsi più che elevarsi se non partono dalle più oscure profondità di ciascuno. In quelle stesse profondità, oscure, spesso minacciose, esiste un altrove, a cui abbiamo accesso, in cui esiste un rifugio durante la navigazione ed è quello che è casa aperta nel cuore del mare. Serve viaggiare, serve andarci e la poesia aiuta a fare vela fino a quel continente che, alla fine, dopo una vita intera di rotte praticate , si scopre essere un oltre in sé.

fernanda ferraresso

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LA “CASA DI MARE APERTO” SPIRITUALE

NELLA PIÙ RECENTE RACCOLTA DI VERSI DI FELICE SERINO

di GIORDANO GENGHINI

Recentemente, edita dal Centro Studi Tindari di Patti, è uscita la raccolta di versi “Casa di mare aperto”, che riunisce tre diversi gruppi di brevi liriche scritte fra il 2009 e il 2011 dal poeta Felice Serino, noto – anche se non quanto meriterebbe – in Italia e anche all’estero (le sue poesie, pubblicate a partire dal 1978, sono state tradotte in sei lingue).

Il titolo della raccolta – lo si chiarisce all’interno del volumetto – è una citazione da Piernico Fè, e in qualche modo, a mio avviso, è la chiave per interpretare l’intera opera, caratterizzata da una lirica intrisa di spiritualità intensa che si irradia in molteplici direzioni: un “mare aperto” spirituale, dunque.

La lettura delle pagine – poco meno di cento - è un’esperienza straordinaria e irripetibile.

Il tessuto dei versi è coerente e ha un tono e un timbro inconfondibili. I temi toccati ruotano attorno a una ricerca spirituale intima del poeta ma nel contempo rivolta ad ogni uomo. I versi, come nei grandi artisti mistici del Medioevo, esprimono l’inesprimibile del mistero divino soprattutto attraverso il simbolo della luce. La spiritualità del poeta è però modernissima perché inquieta, mobile, non univoca.

Alcune immagini, metafore e parole-chiave sono ricorrenti nella raccolta. in primo luogo, la figura dell’angelo (o, meglio, degli “angeli / caduti / mendichi di amore”), simboli di aspirazione alla purezza assoluta. Ancora più rinvia a questa ricerca di purezza e verità assolute la metafora – che riappare in varie forme – del “corpo di vetro” o del “vetro del cuore”, cui si affianca la prevalenza di un altro emblema di purezza: il candore, che culmina nel “silenzio” di chi ha già lasciato la vita: l’ “immacolato manto / come un’immensa pagina bianca” che si identifica con l’ “Altrove”, ossia con il mistero occulto di “questa casa di vetro / eretta sulle nuvole”, a cui il poeta aspira – e alla cui rappresentazione concorre anche la suggestione generata dall’uso mai casuale o irrilevante degli spazi bianchi fra i versi o nelle pagine.

Oltre alla luce, altri simboli ricorrenti nei versi di Serino per esprimere l’inesprimibile – l’ “Oltre” – sono il sogno e l’azzurro, che si intrecciano con la musica nel tentativo di dare corpo (come nel “Paradiso” dantesco, di cui talora si avverte l’eco) al divino. Tuttavia, i versi di Serino non hanno certo caratteristiche tradizionali e meno che mai “cantabili”, in quanto nel loro originale ritmo si manifesta la presenza della realtà umana fatta di carne e sangue, dei “veleni del mondo” e, in particolare, del mondo contemporaneo in cui “l’autentico” è “violentato dal mediatico”.

All’interno di questa antitesi decisa fra l’ Altrove e il male del mondo (per il quale però, uscendo dal coro, la lirica del poeta non cerca espliciti capri espiatori, politici o di siffatto genere, cui attribuire ogni colpa) determinante è la funzione della poesia, che definirei profetica ma, anche, casa in cui rifugiarsi per distaccarsi dal male di vivere. L’autore infatti scrive: “nascosto starò nella rosa / azzurra della poesia”, evocando per analogia nel lettore anche il ricordo della “candida rosa” dantesca dei beati.

La spiritualità di Serino e la sua fede nell’Altrove non è mai incerta: “quando il mondo continuerà / dopo di me // a chi vi dirà lui non c’è più / fategli uno sberleffo”. Il suo misticismo non trascura le vicende della storia e degli ignorati “santi del nostro tempo”, di non pochi dei quali viene fatto esplicitamente il nome ( un esempio fra tanti: Oscar Romero, nel cui sacrificio, credo, il poeta vede il “rigenerarsi dell’urlo della croce” evocato in un’altra lirica).

La cultura su cui fioriscono i versi dell’autore è estremamente ricca: le stelle che la illuminano (lo si comprende da citazioni dirette o indirette, e soprattutto dalla ripresa rielaborata, nei versi, di altri versi, secondo una tecnica già presente in grandi poeti, da Dante a Luzi, ma usata in modo originale da Serino. Tale ripresa non è mai sfoggio di conoscenze: è invece indispensabile al disegno lirico dell’autore. Le stelle che rilucono nel cosmo intellettuale del poeta possono per alcuni aspetti essere forse accomunate, ma fra loro sono anche estremamente diverse: oltre al Gesù dei Vangeli e ad antiche (come Paolo e Agostino) e recenti (come, ad esempio, David Maria Turoldo) figure della spiritualità cristiana, figurano anche maestri di diverse spiritualità: da Steiner a Swedenborg a Paulo Coelho, per non ricordare che alcuni nomi. Né si possono dimenticare i riferimenti ai grandi poeti dello spirito: dal già menzionato Dante (alcune delle cui immagini, come quella del paradisiaco fiume di luce, sono rielaborate e riproposte in modo affascinante) ai più recenti Mallarmé, Borges, Pessoa, Ungaretti fino a poeti a noi vicinissimi come Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto.

La lirica di Serino si colloca nel panorama estremamente vasto di questa sorta di ideale “empireo della poesia” che si contrappone – almeno come possibilità di difesa – ai mali della storia. L’ampiezza dei punti di riferimento negli orizzonti culturali e letterari del poeta spiega anche perché la sua raccolta non rappresenta un tentativo – che sarebbe impossibile – di ricomposizione di tutti i punti di riferimento, ma una esplorazione spirituale, un moderno viaggio, termine ancora una volta da intendersi in senso dantesco.

A livello stilistico, il poeta dà vita a una lirica di grande intensità, che fa tesoro della lezione poetica del Novecento (in particolare, nell’abolizione della punteggiatura e della iniziali maiuscole) e del verso libero per creare un proprio originale timbro, spesso caratterizzato da affascinanti creazioni in miniatura, nelle singole liriche, di “opere aperte” che lasciano possibilità di diverse interpretazioni: né potrebbe essere altrimenti, dati i temi affrontati nella raccolta.

In versi densi di fratture e ricomposizioni, Serino ci propone – per rifarsi al “suo” Agostino - una “città dell’uomo” in cui abbondano le asprezze (“le viscere nelle mani”) e una “città di Dio” in cui risplende l’armonia dell’Altrove (“un cielo bianco di silenzi” in cui è protagonista disincarnato il “fiume di luce che / ci prenderà”).

Non è il caso che aggiunga altro a queste mie modeste note, perché ogni tentativo – come questo mio – di presentare nell’ambito di un discorso logico-razionale una poesia che tale ambito travalica, non può che essere povera cosa rispetto all’esperienza della lettura dei versi del poeta. E concludo proprio con un invito alla lettura e con un’ultima osservazione: la raccolta di Felice Serino è un “mare aperto” al cui interno si muovono potenti correnti di luce. Credo che, per renderci conto di ciò, basti rileggere la bellissima breve lirica che, non a caso, chiude la raccolta, e che qui riporto: “d’un presentito chiaro d’armonie // d’un trasognato dove // vivi e scrivi // – tuo credo – // tua casa di mare aperto”.

Non è un caso, credo, che il primo verso sia un armonioso endecasillabo e che il secondo e il terzo, uniti, a loro volta siano uno stupendo endecasillabo, come non è un caso che l’ultimo verso coincida con il titolo della raccolta.

La “casa di mare aperto” rappresenta infatti, come ho detto all’inizio di queste note, la spiritualità del poeta: ma anche, io credo, la meta di un approdo cercato già in questo modo e, infine, la prefigurazione della “casa di vetro” nell’Altrove, cui – come l’autore – più o meno consapevolmente a partire dai poeti, tendiamo noi tutti. O, credo direbbe l’autore, tendono consapevolmente coloro che, come scrive in un’altra sua lirica l’autore, fra l’affidarsi principalmente a Freud (o ad altre “divinità terrene” del mondo d’oggi) e l’affidarsi al vangelo di Giovanni hanno già compiuto una scelta.

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Recensione a “D’un trasognato dove” di Felice Serino (Giovanni Perri)

25 ottobre 2014

Capita raramente di imbattersi in poeti in cui vocazione lirica e pensiero filosofico si fondono così perfettamente da riuscire saldati in un unico corpo come in Felice Serino, la cui voce è tanto più seducente quanto maggiormente risulta isolata nel panorama contemporaneo. Egli rappresenta, forse, la continuità, nel solco di una tradizione tipicamente novecentesca, di pensare la poesia come antitesi e attrito con la modernità e filtro da cui trascendere nel segno d’una rivelazione; in lui, senso del tempo e dello spazio, spiritualità e vita, verità intangibile e immanenza, mistero, trovano la medesima via su cui la poesia accomoda il sentimento, insieme umano e divino, d’essere in sé origine e fine di tutto; e nel mezzo, ricerca passionale e tensione dell’amore puro; (Amore: altissimo e di sangue, lamento quasi siderale degli occhi, fiume alle mani ): dove quel sentimento arriva e la voce si espande, e l’umore improvvisa emozioni che non trovano il punto, oppure lo invocano sapendo che un urto, anche il più invisibile, può farsi carico di tutta quanta la specie dei sogni di cui è composta la vita.

leggere sull’acqua

lettere storte

camminare nel mistero a volte

con passi non tuoi

nella parusia entrare nella luce

goccia

che si frange nel sole

– che contiene un mondo

Impresa affatto anodina dunque, introdurre Serino: farne passare il battito, la folgorazione; additare nel segno delle sue epifanie, come volendo scottarsi: sentirsi addosso la luce, vivida e sanguigna di un verso che trasloca bucandoci. Perché viene sempre nel segno della carne la sillaba che in lui svanisce: questa croce di vento sulla pelle. E sono spasmi. Cieli a difendersi. Occhi per seminare: amore per la parola sorgiva da cui bagnarsi e bere, a piene mani, quasi fossimo noi quel punto imprendibile l’altrove, che cuce il corpo alla memoria e tace, profondo e innato silenzio:

sangue del pendolo

tempo-maya dagli occhi

di giada

capovolti

nell’oltre è cuore

del sole abisso

di cielo – antimondo

C’è in Serino un’attitudine all’amore che è soglia, dunque, attracco e mancamento: visionarietà al limite del corpo, come una metafisica della bellezza. Una specie di vizio a perdere la vista per meglio pensare. Viene in mente Democrito; e Borges che lo nomina nel buio. Nelle sue tanto aeree apprensioni, Serino ausculta pungendo, sembra quasi addirittura ch’egli tiri dalla vena una goccia di lontananza e ne faccia presenza aromatica, unguento a lenire ferite. Sono sempre afflizioni, le sue, da cui sgorga dolcezza: l’essere qui e altrove come dato fondante d’una vita:

un vedermi lontano

io che vesto parole

di carne

alfabeti di sangue

da me lontanissimo

ché ad altra

sembianza anelo

per voli su mondi

ultraterreni

Il preziosissimo volume appena pubblicato (d’un trasognato dove) porta quest’attenzione al luogo come segnale viatico, sintomo d’attraversamento, quasi paura: l’attesa di un dove che ci tiene, mi piace dire, anatomicamente, nel nervo della poesia, in un flusso cosmico, segnato a ferite, di tempo e spazio, appunto, e di memoria:

giro di luna bivaccante nel sangue

baluginare d’albe e notti

che s’inseguono

dentro il mio perduto nome

per le ancestrali stanze un aleggiare

di creatura celeste

che a lato mi vive nella luce

pugnalata

Oppure ancora:

espansione a irradiare

poesia a labbra

di luce

indicibile fiore

del sangue

Quale che sia il trasognato dove, quel che posso dire è che qui l’amore s’avverte, terragno e trascendente, nel segno di una luce vivida e irrisolta, cavata dall’occhio di un uomo sospeso, solo e multiplo, invocata e assolta nel dono di un verso pulsante,

tangente, bellissimo, quasi tenuto nel fiore di un enigma e consegnato al tempo, come un bacio dato alla terra, questa sacra parola illuminante.

Ecco forse Serino è tutto questo, o tant’altro che ancora non so; che ancora non m’è dato di sapere.

Giovanni Perri

http://poesiaurbana.altervista.org/recensione-dun-trasognato-dove-felice-serino-giovanni-perri/

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D’un trasognato dove – 100 poesie

di Felice Serino

Recensione di Lorenzo Spurio

Ha memoria il mare

Scatole nere sepolte nel cuore

Dove la storia

Ha un sangue e una voce. (37)

D’un trasognato dove – 100 poesie scelte è la nuova densa raccolta poetica di Felice Serino, poeta nato a Pozzuoli nel 1941 che da molti anni vive a Torino.

L’autore mostra di aver compiuto una meticolosa operazione di cernita in questo “canzoniere dell’esistenza”, tante sono le liriche che ne fanno parte e tante le tematiche che Serino trasmette al cauto lettore. Il fatto che esse siano state raggruppate in filoni concettuali intermedi da una parte facilita al lettore la corretta comprensione delle stesse e dall’altra consente all’opera una struttura ulteriormente compatta e costruita organicamente. È così che questi microcosmi-contenitori delle liriche di Serino si concentrano attorno a questioni che hanno a cuore il rapporto con l’aldilà, il tema celeste, il senso dell’esistere, la potenzialità del sogno, l’inesprimibile pregnanza del tessuto semantico, l’impossibilità di dire (l’impermanenza) e si chiude con un nutrito apparato finale di poesie dedicate a personaggi più o meno famosi della nostra scena contemporanea dal quale partirò.

In questo apparato di dediche si concentra il fascino nutrito da Serino verso una serie di immagini-simbolo quali quello della luce e del sogno (nella lirica dedicata Elio Pecora), il tema della Bellezza (nella lirica a Papa Giovanni Paolo II), il risorgere (nella lirica dedicata a David Maria Turoldo) e lo specchio come proiezione e frantumazione dell’io (nella lirica dedicata a J. Luis Borges). Sono queste solo alcune delle liriche che compongono questo apparato finale poiché ve ne sono varie di chiaro interesse civile che affrontano disagi e tragedie dell’oggi quali i disastri per mare dei tanti immigrati che sperano di giungere in Italia, le precarie condizioni degli incarcerati o gravi casi di violenza in cui alcuni giovani hanno riportato la morte come Iqbal Masih, tessitore di tappeti portavoce dei diritti dei bambini lavoratori che venne ucciso nel 1995 all’età di 12 anni e del quale Serino apre la lirica in questo modo: “come un bosco devastato/ intristirono la tua infanzia/ di pochi sogni” (107).

Nell’intera opera di Serino si nota una pedissequa attenzione nei confronti di isotopie, immagini costruite nelle loro archetipiche forme, che ricorrono, si susseguono, si presentano spesso perché necessarie; esse non sono solamente immagini che identificano o denotano qualcosa, ma simboli, metafore, mondi interpretativi altri: il sogno, la luce, il cielo, il Sole, tanto che permettono di considerare la poetica di Serino come celestiale proprio per il suo continuo rovello sull’aldilà, onirica perché fondata sull’elemento del sogno del quale si alimenta tanto da non poter dire spesso con certezza quale sia la linea di demarcazione tra realtà e finzione. Si penserebbe a questo punto che il tema del tempo possa essere altrettanto centrale in questa silloge di poesie dove, pure, si ravvisa un profondo animo cristiano, ma in realtà il concetto di tempo è ristrutturato da Serino in maniera meno pratica, in chiave esistenziale, come costruzione della mente umana che però risulta avere poca rilevanza nelle elucubrazioni di una mente particolarmente attiva.

Il sogno, l’onirismo e il surrealismo (citato anche nel momento in cui viene nominato il pittore catalano Dalì) sono il nerbo fondamentale della silloge dove il trasognare ne identifica l’intero percorso di formazione e conoscenza. Non è un caso che in copertina si stagli un albero frondoso e, dietro di esso, uno scenario meravigliosamente pacificante di un cielo verde-azzurro tipico di una aurora boreale che fa sognare.

Dal punto di vista stilistico Serino predilige un’asciuttezza di fondo per le sue liriche (molte di esse sono molto stringate se teniamo presente il numero dei versi), dove il poeta evita l’adozione delle maiuscole anche quando queste dovrebbero essere impiegate ed ogni forma di punteggiatura, quasi a voler rendere in forma minimale il pensiero della mente proprio come gli è scaturito. Contemporaneamente il lessico impiegato è fortemente pregno di significati, spesso anche molteplice nelle definizioni, ed esso ha la caratteristica di mostrarsi evocativo, più che invocativo (anche se alcune liriche di invocazione sono presenti) o connotativo.

Sprazzi di ricordi salgono a galla (“in sogno sovente ritornano/ amari i momenti del vissuto”, 39) ma questi non hanno mai la forza di demoralizzare l’uomo o di affaticarne la sua esistenza poiché c’è sempre quella “comunione col sole” (47) che dà forza, garanzia e calore all’uomo che sempre ricerca risposte su sé, Dio e il mondo.

Lorenzo Spurio

Jesi, 28-10-2014

http://blogletteratura.com/2014/10/29/dun-trasognato-dove-di-felice-serino-recensione-di-lorenzo-spurio/

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Felice Serino, “D’un trasognato dove”

(Ed. Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano)

E’ caratteristica essenziale in molti poeti la ricerca di una dimensione altra, per lo più disgiunta dalla materialità delle cose e allocata in un empireo che simboleggia la spiritualità, l’amore, il sacro. Questa ricerca indubbiamente parte innanzitutto da se stessi, nel prodigarsi a dragare nei labirinti della propria anima lacerti e spiragli di luce, di speranza, e di tutti quei valori che possano elevare la persona alla dimensione celeste, avvicinandola a quella meta che nel progetto della creazione può chiamarsi anche paradiso. E’ innegabile che ogni uomo tenda a superare, e a superarsi, quelle barriere fisiche e materiali che in qualche modo gli consentano di raggiungere, o almeno tendere, ad una certa realizzazione di sé, che non sta tanto in una mera e statica acquisizione di beni materiali, quanto nell’agognare quella famosa “felicità” o stato di grazia che sia, che soddisfi non solo il corpo, ma anche e soprattutto l’anima e il cuore.

Che poi questa ricerca venga estrinsecata, seguita e sviluppata anche in modo creativo ed artistico, nella fattispecie tramite la poesia, è segno di sensibilità personale non indifferente, in quanto l’artista, il poeta, ha il coraggio di mettere in chiaro ciò che gli scaturisce da dentro, ciò che gli detta il cuore. In un mondo in cui i modelli predominanti sono il rivestirsi di corporeità e di ricchezze materiali, da seguire come obiettivo primario della quotidianità, un canto elevato alla purezza dei cieli sembrerebbe anacronistico se non addirittura bambinesco: c’è altro a cui pensare nella vita di tutti i giorni, c’è da sbarcare il classico lunario e non c’è spazio per intime riflessioni trascendentali. Ma il poeta è e resta sempre un puro d’animo, egli vede sempre al di là del velo opprimente che copre il mondo di grigio e di organigrammi, sente il discorso della natura e lo fa proprio, nonostante tutte le ottenebrazioni e i frastornamenti offerti dalla pubblicità più subdola. Si tratta di liberarsi da ogni falsità terrestre, e questo al di là di ogni tipo di religione, ché è primario in noi, nell’uomo, questo senso vago, indeterminato ma sussistente, dell’al di là, inteso come luogo sublime ed eternamente pervaso di gioia, pace e felicità. Si tratta di raggiungere l’empireo, appunto, ricostruire l’antico filo di resistente speranza che, in fondo, c’è qualcosa di vero oltre la dimensione materiale dell’uomo.

Felice Serino è dunque uno di questi poeti che vede e che sente: “insaziata parte / di cielo / vertigine della prima / immagine / e somiglianza / vita / lacera trasparenza / sostanza di luce e silenzio / sapore dell’origine / fuoco e sangue del nascere” (“Lacera trasparenza”); sostanza di luce che permea tutta la sua raccolta poetica “D’un trasognato dove”, inesauribile canto di ricerca dell’”oltre”, assidua ed appassionata narrazione poetica del suo cercare quel “dove” che possa riscattare il senso materiale della vita, che possa nobilitare l’uomo.

“In una goccia di luce / s’arresterà questo giro del mio sangue / lo sguardo trasparente riflesso / in un’acqua di luna / sarò pietra atomo stella / mi volgerò indietro sorridendo / delle ansie che scavano la polpa dei giorni / delle gioie a mimare maree / nullificate di fronte all’Immenso / allora non sarò più / quell’Io vestito di materia / navigherò il periplo dei mondi / corpo solo d’amore / in una goccia di luce”: è il testo iniziale della raccolta di Felice Serino, testo emblematico che in qualche modo concentra e riassume la sua idea progettuale, e poetica, di un distacco dalla materialità al fine di trovare e provare, svestito di materia, quel nocciolo di verità assoluta, quei sentimenti puri non più inquinati o compromessi dalle implicazioni del corpo. Si tratta dunque di un discorso poematico di lungo respiro, tutto intriso di alta religiosità, una religiosità che richiama sicuramente la fede cristiana, pur non citando direttamente situazioni, fatti e personaggi della dottrina classica, ma traendo da essa i riferimenti più sinceri e puri: “- e gli esecrabili / delitti e la vita / tradita? / e il sangue innocente? / -non ricordo: in verità ti dico / l’Albero di sangue / virgulto di mio Figlio / il Giusto / si è ingemmato / ed espande nei secoli / le sue radici / in un abbraccio totale” .

La raccolta poetica di Felice Serino “D’un trasognato dove” è divisa in cinque parti: “Di palpiti di cielo”, “Del trasognare”, “La parola che fiorisce e dintorni”, “Dell’impermanenza”, e “Dediche”.

Pur mostrando una complessiva omogeneità di progetto, costituita essenzialmente dalla trama religiosa di cui sopra, che lega internamente tutte le composizioni della raccolta, nella quale l’autore riesce ad estrinsecare e a sviluppare esaurientemente tutta l’ispirazione primaria attorno alla quale si addensa il suo dettato, in mille diverse angolazioni, la quinta parte, “Dediche”, si discosta alquanto dal tema; si tratta qui di poesie ognuna “dedicata” ad un personaggio particolare (tra cui anche la moglie), che hanno evidentemente colpito la sensibilità del poeta, muovendolo ad esprimere considerazioni e riflessioni dal contenuto veramente nobile e importante, come ad esempio nella poesia dedicata ai migranti: “uscire / dal porto -il cuore in mano- / issare la vela della / passione / dietro lo stridulo / urlo dei gabbiani / tra le vene bluastre del cielo / foriero di tempesta / squarciare / nel giorno stretto / il grande ventre del mare / che geloso nasconde / negli abissi / i suoi figli” (“La ricerca” – Ai migranti di Lampedusa).

La scrittura poetica del Serino si presenta decisa, fluida, chiara, priva di tentennamenti espressivi e di vaghezze retoriche; è d’altra parte una scrittura non priva di un certo sapore lirico, e strutturata sulla base di versi brevi, in cui ogni termine, ogni parola, è fortemente risuonante.

Ne risulta complessivamente una raccolta di sicuro spessore poetico, interessante, propositiva oltre che riflessiva, che certamente induce nel lettore attento ottimi spunti di ulteriori considerazioni sia sul piano religioso che sul piano sociale.

Giuseppe Vetromile

3/1/15

http://taccuinoanastasiano.blogspot.it/2015/01/dun-trasognato-dove-raccolta-di-poesie.html

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il sasso nello stagno di An Gre

collaborativo di poesia, arte e dintorni a cura di Angela Greco

D’un trasognato dove (100 poesie scelte) di Felice Serino letto da Angela Greco

di Angela Greco

Felice Serino poesia-

D’un trasognato dove è la nuova silloge poetica di Felice Serino, realizzata in collaborazione con l’Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano; cento poesie scelte nell’ambito di una vasta produzione sensibile ai temi dal sociale allo spirituale, sempre esternata con caratteristica gentilezza e partecipazione. La scrittura poetica di Felice Serino è breve, incisiva, toccante, colta e colma di richiami a quella sfera dell’esistenza da cui tutti proveniamo e a cui tutti torneremo. La forte spiritualità dell’autore è un balsamo per il lettore, che anche in questa scelta di testi, può incontrare se stesso e l’altro da sé in versi sintetici, dotati di forza e passione, particolarmente efficaci in relazione alla generazione poetica di chi li sta affidando alla carta.

Il testo assomiglia ad un cielo serale (e credo non a caso la copertina) punteggiato da stelle – cento – tutte volte all’attesa e alla metaforica vista del giorno, della maggior luce, di quella nuova prospettiva a cui lo stesso autore anela e che può essere intesa come un’armonia cosmica in cui ciascuno finalmente sarà in grado di comprendere quelloche in questa vita gli è precluso. Felice si interroga ed interroga in questi versi, scuote la tranquillità, ricorda, condivide e soprattutto spera, percorrendo una strada a cui il lettore è invitato, fornendo finanche le domande necessarie per incamminarsi su questa via. E la poesia è il mezzo per seguire questo itinerario introspettivo.

L’ultima parte del testo, quella che raccoglie poesie dedicate, fa battere il cuore con tono maggiore, riconsegnando il lettore alla storia e alla società attuali; nelle ultime pagine la voce dell’autore si rivolge ai vari destinatari con tutta l’umanità dei suoi anni vissuti, affiancando figure di santi e di giovani, che hanno lasciato fortissimi insegnamenti, quasi a voler idealmente segnare gli estremi entro cui includere tutta la vita stessa dell’uomo, dal punto di partenza alla meta finale. [Angela Greco]

Poesie tratte da D’un trasognato dove di Felice Serino

Altra veste

un vedermi lontano

io che vesto parole

di carne

alfabeti di sangue

da me lontanissimo

ché ad altra

sembianza anelo

per voli su mondi

ultraterreni

§

Cielo indaco

confondersi del sangue con l’indaco

cielo della memoria dove l’altro-

di-te preesiste – sogno

infinito di un atto d’amore

§

Senza titolo

al di fuori di me –

io stesso luogo-non-luogo –

mi espando

di cerchi concentrici è il lago

del mio spirito: sasso gettato

dal capriccio della musa

fremito d’acque e stelle

§

Alta Engadina

diario [mentre “mi” scrivo spiando

il mondo da qui tra terra e cielo]

è il caso di dire

un bianco

da ferire gli occhi

la parete del

ghiacciaio

riflettente una luce

quasi

ultraterrena

a bucare la notte

-mentre qui

mi scrivo

§

In divenire

appoggiato alla spalliera

d’aria del divenire

tu –

arcoteso

futuro anteriore o

tempo che ti mastica

sangue del pendolo

§

Un appiglio

giorni sui precipizi

vivendo

in braccio a capricci del vento

…un appiglio sarebbe il cielo

a rinascere

in echi d’inchiostro?

§

Sospensione

un camminare nella morte dicevi

come su vetri non conti le ferite

aspettare di nascere uscire

da una vita-a-rovescio

riconoscersi enigma dicevi

di un Eterno nel suo pensarsi

*

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941. Autodidatta. Vive a Torino. Copiosa e interessante la sua produzione letteraria (raccolte di poesia: da Il dio-boomerang del 1978 a La luce grida del 2013); ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in sette lingue. Intensa e prolifica la sua attività redazionale visibile anche on-line. Scrive su vari blog. (dal testo)

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Recensione a “Frammenti di luce indivisa” di Felice Serino (centro studi Tindari Patti, nov. 2015)

Qualcosa illumina l’aria ed è un sentimento, la forma di un respiro accogliente che rigenera come un vento che è dentro la parola e si espande, perdendosi, in infiniti suoni a salire. S’io potessi cogliere la misura, la cifra di questo sentire che accarezza e pungola, farei senz’altro ammenda che la vita è mistero imperscrutabile, arte a proteggerci dai sogni tremolanti la notte, nel tempo di amore, appena plasmata la stanza nel corpo ritagliato da una luce di candela. Mi piace immaginarla così, tenuta da una piccola fiamma tra la mente e il cuore, la voce che in Felice Serino approda a questa comunione di sguardi fratelli, venuti a raccogliersi piano nel segno della luce calda e divina, nella sagoma d’un solo altissimo respiro:

prima del tempo

non c’era che amore

quello-che-muove

il-mondo

danza nel cielo

della Luce -pensiero

della notte

a scalzare le tenebre

“Frammenti di luce indivisa”: ha questo titolo davvero bello la silloge che il poeta mette in stampa affinché ci colga da subito pienezza e fragilità d’un canto da cui discendere, o salire appunto, nel medesimo barbaglio, in un solo grande abbraccio di luce a raccoglierci, a definirci:

filtra raggio verde

dalla porta

della conoscenza

vi accede l’anima

-assetata in estasi

sanguinando amore

scintilla interminabile di occhi inconclusi eppure trattenuti nella stessa ferita, nella stessa livida vitalità. Poesia d’apici e di gemme, si direbbe, ricamata sul lembo dell’aurora appena senti che qualcosa diviene come un dolore che innalza, germinando, tutta la vocazione a esserci in perfetto amore: perché amore è già nell’occhio che sente, invoca, reclama l’urto d’ogni domanda; la misteriosa faccenda del cuore solo e multiplo, del Dio dei confini tra la vita e la morte:.

la vita ha in tasca la morte

-siamo noi

divino seme:

non è che un perpetuo

tramare

“cospirazioni” del nascere

miracolo d’amore

e poi ancora:

lanciarmi anima-e-corpo

contro fastelli di luce

specchiarmi

nella sua “follia”

e tu a dirmi: Lui

l’irrivelato

nasconde il suo azzurro – è

lamento amoroso

Ecco, questa dimensione spirituale, trafitta d’implacabili singulti onirici, che accompagna tutta l’opera e la tiene in bilico sull’argine tremolante di continui interrogativi; questo cercare ininterrottamente un segno, che svirgoli e sveli di qua e di là dal sogno l’intangibile immanenza del vero, immarcescibile segreto d’esser sangue nella lingua di Dio, unica strettoia possibile, nel tentativo di comprendersi d’infiniti frammenti; questo sorprendersi fieri d’ogni possibile destino, incolpevoli eppure miseri, mendici e mentitori per ricomporsi umani quanto basta:

dammi Signore

un collante di passione

-atto di fede

che snudi il giorno per

fissare nel blucielo

brandelli d’amore

pezzetti

di me

Tutto questo è rintracciabile e altro ancora, in un’opera piena di vertigini giacché densa e altissima, profondissima, surreale, dove l’irreprimibile albero si rinnova, nominandoci:

cogliere una piccola morte

nello strappo di radice

dove altra ne nasce

dal suo grido

cogliere l’inesprimibile

di questo morire

che s’ingemma d’eterno

E’ questo rinnovarsi in uno strappo, tutto il dolore che il poeta asseconda, portandosi altrove, lievemente, arrovellandosi, dal buio staccando la parola, goccia a goccia, sterminata preghiera del cielo e del mare in un corpo che non vorrebbe peso:

non puoi spiegarlo

alla bimba dagli occhi di luna

se non l’ha mai visto prima

se non è rimasta rapita

dal ricrearsi sull’acqua

di riflessi dorati

-ed è poesia…

lei può solo sognarlo – il mare –

come una carezza di vento

salato e spazi

aperti e voli…

vederlo nel proprio cielo

alla stregua in cui s’immagina

un altrove chiamato paradiso

e ancora…

si vive

per approssimazione

si sta come

d’autunno…

di ungarettiana memoria o

dall’origine

scollàti dal cielo

a vestire la morte

… fino

al fiume di luce che

ci prenderà e saremo

un’altra cosa…

congetture

… ma lasciatemi sognare

un sogno che non pesa

Ecco: vorrei poter concepire una lettura che ne rievochi il battito; la sublimata cadenza dei versi a punteggiare un cielo nel cuore; vorrei restituire il movimento, nudo, degli occhi, a spalancare ogni possibile umore del sangue; vorrei poter dire con Serino che anch’io “da fenditure di un sogno/ spio il mondo; e forse anch’io vorrei “preesistere” all’amore, “gabbiano nel fondo degli occhi”, “veleggiato impastato di luce”, sparire come “chi in sogno segua una successione di stanze” e uccelli vede uscire dalla testa e “nel becco i versi d’una vita”. Ma poco rende il mio occhio, lo so; poco la mia parola che invoca le viscere e anche il mio sangue coltiva il fiore che non so dire. Così attendo alla capacità dei singoli d’innamorarsi d’un fiore di poesia; al sentimento di chi gli accosti l’orecchio, perdendosi quanto basti ad ascoltarne il battito perché ne ricavi unguento e bussola, donde un filo di luce tremebonda gli dia la formula che il poeta aveva tra i versi nascosta, mentre saliva sanguinando in bellezza la poesia.

Giovanni Perri

http://poesiaurbana.altervista.org/recensione-frammenti-luce-indivisa-felice-serino-centro-studi-tindari-patti-nov-2015/

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FRAMMENTI DI LUCE INDIVISA

di Felice Serino

Il titolo di questa raccolta di poesie di Felice Serino è un ossimoro. Indiviso è, letteralmente, ciò che non è stato diviso, che non è possibile frazionare. Eppure, qui, la “luce” è stata ridotta in “frammenti”. Dunque, sembra esserci una contraddizione nel titolo, il quale, tuttavia, suggerisce il tema fondamentale che attraversa tutta la silloge, e cioè la difficoltà di rappresentare, di tradurre in parole, in versi ciò che si dà solo nascondendosi e che lascia di sé delle tracce, dei “frammenti” restando “presenza” inespressa, unità indivisibile e inafferrabile nella sua pienezza, nella sua misteriosa, “oscura” luminosità. E qui l’ossimoro caratterizza la natura della “luce”: di essere essenza aletheica 1), manifesta e, al tempo stesso, ineffabile. Fuor di metafora, la “luce” è la creazione, la poesia stessa ed è la bellezza che essa emana, in quanto sorgente da cui sgorgano le immagini, le visioni, i lampi che aprono al poeta il cammino lungo i “bui corridoi di parole dove/ una quartina balenante e poi indistinta/ vuol farsi luce ma quasi per sfida/ inafferrabile si fa/ gioca a nascondino con lui preso/ di sorpresa nei suoi vortici…ahi!/ sprovveduto poeta che non sa/ raccogliere in tempo un sangue vivo”. Questi versi, insieme con altri testi, appartengono alla sezione “Ladro di parole”: titolo che, se da un lato, sintetizza quell’impossibilità di cogliere pienamente la Bellezza, la quale è “spirito vitale” che nutre la sua vena creativa e gli “ribolle” dentro come sangue, dall’altro lato, indica il “mestiere” del poeta, il quale, sognando e agognando l’irraggiungibile meta, si ritrova a percorrere e a inoltrarsi nel bosco del linguaggio in cerca delle parole più adatte a rendere l’amore e la passione che lo governano e che egli tenta di catturare, di sottrarre, di strappare all’oscurità che sempre incombe lungo i sentieri della creazione. Ma ciò che egli coglie sono appunto i “frammenti” di una “luce” che filtra tra i rami inestricabili dell’impenetrabile foresta dei segni che, diventando simboli, partecipano di quella oscurità luminosa, di cui rimandano appena un lucore che non lascia rifulgere l’angelica bellezza, in virtù della quale il nostro poeta si sente trascendere senza però che riesca ad esprimerla. (“a trascendersi in me/ è forse un angelo/ (…) mi asseconda/ a snudare la bellezza/ da frammenti di parole e suoni/ qui nel mio sangue/ ecco si leva il fiore/ che non so dire”). In Serino, il desiderio d’infinito è più forte del dolore, del senso d’impotenza, del sentirsi preda del caos degli eventi. Una grande fede lo sorregge nel faticoso cammino esistenziale e non lo fa desistere dalla ricerca dell’assoluto, dal quale l’atavica caduta ha allontanato l’uomo gettandolo nel “mare-mondo”, in una distanza che sembra incolmabile. Ristabilire il contatto col cielo è possibile “se il precipitare/ in se stessi è in vista di risalita”. Fede e speranza permeano questa silloge, ma è la poesia a determinare quello slancio verso l’infinito.

Perché essa è brama, è quella sehnsucht, quel tendere, alla maniera dei romantici, verso qualcosa d’inattingibile che, per Serino, è la “luce indivisa” della creazione: l’origine divina da cui tutto si è generato e verso cui tutto tende a ritornare. Ed è quell’oltre, dove “non c’è ombra”, dove la visione sarà chiara; dove, secondo l’insegnamento di San Paolo, guarderemo “faccia a faccia” e non più “per speculum in aenigmate”. Lì, l’uomo conquisterà la piena conoscenza, prenderà posto nella verità, si riconoscerà parte del Tutto che è in lui. Sarà come specchiarsi nell’Aleph, in quell’unità, in quel principio, in quel punto che per Borges è l’inizio, il tutto, la fine. E, dunque, secondo l’intuizione di Serino, la vita e la morte non sono l’una il contrario dell’altra, e viceversa; non si contraddicono; anzi, è dalla morte, dalla creazione ex nihilo che scaturisce la vita, e perciò “la vita non è prima/ della morte”.

Questo stretto legame tra la vita e la morte è presente, soprattutto, nella prima sezione: “Di luce indivisa”, che riprende il titolo della raccolta. In parallelo con la morte – con la quale la vita si accompagna (“la vita ha in tasca la morte”) e che è il tessuto di cui la vita stessa è fatta, un “perpetuo/ tramare/ “cospirazioni” del nascere” – è il tema del dolore: “non solo quello/ da carne-urlo animale/ ma sublimato”, sentito, vissuto soprattutto come sacrificio, nello spirito e sull’esempio del Cristo, come “Passione per la porta stretta”: quella che, come c’insegna il Vangelo, conduce alla vita e alla salvezza. La figura del Cristo è ricorrente ed è presente nei martiri della cristianità, in Agostino, in Madre Teresa, in Gino Strada, ai quali Felice Serino dedica alcuni testi appassionati, densi di spiritualità. E non manca, accanto alla fede, alla fiducia piena nel Signore, al quale egli chiede di plasmarlo secondo il Suo volere offrendosi ai Suoi piedi come “sgabello di gratitudine”, la terribile domanda dell’uomo del nostro tempo: quel “Grido” d’angoscia e di risentimento, al tempo stesso, lanciato forte verso il cielo e rivolto a un Dio assente o indifferente di fronte alle immani tragedie e ai mali che affliggono questo nostro povero mondo. Un “Grido” che, per la sua carica di dolore e di sgomento, tanto ricorda l’urlo di Munch. Esso si ripete più volte, come se volesse percuotere e scuotere le addormentate coscienze e sollecitarle a “rigenerarsi nell’urlo/ della Croce”. E quest’urlo che sembra squarciare il silenzio di Dio, scostare il velo del mistero, fa sì che il nostro poeta si affidi all’angelo custode perché lo “aiuti a scalzare/ ogni giorno la morte”, si senta sollevato dalla precarietà del vivere e si abbandoni al sogno fino a contemplare il “fiume di luce” oltre la morte, la quale egli finisce per negare, nella certezza di essere da sempre nella mente di Dio e, dunque, di godere già di una vita eterna, alla quale è impossibile morire. In Serino, il sogno ha questa funzione “rivelatrice”, escatologica, ma è anche il tuffo nel passato, il nostalgico “ritorno” alla “verde età fuggitiva”, che il poeta “rivive” in “lampi di visioni”.

Non mancano in questa raccolta le poesie a tema sociale. In “Hikikomori”, “l’oriente/ dove cresce la luce” si perde con la poesia del mondo dietro “le spalle” dei ragazzi che, fagocitati dalla rete informatica, s’illudono di vivere esperienze reali senza rendersi conto di “precipitare” nel vuoto dei rapporti virtuali, di vivere “vite separate tra l’ombra e l’anima”, ovvero, quella condizione di «solitudine multipla» che il sociologo Aldo Bonomi ha sintetizzato efficacemente nel concetto di uomo glocale, condannato alla solitudine, pure essendo a contatto con tutto il mondo attraverso il sistema di comunicazioni in cui è immerso. In “Borderline”, il poeta rivolge uno sguardo pietoso ai miseri, ai diseredati, ai poveri “cristi” traditi dalla vita, prima ancora che dall’indifferenza degli uomini. Nell’ultima sezione: “Dediche e trasfigurazioni”, sono ricordati eventi tragici (l’11 settembre), le vittime per la giustizia, e personaggi, ovviamente cari al poeta, come l’amico Flavio, i poeti Ungaretti, Alda Merini, Rimbaud, Whitman; lo scrittore Hemingway; il filosofo mistico Swedenborg; l’attore James Dean; S. Francesco. E ritornano gli emarginati nella figura del clochard, “puntatoa dito/ quest’uomo fatto/ torcia/ per gioco”. In questa silloge, che può essere considerata una “biografia” dell’anima del nostro poeta, troviamo, proprio tra le dediche, una poesia in cui egli parla di sé, del proprio “male di vivere” che riesce a respingere, a ricacciare indietro, come un “satana”, trovando la forza nella nuova luce dello sguardo dell’anziano con il quale si accompagna e i cui semplici gesti, un sorriso, una parola gli fanno riscoprire il senso e il piacere della vita. E questa riscoperta è la meta, che dà inizio e valore al cammino dell’uomo e del poeta Felice Serino.

(Guglielmo Peralta)

1) il termine è mio, derivato dal greco aletheia: svelamento, rivelazione, nel senso heideggeriano di non essere nascosto dell’ente.

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Felice Serino, Frammenti di luce indivisa (poesie scelte) letto da Angela Greco

Frammenti di luce indivisa – poesie scelte è l’ultima opera di Felice Serino pubblicato dal Centro Studi Tindari-Patti (ME) nel mese di novembre 2015 (dello stesso Autore Il sasso nello stagno di AnGre ha ospitato anche la precedente raccolta poetica uscita nel 2014).

Il testo è articolato in cinque sezioni (Di luce indivisa; Dai cieli del sogno; Ladro di parole; In divenire; Trasfigurazioni e dediche) comprendenti una selezione di testi poetici che abbraccia i temi emblematici della poetica di Felice Serino: lo spirito, il rapporto con Dio, il proprio vissuto e la propria età, il sociale, ovvero quei motivi vicini ed universali che hanno colpito la sensibilità del poeta e che egli ha voluto “fermare” sulla carta. Sono attimi, frammenti appunto, catturati tra le esperienze quotidiane del corpo e dell’anima, momenti che Felice Serino vive profondamente e restituisce al lettore alla luce della sua esperienza del mondo. Quindi frammenti di luce non divisa, unita, indivisa appunto, come recita il titolo, perché ogni cosa, ogni persona, ogni incontro con l’umano e con il l’oltre-umano, per Felice è parte del tutto, è scintilla, raggio, che fa parte di quella luce maggiore qual è la Vita, intesa nel suo tratto terrestre e nel suo prosieguo oltre la stessa. E anche la Poesia diventa un modo di partecipare ad un progetto più grande del mero scrivere, di quell’atteso emozionare che principalmente è chiesto ad una poesia, divenendo in questo caso strumento di crescita soprattutto spirituale; elemento, quest’ultimo, in cui l’autore si ritrova pienamente.

E’ una poesia dal tono asciutto, dal verso breve (come già nella precedente silloge di cui abbiamo avuto modo di apprezzare qui su questo blog), incisivo e colmo di studio, di preparazione sull’argomento, come ad esempio quando ‘parla’ Sant’Agostino a pag.23 (Si dice di Agostino), dove il poeta dimostra di aver ruminato il fatto filosofico, rendendolo in parole comprensibilissime, semplici come di francescana memoria.

Una nuova scelta di poesie, dunque, quest’ultima di Felice Serino, dove non dispiace trattenersi e perdersi, approfondire e apprendere, accompagnati pagina per pagina dalla matura serenità dell’autore, che emerge in una dolcezza che non lascia non indifferente il lettore. (Angela Greco)

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poesie tratte da Frammenti di Luce indivisa (Centro Studi Tindari-Patti, 2015)

L’angelo

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noi lacere trasparenze

-sostanza di luce e di sangue-

a superare d’un passo la morte

.

solleva l’angelo un lembo di cielo

svela l’altra faccia del giorno

(pag.19)

*

Vortice di foglie

 

.

distrazione

del Supremo – dici – la nostra parte

mancante? ovvero caduta

d’angelo nel mare-mondo?

.

non siamo

che un vortice di foglie…

.

ma se il precipitare

in se stessi è in vista di risalita

(alla notte

segue il giorno)

.

allora non esiste

–sai- chi potrà recidere

questo cordone ombelicale col cielo

(pag.43)

*

Congetture

.

si vive

per approssimazione

.

si sta

come d’autunno…

di ungarettiana memoria

.

o

dall’origine

scollàti dal cielo

a vestire la morte

…fino

al fiume di luce che

ci prenderà e saremo

un’altra cosa…

.

congetture

.

… ma lasciatemi sognare

un sogno che non pesa

(pag.49)

*

Venne a trovarti la poesia

.

giunse come un vento lieve

a frugarti le pieghe

dell’anima

e guidandoti verso stanze

inconsce

mondi paralleli ti apriva

.

… ora sperimenti

il tuo daimon

-a divorarti

per sempre

(pag.72)

.

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941; autodidatta. Vive a Torino. Ha pubblicato varie raccolte: da Il dio-boomerang del 1978 a D’un trasognato dove del 2014. Ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in sei lingue. Intensa anche la sua attività redazionale. Tutta la sua opera è visibile on-line.

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SEGNALAZIONE VOLUMI = FELICE SERINO

FELICE SERINO : “ LA VITA NASCOSTA” – Ed. Il mio libro – 2017- pagg. 368 – € 22,00 —-

Con una propria narrazione pacata e teneramente cucita Felice Serino (1941) riesce a realizzare volumi di poesia concepiti nel ritmo musicale corposo e ricco di sfumature , validamente sostenuto dalla sua intaccabile coagulabilità di autodidatta. Poesie scritte tra il 2014 e il 2017 , e qui sciorinate in capitoli : “trasfigurati aneliti” , “nell’infinito di noi” , “lo sguardo velato”, colmi di partecipazioni oniriche , di illusioni visive , di fragili vertigini, di aneliti di infinito , di vaghe chimere , di indicibili essenze.

“Ha un titolo davvero bello – scrive Giovanni Perri in prefazione – la silloge che il poeta mette in stampa affinché ci colga da subito pienezza e fragilità di un canto da cui discendere , o salire appunto, nel medesimo barbaglio, in un solo grande abbraccio di luce a raccoglierci, a definirci : scintilla interminabile di occhi inconclusi eppure trattenuto nella stessa ferita, nella stessa livida vitalità.”

Un tipo di poesia che fa leva sugli occhi, sulle capacità visive policromatiche degli occhi, questo organo della vista che ci permette di vedere, a volte, cose inaudite se accompagnato e potenziato dalla immaginazione. In questa poesia, da un semplice atto di osservazione, l’autore ricostruisce tutto un universo di sensazioni, di percezioni, di idee che altrimenti sarebbero rimaste nel buio del non-detto. Con la freschezza degli spazi precisi e centrati , con la tensione condivisa e affascinante degli incantamenti, Felice Serino ripropone i suoi esperimenti stilistico formali, ricchi di figure retoriche di armoniose e ampie declinazioni, mostrando le possibilità che la parola , povera e sussurrata , scopre nel fermarsi e fuggire, con levigatezza e nitore. L’alba e il tramonto, la primavera e l’autunno , l’amore e la morte , le vele e i sussulti , le nudità e i tumulti , vanno oltre il ripiegamento solipsistico, ove la superficie della tela ha la ricchezza di sinestesie e di nascondimenti coloristici, quasi a suggerire toni e controcanti in emblemi e stilemi.

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ANTONIO SPAGNUOLO

http://antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.it/2017/05/segnalazione-volumi-felice-serino.html

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Così commenta Vanni Spagnoli la mia pubblicazione LA VITA NASCOSTA su ilmiolibro:

Forse davvero “per nessuno c’è il nulla o la morte definitiva”, ma è certo che nell’aldiqua Felice Serino sperimenta, coi suoi versi, l’angoscioso passaggio tra una presenza e l’altra, tra uno ieri che lascia tracce precise che resistono agli anni ed un oggi che, troppo spesso, lascia smarriti. Poesie davvero toccanti.

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nota di lettura a “La vita nascosta” di Felice Serino (di Giovanni Perri)

E’ appena uscita, nei tipi “Il mio libro”, l’ultima raccolta di poesie di Felice Serino “La vita nascosta” (pagg. 368, euro 22; 2017): un volume corposo a cui il poeta ha dato impegno e abilità nel combinare forme quasi al limite della palpabilità, tale è la materia dei suoi versi, sempre indicativi d’un limite da attraversare, una soglia variamente percepita a memoria di palpito o sollievo, come segnata a margine di un sogno. Ed è inconcluso e sovratemporale il sogno, girato nel cono di luce che lo svela.

Serino ha questo progetto di magia nei versi: poesia come attraversamento e sosta, domanda nella risposta; inventario di formule aeree illuminate e illuminanti: quasi fosse un tragitto segreto tra pareti di vetro da cui vedere. Spesso si nota un tentativo di infrangere il vetro, magari con un urlo, magari l’urlo fa solo tremare il vetro, ma quel tremore basta poco a capire che è la sostanza del nostro mondo interiore: un mondo clessidra, pieno di feritoie e nascondigli, tutto paure e desideri, bagagli con dentro il timore della felicità. Perché felicità è il Dio ascoso a cui Serino pensa con tutta la gravità possibile, cucendo lo strappo dell’amore-inquietudine, nella dicotomia essere/apparire, nella indomabilità del respiro di ogni minima luce da cui ripartire, nel desiderio di trascendere ogni possibile forma. Serino ausculta ed espande le onde magnetiche di un attrito originario: il battito del tempo, l’indefinita sosta nel regno dei sensi, ogni distanza immaginabile: ed è un vedere ad occhi chiusi ovvero un percepire, un ballare la danza obliqua della morte sublimando la vita nel brillìo di tutti i suoni.

Al centro la cifra altissima di versi capaci dell’azzurrocielo e del neromare, della terra che ha voce di uomini fatti angeli, vortici dove perdere mani e parola perché è lì la Vita nascosta, la forma entro cui è combinato ogni flash di pensiero, ogni sussulto capace di portarci in un altrove ri-generante.

Giovanni Perri

http://poesiaurbana.altervista.org/nota-lettura-la-vita-nascosta-felice-serino-giovanni-perri/

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Recensione a “La vita nascosta” di Felice Serino

Di Donatella Pezzino

Il poeta: sognatore, visionario, angelo caduto. Nel caso di Felice Serino, anche viandante. La cui strada sta in quella sottile zona intermedia tra il mondo sensibile e la dimensione trascendente. Per questo viandante, la vita stessa è viaggio; una ricerca continua e instancabile, un afflato spirituale, prima ancora che lirico, verso quell’oltre che ogni realtà sembra sempre celare in sé. Non a caso, “La vita nascosta” è il titolo della pluriennale raccolta di liriche nelle quali, dal 2014 al 2017, l’anima del viandante si è voluta raccontare, riversare, svelare: nelle dolcezze dell’attimo, negli inciampi sotto la pioggia battente, nei vuoti incolmabili, nelle domande senza risposta; nei lunghi dialoghi con sé stessa e con Dio. Questo è Felice Serino, fine artigiano di sogni reali e di realtà sognante, aedo di una dimensione parallela in cui tutto parla con il linguaggio perfetto, intellegibile solo all’anima: il silenzio. E in Serino il silenzio racconta i ricordi, le lotte, gli affanni segreti; facendosi racconto di un lungo percorso verso quel punto luminoso e vitale che, lungi dall’essere il punto d’arrivo, diventa abbandono catartico. In questo percorso, l’anima errante si fa parola, e parola silenziosa; in quella contemporaneità di passato, presente e futuro che è, in fondo, la vera estensione del nostro vissuto. Come ogni silenzio, anche la parola silenziosa di Serino è coincidenza di opposti: tutto e niente, vita e morte, trascendenza e immanenza, carne e spirito. In quanto tale, ogni parola è un infinito: di voci, di suoni, di odori; di ricordi, di percezioni; di gioie incontenibili e di dolori laceranti. Quante cose quindi potrà raccontare? Quante potrà fare emergere dal cuore di chi sa ascoltare? Per questo, in Serino l’autore si fa, più che creatore, scultore del verso: uno scultore sensibile e amorevole, che rivela, sbozza, combina forme e sfumature; senza mai eccedere, perché la bellezza, così come la verità, sta sempre nel giusto, nell’armonico, mai nell’eccesso. Ecco perché ogni poesia di questo autore spicca per la sua moderazione: nei colori soffusi, quasi un bianco e nero appena rosato; nel numero dei versi, pochi e intrisi di dolcezza, anche quando in essi è il grido dirompente, lo strazio esistenziale, la malinconia che corrode. Un fiore esangue, spampanato già al suo sbocciare: perché nei suoi colori, l’occhio dell’anima vede già come fatto compiuto quel trascolorare che della morte ha solo l’apparenza, ma che in realtà manifesta la vera essenza della vita. Lo spirito: ecco la dimensione nella quale tutta la poesia di Serino si fa carne e sangue, per sublimare poi nella fede ciò che per altri è destinato a rimanere puro male di vivere. In Serino, la coscienza del dolore è ferita aperta: viva, bruciante, inguaribile. Eppure, il dolore è luce. Che ci guida, che ci sostiene. E che pure è possibile amare:

pure

ami la luce

ferita:

chiedile

delle infinite crocifissioni

fattene guanciale

in notti di pianto

Una fine che è dentro ogni inizio: perché andare avanti è un guardarsi indietro, dove uno specchio moltiplica all’infinito le nostre contraddizioni:

Luce ed ombra rebus in cui siamo

impronte di noi oltre la memoria

forse resteranno o

risucchiati saremo

ombre esangui nell’imbuto

degli anni

guardi all’indietro ai tanti

io disincarnati

attimi confitti nel respiro

a comporre infinite morti

C’è ovunque, in questo voltarsi indietro, un forte senso delle cose perdute: non puro e semplice rimpianto, ma quasi una cancrena, cresciuta nella parte più nascosta del cuore per poi radicarsi in ogni punto della carne, fino a creare un velo tra noi stessi e la nostra capacità di rapportarci al presente:

pensando a te vedo

il vuoto di una porta

e dietro la porta ricordi

a intrecciare sequenze indistinte

sogni e pensieri asciugati

mentre un sole

di sangue s’immerge nel mare

Il presente, in questo senso, si configura come una lunga sequenza di déjà-vu, intrecciando il vissuto alla memoria, e le immagini dei luoghi sognati a profumi realmente accaduti:

del luogo sente quasi il profumo

salire dalla terra

lo spirito che si piega

a contemplare

gli sembra di esserci già stato

o forse l’ ha sognato

… e quell’albero vetusto

sopravvissuto

a suo padre a fargli ombra

a occultargli

in parte l’ampia veduta

del mare quello stesso mare

che vide i suoi verdi anni

e il vissuto

(come in sogno) divenuto

lontana memoria

Il mare, la terra, la giovinezza; la visione, il ricordo, e poi, più profondamente, la coscienza di sé, nuda, scarna. Un sé da cui la morte, prima ancora che la vita ci abbia detto chi siamo, ci separa, ci libera, stemperandoci amnioticamente nelle acque di un cielo in cui la rinascita è al tempo stesso un ritorno.

alla fine del tempo

è come ti separassi da te stesso

in un secondo ineluttabile strappo

simile alla nascita

quando

ti tirarono fuori dal mare

amniotico

luogo primordiale del Sogno

stato che

è casa del cielo

Nella morte tutto, forse, sembra acquisire un senso nuovo: perché in quel distacco, paradossalmente, il mondo ci possiede come mai quando eravamo in vita:

ritenere antinomia

la morte – la tua

come un abbaglio o un

trapassare di veli

e nel distacco

quando

il mondo senza più te sarà

impregnato della tua essenza

” leggerai” il tuo

necrologio

pagato un tanto a riga

Non manca, in queste liriche, l’appello al sogno come via di salvezza dalla più scabra disillusione: ma lo scandaglio, minuzioso e severo, sembra non avere esito certo. La domanda resta appesa; gli anni a tremare, indistinti, nella loro stessa ombra. E’ l’indefinito, uno dei motivi più forti e pregnanti di tutta l’opera: quel punto cartesianamente evidente, chiaro e distinto, l’unica verità delle cose che, in ultima analisi, ci è data di conoscere.

è nello spazio delle attese

nel bianco del foglio

nel buco nero del grido di munch

l’indefinito

è nell’aprirsi del fiore

nel fischio del treno in un lancinante addio

nell’intaglio

dello scalpello su un marmo abbozzato

l’indefinito è in noi

sin dallo strappo

di sangue della nascita

Non esiste antidoto alla nostra piccolezza, alla nostra finitezza: tutte le riflessioni, anche le più raffinate, ci portano sempre allo stesso vicolo cieco, alla stessa prigione di carne e sangue dove lo spirito soffre, ricorda, ama. Per questo il viaggio, seppure inquieto e periglioso, è preferibile alla quieta stasi di una stanza chiusa: “forse meglio l’attesa/a dipanare e sdipanare le ore/che l’appagamento/senza più desideri”, perché il bisogno di desiderare è insito nella stessa condizione umana; quasi come l’atto del respirare, in cui un respiro ne attende un altro, e poi un altro ancora, per permettere al corpo di continuare a vivere. E’ questa attesa che rende l’uomo, pur nella sua limitatezza, arbitro del suo destino; all’interno, però, di un disegno più grande da cui Serino, in quanto uomo di spirito e di fede, non può prescindere:

chi mai ti toglierà quel posto

da Lui riservato

secondo i tuoi meriti

altro è la poltrona

accaparrata a

sgomitate

trespolo che pur traballa

come in un mare mosso

finché uno tsunami

non la rovescia la vita

Chi è il Dio di Felice Serino? Da un filosofo, costantemente proteso al fine lavoro speculativo, potremmo forse aspettarci qualcosa di complesso, di aristotelico, che ci spieghi in qualche modo i grandi quesiti dell’esistenza. Invece, il Dio di Serino è amore. Solo e semplicemente amore, e conoscibile in quanto la nostra anima ne costituisce il riflesso:

noi siamo proiezione di Dio

e come angeli incarnati

del nostro Sé

similmente di noi

i nostri figli

-frecce scoccate oltre

il corpo

dall’arco teso dell’amore

E’ il Dio dell’infanzia, della semplicità: dei lunghi colloqui del bambino con il proprio angelo custode, della vita dopo la morte, dell’eternità di quella Luce che culla e conforta l’anima alla fine del viaggio:

la Tua luce

abita la mia ferita

che trova

un lieto solco

nel suo risplendere

Tu

a farti bambino ed ultimo

per accogliere

il nomade d’amore

dalle aperte piaghe

Piaghe che rimandano ad altre, più profonde e traboccanti: le piaghe della Passione, il cui rosso sangue diventa, come l’ultima luce del cielo al tramonto, faro di salvezza per le anime disperse nei marosi della vita:

acqua mutata in vino

perché continui la festa

così al banchetto del cielo

con l’Agnello sacrificato

acqua e sangue dal Suo costato

dal sacro cuore vele

le vele rosse della Passione

nella rotta del Sole

per gli erranti della terra

E, seguendo questa rotta, si arriva; come è accaduto alle anime piccole che hanno creduto, e che chiudendo gli occhi hanno visto, attraversando il fango del mondo senza restarne macchiati, come espresso in questi versi dedicati a Madre Teresa:

la verità è il tuo sangue

che vola alto

planando

su celestiali lidi

oltre

le sere che chiudono le palpebre

sul cerchio opaco del male

http://poesiaurbana.altervista.org/recensione-donatella-pezzino-la-vita-nascosta-felice-serino/.

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SEGNALAZIONE VOLUMI = FELICE SERINO

Felice Serino – “La vita nascosta” – (poesie 2014 – 2017)

Copyright 2017 by Felice Serino

Felice Serino, nato a Pozzuoli e residente a Torino, autodidatta, è un poeta che ha ottenuto numerosi consensi critici e che ha vinto molti premi letterari. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia.

Gestisce svariati siti su Internet di ottimo livello e qualità, che ospitano anche poeti prestigiosi. E’ stato tradotto in otto lingue.

“La vita nascosta” è un’opera corposa nel suo racchiudere le raccolte del Nostro “Trasfigurati aneliti” (2015) e “Nell’infinito di noi” (2016) ed è corredata da una presentazione di Giovanni Perri ricca di acribia.

Cifra essenziale, che connota la poetica del Nostro, di raccolta in raccolta, è una vena originalissima che parte da una visione del sacro, visto sia in maniera trascendente che immanente. Serino si pone nei confronti della realtà, del mondo, del cosmo, che nella nostra contemporaneità spesso diviene caos, inizialmente come creatura che anela ad un essere superiore tramite una religiosità che supera e va oltre le forme confessionali e ritualistiche della Chiesa. Sono spesso nominati da Felice Dio, Gesù, la Madonna e soprattutto gli angeli, ma il poeta non cade nel dogmatismo, credendo in un amore interessato per Dio, in un rapporto con Lui non mediato, tipico dei mistici, e che trova la sua realizzazione, il suo inveramento proprio attraverso, le sue poesie, che presentano unitarietà del discorso e coerenza. Proprio in questo modo e in tal senso egli da creatura si eleva a persona, che vive criticamente in una società, relazionandosi con essa secondo una sua personalissima visione del mondo. Tema essenziale del suo “riflettere in versi” è quello dell’amore per la vita, che lo porta ad una certa forma di ottimismo. Per Serino l’esistenza umana èdegna di essere vissuta e anche la morte non è considerata come la fine di tutto, ma come il passaggio dalla transitorietà all’eternità. Non solo i contenuti sono originali nel poiein dell’autore, ma anche la forma dei suoi testi in massima parte brevi. Il poeta attraverso gli occhi si rivolge alle cose che lo circondano, che vengono trasfigurate in versi, divenendo cariche di senso e di pathos. Ecco dunque il sentire di Serino in “Trasfigurati aneliti”, che esprime la stabile tensione del poeta verso l’universo e anche verso il microcosmo. Il libro è costituito da 45 componimenti tutti forniti di titolo e non è scandito in sezioni. Trasfigurati aneliti potrebbe essere letto come un poemetto vista la sua unitarietà e tutte le poesie che lo compongono fluiscono in lunga ed ininterrotta sequenza e sono risolte in un unico respiro. S’incontrano diversi interlocutori in questa raccolta, ai quali l’io-poetante si rivolge, figure che sono Dio, Gesù, gli angeli e anche esseri terreni dei quali ogni riferimento resta taciuto. Una vena epigrammatica connota il dettato del poeta che pratica una poesia neolirica. Si notano precisione, velocità, leggerezza, icasticità, grazia e armonia nel versificare di questo autore. A volte il tema del sacro si coniuga con quello della classicità, in versi sempre luminosi e controllatissimi.

In “Nell’infinito di noi”, Serino continua ad elaborare la sua personalissima e originale ricerca letteraria. La raccolta è suddivisa in due sezioni, entrambe costituite da quarantacinque componimenti, “Lo sguardo velato” e quella eponima. Se la poesia è in se stessa sempre metafisica, si deve mettere in evidenza che, di raccolta inraccolta, Felice riesce a produrre componimenti collegati tra loro che, oltre ad essere metafisici, sono connotati sempre da un forte alone, o ancora meglio, da un’aurea di sorprendente misticismo postmoderno. Il suddetto si può evincere, sia in testi che hanno come oggetto o tematica figure tratte dall’immaginario religioso, come il Cristo o gli angeli, sia quando il poeta proietta la sua vena trascendente in situazioni del tutto quotidiane, nelle quali l’io – poetante e le varie figure protagoniste, dette con urgenza, sono in tensione appunto verso l’infinito (e qui giocano un ruolo importante le tematiche della nascita e della morte). Un accentuato senso del sacro caratterizza “Nell’infinito di noi”. Esso qui trova la sua espressione estrema, rispetto alle raccolte precedenti del Nostro, nelle quali già si notava. Il poeta sembra suggerirci, con il titolo della raccolta, che noi esseri, come persone, pur vivendo sotto specie umana, per dirla con Mario Luzi, già nel nostro transito terreno siamo infiniti e che le nostre anime sono immortali. I componimenti sono tutti connotati (e non potrebbe essere altrimenti per quanto già affermato), da sospensione e magia che si realizzano nei versi icastici, veloci e leggeri. Stabile è la tensione verso il limite nella ricerca dell’attimo in senso heideggeriano, della vita oltre il tempo degli orologi. Così Serino produce tessuti linguistici pieni di illuminazioni e spegnimenti, nei quali è visibile una luce, che è appunto quella di una realtà soprannaturale, che si proietta tout-court in quella delle nostre vite, restituendoci una notevole carica di senso. Particolarmente affascinante, nella sezione eponima, la poesia intitolata proprio Nell’infinito di noi, nella quale sono stabili visionarietà, sospensione e dissolvenza. In questa il tu, al quale il poeta si rivolge, e del quale ogni riferimento resta taciuto, è Nina, una figura che, nell’incipit, volteggia nelle stanze viola della memoria. Qui si evidenzia una forte tensione attraverso una parola sempre raffinata ed avvertita. Particolarmente alto il verso apparire o entrare nello specchio/ dell’essenza, nella quale è presente una forte valenza ontologica. Nella seconda breve strofa della composizione il tu afferma che qui siamo affratellati nel sangue con la terra e la morte. Poetica mistica, dunque quella di Serino, la cui cifra essenziale è quella di una parola che scava in profondità per riportare alla luce l’essenza dell’esistere in tutte le sue sfaccettature.

Perché il titolo onnicomprensivo La vita nascosta? La risposta risiede nel fatto che nel mare magnum del nostro postmoderno occidentale l’umanità è alienata e vittima del consumismo e del mondo dell’avere che prevale su quello dell’essere su uno sfondo dove Dio è morto e i valori non esistono.

I poeti in generale, e tanto più Serino che oltre ad essere un poeta è un mistico, nel loro pensiero divergente, trovano la felicità in altri modi e la vita nascosta di cui ci parla il Nostro è una vita parallela a misura umana perché sottende l’atto di fede nell’esistenza dell’eternità e non la credenza nel nulla eterno foscoliano.

*

Raffaele Piazza

http://antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.it/2017/06/segnalazione-volumi-felice-serino.html

http://www.literary.it/dati/literary/p/piazza/la_vita_nascosta_poesie_2014.html

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Riflessioni di Lorenzo Spurio su LA VITA NASCOSTA

(dalla lettera privata del 31 luglio 2017)

Caro Serino,

ho letto il tuo libro e mi complimento con te per questa estesa e notevole “opera omnia” (lasciami la libertà di usare questo termine, seppure improprio).

[…]

C’è tanto su cui riflettere (come ad esempio le poesie nelle quali rifletti sul potere della scrittura) e l’esigenza che la poesia “respiri”, ma finirei per scrivere un quaderno intero e forse stancare essendo, queste riflessioni, scaturite dalla mia personale lettura e possono anche non ritrovarsi nei tuoi intendimenti.

Tra le poesie più ricche e che tanto mi hanno trasmesso, ci sono

“L’indicibile, “A bocca piena”, la dolorosa lirica su Rigopiano, “Liquida”.

*

Qui di seguito sono trascritti i testi delle poesie menzionate, vi sono aggiunte la prima e l’ultima di cui nella lettera sono citati dei versi.

Conosco le voci

conosco le voci che muoiono

agli angoli delle sere

conosco le braccia appoggiate

sui tavoli nel risucchio

delle ore piccole

l’aria densa e le luci

che lacrimano fumo

e lo sferragliare dell’ultimo tram

la nebbia che mura le strade

conosco

i lampi intermittenti della mente

i singulti che accompagnano

quel salire pesante le scale

la morsa che afferra e non sai

risponderti se la vita ti scava

e il freddo letto poi fuori

dal tunnel

un altro mattino

per risorgere o morire

*

L’indicibile

dove deflagrano

nude parole al di là

della scrittura

ho cercato nel calamaio del cuore

l’inesprimibile

ciò

che non può essere detto

ho cercato stanze

inesplorate

negli anfratti del mare

le voci

trattenute

nella gola del vento

l’indicibile

nella luce della bellezza

*

A bocca piena

trucidata vita

dai lenzuoli di sangue nei telegiornali

un dire assuefatto freddo

che ti sorprende non più di tanto a bocca piena

che non arriva al cuore

-per quei bambini occhi rovesciati

a galleggiare

su un mare di speranza

la cui patria è ora il cielo

violata la sacralità

vita che non è più vita

vilipesa resa

quale fiore a uno strappo feroce

di vento

*

La slavina

perla nel cuore del Gran Sasso

il “quattro stelle” non esiste più

ghermito dalla mostruosa

mano di ghiaccio

meglio la sorte dei sopravvissuti

ti dici

e ancora sperare

sotto la neve una voce udire

pensi ai familiari perduti

deglutendo caffelatte e lacrime

[tragedia del 18 gennaio 2017]

*

Liquida

è striscia di luce verde

la mente

mentre la forma

assumi

dell’involucro-status quo

alchimie del sangue

nel vestire la vita

il chi-sei

serpeggia

si morde la coda

*

L’essenza

inadeguati noi

gettati nel mare-mondo

legati ad una stella di sangue

noi siamo l’alfabeto del corpo

che grida

il suo esserci

noi essenza degli elementi

appendici della terra

labbra del cielo

.

Felice Serino, La vita nascosta (poesie 2014 – 2017) letto da Angela Greco

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sguardi e il tracimare

di palpiti

alle rive del cuore

aria dolce come

di labbra

incanutire di fronde

nella liquida luce

La vita nascosta (2017), di Felice Serino (Pozzuoli, 1941), ultima silloge edita per i tipi “Il mio libro” (in apertura di questa nota, Sguardi e il tracimare) sin dall’esordio propone un impegnativo corpo a corpo tra lettura e lettore sia per l’importante numero di liriche raccolte, sia per il percorso sacro-intimistico-sociale che in essa si snoda, attraversando momenti pubblici e privati, accadimenti reali e propositi a venire, in un caleidoscopio di sensazioni \ emozioni fedele alla poetica, allo stile e al tono pacato e garbato a cui l’autore ci ha felicemente abituati in questi anni da “autodidatta”, come egli stesso si definisce, rivelando con una sorta di meraviglia, in riferimento alla Poesia, l’essenzialità del fatto che in questo comparto non esistono scuole dove imparare il mestiere, ma, quasi si avesse a che fare con un destino, ognuno è artefice di se stesso. Ed in tempi di proclamate e ostentate scuole-correnti di pensiero non è poco affidarsi a se stesso, con tutte le conseguenze del caso, non per presunzione, quanto piuttosto per volontà di riconoscere fin dove si è capaci di arrivare e scoprendo, magari, che ogni limite può essere un’opportunità.

La silloge, introdotta da Giovanni Perri, propone trecento pagine di testi prodotti nell’ultimo triennio; un dato, questo, che fa ben comprendere il bisogno e la necessità che ancora si hanno della poesia, per la capacità di quest’ultima di riuscire ad esternare quel che è difficilmente esprimibile in altri modi. La poesia è, quindi, ancora un bene indispensabile – ed il lavoro di un poeta di lungo corso dovrebbe far riflettere sullo stato dell’arte – anche in questi nostri tempi di presunto futuro rivoluzionario, di cambiamenti, di distruzione dei valori fino allo sgretolamento della parte umana dell’essere vivente. Felice Serino crede nella poesia, come veicolo di miglioramento e di crescita, tanto del poeta quanto del fruitore della stessa, e nelle sue liriche racconta il vissuto, porta materialmente l’esperienza la riuscita e la disfatta con molta onestà, ad esempio, come si legge in Luce ed ombra:

luce ed ombra rebus in cui siamo

impronte di noi oltre la memoria

forse resteranno o

risucchiati saremo

ombre esangui nell’imbuto

degli anni

guardi all’indietro ai tanti

io disincarnati

attimi confitti nel respiro

a comporre infinite morti

L’interesse di Serino è senza dubbio l’Uomo, la Persona, in un’ottica trascendentale, plurale, e mai personalistica: anche quando il soggetto è l’Io, la riflessione poetica non si ferma mai al Sé, ma abbraccia sempre e comunque l’esperienza che può già essere o diventare patrimonio comune. Serino si pone come suggeritore, come consigliere, come insufflatore di positività. Ed ecco, allora, che anche l’esperienza più drammatica, come la morte, in questo poeta diventa qualcosa che non chiude, ma piuttosto apre ad una nuova visione e l’Uomo, nonostante i difetti, viene ad essere un elemento non attorno a cui ruota tutto il resto, ma un pezzo di un più grande disegno di cui si può solo tentare di dire attraverso la poesia, appunto. Ne La separazione si legge:

alla fine del tempo

è come ti separassi da te stesso

in un secondo ineluttabile strappo

simile alla nascita

quando

ti tirarono fuori dal mare

amniotico

luogo primordiale del Sogno

stato che

è casa del cielo

La poesia di Felice Serino, con la sua concretezza e il suo vissuto, anche laddove prevale il senso etereo o metafisico o quando richiama il sacro e finanche nei riferimenti all’arte, arriva al lettore diretta, mai sofisticata da espressioni scritte soltanto per destare scalpore, per mettersi in mostra o per creare un personaggio; puntuale e delicata anche negli argomenti più impegnativi, questa scrittura poetica rende in modo nitido e molto piacevole il frutto di riflessioni attente e dello studio continuo, sempre quali esternazioni di un grande amore per la conoscenza e per la materia vivente, in tutte le sue forme. Nella verticalità, nel tempo oltre la vita, nell’augurio di luce e nell’ineffabilità di cui è vestito il testo di In questo riflesso dell’eterno a parer mio è possibile leggere i temi cruciali della poetica di questo prolifico autore, che mostra senza fronzoli anche una dote poco comune tra i poeti, la generosità. (Angela Greco)

credimi vorrei dirti che quanto

avviene anche là avviene

oltre le galassie oltre

lo specchio dei tuoi occhi amore

anzi certamente è presente

da sempre in mente dèi

imbrigliati noi siamo in un giorno

rallentato

noi spugne del tempo

assediati da passioni sanguigne

credi mia cara che quanto

avviene semplicemente

lo rappresentiamo

sulla scacchiera del mondo

noi essenze incarnate

in questo riflesso dell’eterno

dove l’anima si specchia

mentre ci appare infinito

mistero la vita – miracolo

tutta questa luce che

ci attraversa

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LETTURE E RECENSIONI: DOVE PALPITA IL MIO SOGNO DI FELICE SERINO

La forza della poesia sta nell’emozione, nella vis che, nella scabra architettura dei versi, nella loro intima struttura genetica, riesce a creare empatia tra il lettore e l’autore, in uno sforzo diegetico che va oltre il normale sentire.

La lettura di Dove palpita il mio sogno conduce all’essenza stessa della poetica di Felice Serino, impulsi creativi che diventano squarci di realtà mistica e surreale. Parole-simbolo, sprazzi di marmorea emotività che Serino scolpisce nella loro nudità, senza infingimenti o barocchismi letterari.

Il poeta rifugge da ogni manierismo lessicale e vive la propria spiritualità creativa in una dimensione quasi sincretica in cui la prosaicità della quotidianità sfocia in proiezioni estatiche: conosco le voci che muoiono / agli angoli delle sere.(…) e lo sferragliare dell’ultimo tram / la nebbia che mura le strade(…) e il freddo letto poi fuori/ dal tunnel/ un altro mattino”.

La palingenesi della natura è un tema costante nella poetica di Felice Serino che confonde in sé l’umano finito e un ermetismo di respiro universale: la luce si spalma / dentro la parola / che di sé vive. Ed ancora significativamente i versi: non si chiuderà il cerchio se / come si sa / è del Demiurgo un continuo creare / infiniti/ mondi-entità col solo sognarsi.

La dimensione onirica, più volte richiamata nei versi, è il privilegio dell’artista, l’isola dei sensi, del tempo che non passa e crea, l’eterno divenire dove la Musa trae la sua forza ermeneutica, il travaglio dell’opera e dove le assonanze emotive hanno la loro forza plasmatica.

Felice Serino vive una genuina stagione artistica, prolifica, raffinata e meritoria. Egli offre nei versi una lettura nuova della realtà sensoriale che trascina a sentire le poesie come frammenti di sogni, in cui la verità è a occhi nudi, che penetra dentro il cuore e la mente del poeta in una simbiotica ed intima sofferenza: sei come quell’albero reciso / la cui ferita bianca / non si vede sanguinare.

Il plasma poetico di Felice Serino, dunque, diventa lavacro di emozioni, candida essenza di sentimento nell’incontro con l’umano. Ma la sensibilità del poeta va oltre l’orizzonte meramente umano, egli, ha ben chiara la proiezione verticalistica del proprio spirito: i versi documentano la religiosità dell’autore che si sviluppa in un tormento che è allo stesso tempo sicurezza e fonte di ispirazione.

L’afflato della Creazione diventa il “sogno di Dio” che si capovolge a causa della insipienza umana, di quell’Adamo, che viene interrogato in modo pleonastico e che esprime nella sua stessa definizione tutta la sua limitatezza.

Il poeta è alla ricerca sofferta di un mondo di luce che rappresenta una moderna pure intima rappresentazione di un eden perduto, relegato alla sua inferiore limitatezza dalla caducità di una materialità imperfetta, a cui solo il sogno può rendere l’anelito a quello infinito essere che chiude il cerchio tra umano e divino.

Un plauso, dunque, all’attivissimo e prolifico Felice Serino che con le sue creazioni riesce sempre a sorprendere ed emozionare i suoi lettori, accompagnandoli in un cammino artistico che diventa anche comunione di sentimenti e di spirito.

By Michele Barbera

https://barberamichele.blogspot.com/2018/11/letture-e-recensioni-dove-palpita-il.html?showComment=1543179299290#c2131173191664556197

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Nota di lettura a Felice Serino, “Asimmetrici voli” di Giovanni Perri

Non c’è volta che leggendo Serino, io non resta catturato da una luce. Luce immagine essa stessa. E non c’è volta ch’io non abbia tra le mani la maglia e ne senta l’esatta materia, la sua nuda trasparenza, lo smalto, l’eleganza.

Questo il primo elemento: il verso illuminante, da cui affiorano gli altri.

Ma questa illuminazione, si badi, non è fatta per indicare qualcosa. Essa non descrive, né è tentata da alcuna cartografia per poeti raminghi; la mèta è la sua stessa radice, il suo primo significato, una sorta di matrice, non so come dire, epidermica, olfattiva. Un distico esemplificativo ci ricorda ch’essa è come l’odore della salsedine / del legno bagnato di cui non può che arrivarci, forse, un’eco sublime come quello della pelle dell’amore. Ci fa quasi tornare all’embrione della materia, al suo antichissimo battito dal quale ogni nostra azione, essendo principio, pretende la fine.

Ed è questo il secondo elemento, mi pare, importante per riconoscere la consistenza di questa poesia: il limen. Luce dunque come elemento di confine, di soglia, ma anche come dimora.

In questo appartenersi avviene il miracolo della parola, la soglia si spalanca e l’immagine urla: […] noi siamo l’alfabeto del corpo / che grida / il suo esserci / noi essenza degli elementi / appendici della terra […] e della terra quindi il lascito grave e generoso, il frutto panico che si fa […] strada nel sangue della parola […].

Procede così, lungo un itinerario aereo, ma anche corporeo, il vocabolo alla ricerca del suo fuoco primigenio, ed è sostanza sanguigna che alberga nella lingua, idioma del riconoscimento febbrile. Serino traduce questa febbre nel Volo asimmetrico, che è il terzo elemento e abbraccia in un certo senso gli altri, avvolgendoli in un magico defluire, in un tripudio di trasfigurazioni che è cifra esatta del suo sentire (o del suo andare per fotogrammi), pellicola del suo occhio interiore che cattura, imprigiona, e dopo libera.

Come un diagramma d’Amore la poesia è fragile foglia / appoggiata a una spalliera di brezza. E il poeta anela a un avvicinamento che è infine identificazione, sostegno, fuga, segreto frammento di sé nel mondo, rammento di un’origine che si ripete ancora e ancora, definitiva, eppure incompiuta.

Giovanni Perri

Felice Serino: Asimmetrici voli. Prefazione Donatella Pezzino. E-book (2017)

Finito di realizzare nel Dicembre 2018 da www. poesieinversi.it

*Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941. Autodidatta. Vive a Torino.

Copiosa la sua produzione letteraria (raccolte di poesia: da “Il dio-boomerang” del 1978 a “Lo sguardo velato” del 2018); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici.

È stato tradotto in otto lingue.

Intensa anche la sua attività redazionale.

Gestisce vari blog e siti.

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La vita immaginata di Felice Serino letto da Angela Greco AnGre

24 NOVEMBRE 2023~ ANGELA GRECO – ANGRE

La vita immaginata – con 14 «profili» della cultura (2019-2023) è la nuova raccolta autoprodotta di Felice Serino, poeta di lungo corso, nato a Pozzuoli nel1941 e residente a Torino, che da anni è impegnato nella ricerca e nella divulgazione di poesia contemporanea. Questa antologia, corredata da un apparato di brevi saggi su figure di spicco soprattutto dell’ultimo secolo, confermala vocazione dell’autore allo sguardo attento e critico sul quotidiano e su quanto vive, sempre alla luce dei suoi capisaldi poetici, etici e religiosi.

Se “la poesia è un dono fatto agli attenti”, come ha scritto Paul Celan, fermo restando il dono, quella di Serino è attenzione rivolta alla poesia e ai suoi lettori ed è, sempre secondo Celan, “un dono che implica destino”, allora questo Autore conosce bene la strada che è stata segnata per lui e che a sua volta segna.

Nelle pagine di questa silloge ogni lettore può cogliere a piene mani il meticoloso lavoro poetico di ricerca e di introspezione che viene offerto, ed apprezzare altresì lo studio e l’impegno nel rendere vive figure d’eccellenza colte da differenti campi, che configurano il percorso letterario, emotivo e umano di Felice Serino, che qui manifesta anche le sue non indifferenti doti di saggista. La forma scelta per la quarta e ultima sezione dell’antologia – quella che comprende i quattordici profili della cultura – è il saggio breve, che avvicina il lettore con una scrittura accattivante, incuriosendolo, restando fedele alla forma – cara ai lettori stessi – asciutta ed essenziale, impreziosita da lemmi specifici che da soli aprono mondi, con la quale questo autore si esprime anche in poesia La vita immaginata è un lungo viaggio dentro e fuori l’essere umano volta alla scoperta e riscoperta dell’umanità non edulcorata, privo di barocchismi che sviino o diano false speranze a chi legge. “Immaginata” è sinonimo qui di “sperata” e non realizzata per questo declino che sembra oscurare qualsiasi cielo. Il poeta, però, nonostante l’inevitabile passare del tempo e della Storia, non cede al ripiegarsi su se stesso, ma diventa luce minima volta ad indicare una possibile alternativa per una vita, appunto, che ora non è. Anzi, che non è ancora. [Angela Greco AnGre]

*

Estratti da La vita immaginata – con 14 «profili» della cultura (2019-2023), YCP, 2023, di Felice Serino.

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Oltre l’ esilio

il più bel giorno è quando

oltre l’esilio della carne

mi verranno incontro i miei morti

e i parenti giunti da lontano

a qualcuno scapperà una lacrima e

nell’estremo saluto c’ è chi leggerà

con voce tremante alcuni versi

ti sei staccato come foglia

adagiata su una spalliera di brezza

Detrattori

non si può fermare

lo sbocciare della rosa

se vuol dischiudersi

anche nel gelo

nuda

disarmante

contro i detrattori di

bellezza – che

splendenza emana e

armonia

Immortalare

immortalare il momento – la

foto è sfocata

immagine

scivolata nel gorgo del tempo

così di te: appesa

all’attimo

dietro l’occhio un’ombra stampata

 

La vita immaginata

(2019 – 2023)

Con 14 <<profili>> della cultura

di Felice Serino

Youcanprint

Poesie e saggistica

Pagg. 417

ISBN 979-12-21481-26-6

Prezzo Euro 26,90

Un´opera corposa, ma varia

Ben 417 pagine che, anche considerando la settantina destinata ai profili di noti artisti, comprovano l´ingente produzione poetica di Felice Serino nell´ultimo periodo, cioè dal 2019 fino quasi a oggi. E questa copiosità nel creare versi è una delle altre caratteristiche di questo autore che sono più ampiamente tratteggiate nella mia presentazione dell´opera costituita da tre sillogi (Dell´indicibileTrasparenze La vita immaginata, donde il nome del libro). Voler parlare in modo esauriente di tutte le poesie si presenta impossibile, sia in termini di tempo che di spazio. Di conseguenza ho dovuto impostare il commento critico in modo che risultasse sintetico, ma nonostante ciò gli estimatori di Serino non potranno che trovare conferme. Che la sua poetica sia una continua analisi introspettiva è fuor di dubbio, tematica che solo in apparenza è limitativa, poiché la ricerca continua del nostro “io” è in grado di svelare nuovi risvolti con il trascorrere del tempo e anche con l´acquisizione dell´esperienza; pertanto non vi è nulla di ripetuto, eventualmente c´è qualcosa di già noto nelle linee generali, fermo restano quella sua capacità di permeare i versi di un alone di magia, con quell´evanescenza che li rende gradevoli, ma non banali. In narrativa potrebbe far venire in mente il realismo magico di Giuseppe Bonaviri o di Gabriel García Márquez, anche se non è proprio così, ma sostanzialmente il richiamo non è azzardato. Il suo è un particolare modo di esporre che penso di aver spiegato con scrupolo nella presentazione e che riporto di seguito: ”Il poeta, di origini napoletane, ma dimorante a Torino, è un artista di lungo corso che via via negli anni ha affinato il proprio modo di verseggiare, e ciò è facilmente riscontrabile leggendo le sue composizioni in ordine temporale, fermo restando quella ricerca introspettiva che è materia propria dell´autore uso ad approfondire con progressività. Nel contesto di ricerca di ciò che può rivelare il proprio Io si nota particolarmente, apprezzando, una visione evanescente che dona particolare fascino, ammantando il verbo di magia, all´intero corpo. I versi tendono a volare, a superare confini naturali per congiungersi a un mondo di fantasia, la cui porta, lo stargate, è in attesa di essere valicata. In questo universo che si potrebbe definire poetico Serino s´invola, novello Ulisse verso un´Itaca che è la propria dimensione interiore, un´avventura senza fine in cui conta di più la conoscenza che si incontra nel percorso che il raggiungimento della meta. E tutto procede in una sorta di limbo, un sogno che porta ad altra dimensione, e in cui con maggior chiarezza è possibile leggere dentro di sé, in una visione che continua a essere evanescente, una sorte di ectoplasma che avvince e respinge. Si resta attoniti, anche sgomenti spettatori di una metamorfosi, di una trasformazione che è un´implosione della persona stessa, e, comunque, il tutto si riassume, si comprende con chiarezza.”. In ogni caso resta una personalità artistica peculiare, tanto che è difficile, se non impossibile, ipotizzare a quale corrente si ispiri. Un esempio che chiarisca il tutto è costituito da una poesia tratta dalla silloge La vita immaginata. Mi riferisco a Proiezioni (proiezioni del Suo pensiero siamo / vaganti tra realtà e sogno – in cerca / d’un’isola felice – viaggio / nell’infinito di noi / isole noi stessi – pure / ognuno anello d’una / catena senza inizio e fine). Ovviamente non è l´unica poesia, perché ve ne sono altre che possono ben illustrare il concetto esposto, ma per me questa costituisce forse l´esempio più lampante. Una novità poi è costituita da questi profili che, così come scrive Serino, hanno un filo spirituale che li lega ed è dato dall´amore nel campo della cultura e dell´arte. Non sono pochi, sono quattordici, un po´ biografia, un po´ analisi critica, e sono relativi a personaggi ben conosciuti (Dino Campana, Dylan Thomas, Vincenzo Cardarelli, Simone Weil, Nella Falzolgher detta Nil, Salvador Dalì, Maurice Maeterlinck, Kahlil Gibran, Arthur Rimbaud, Pier Giorgio Frassati, Rudolf Steiner, Jakob Lorber, Joe Bosquet, Teresio Zaninetti). Come è possibile notare non tutti sono poeti, anche se presentano caratteristiche di artisti o che comunque li ricollega all´arte; si tratta di analisi necessariamente brevi, ma non trascurabili, nel senso che Serino, che evidentemente ha ritenuto di particolare importanza questi artisti, ha fatto di tutto per presentarceli in modo accattivante, così che il lettore possa comprendere il rilievo che gli stessi hanno. Penso ci sia riuscito, resta solo da chiedersi il perché di tale lavoro che, tuttavia, è evidentemente il frutto di una passione fino a ora segreta, di cui ha voluto rendere edotti i terzi.

In questo libro c´è veramente tanto, ma è vario e proprio per questo si legge con piacere, certi che, fra le tante proposte, non sarà impossibile trovare quella che può soddisfare maggiormente.

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941 e vive a Torino.

Copiosa la sua produzione letteraria (tra le raccolte di poesia: “La vita nascosta”, “Vita trasversale e altri versi”, “La vita immaginata”); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E´ stato tradotto in nove lingue.

Intensa anche la sua attività redazionale.

Sue pubblicazioni sono presenti in Academia.edu e in Alessandria today.

Per notizie dettagliate, qui: http://www.literary.it/ali/dati/autori/serino_felice.html

Renzo Montagnoli

https://www.ibs.it/vita-immaginata-libro-felice-serino/e/9791221481266?queryId=4150b6512821f3131656445855f41d1d

https://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=24910

https://www.lafeltrinelli.it/vita-immaginata-libro-felice-serino/e/9791221481266

https://www.amazon.it/review/R1TVVTN1ED0EPY/ref=pe_1640261_66412381_cm_rv_eml_rv0_rv

http://kultunderground.org/art/41739/

http://www.poetare.it/recensioni.html

https://www.libreriauniversitaria.it/vita-immaginata-serino-felice-youcanprint/libro/9791221481266

https://www.mondadoristore.it/La-vita-immaginata-Felice-Serino/eai979122148126

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Una mia nota di lettura alla silloge di Felice Serino “Orizzonti di palpiti”

Poeta presente ma appartato, silenzioso, distinto, Felice Serino raccoglie in questo suo ultimo lavoro “Orizzonti di palpiti” (www.poesieinversi.it 2018/19), gli ultimi testi prodotti in ordine di tempo nei quali appare sempre riconoscibile la traccia dei suoi precedenti lavori; giocati con medesima grazia e perizia nel vivissimo campionario di illuminazioni profonde e pulsanti; nel variare consueto di tensioni ontologiche, nel dilemma inconcluso della soglia e del fine, nell’arte di incidere amore e dolore, delusione, speranza, perdono, col solo taglio di un lemma, con la sola scintilla della lingua, Serino descrive, o finge di descrivere, un’alba visionaria dove una luce quieta ti accoglie in un suo grembo sorgivo.

Ancora una volta vediamo il poeta salire da quella stessa luce che lo genera e da un interno ne sentiamo la voce, quell’espansa poesia degli interrogativi e dei silenzi che rendono possibili

gli approdi, li toccano appena in punta di vertigine, ne liberano il suono e il senso.

Più che una poesia del vedere mi pare di riconoscere dunque una poesia del sentire; un avvertire a distanze altissime il più piccolo rumore di fondo dell’universo mondo, e in quel rumore toccare il nudo stupore di un’origine.

C’è sempre in Serino l’inclinazione al racconto mondano ma esso è reso filosoficamente aereo, plana cioè sui campi lirici di un sogno che è possibile sentire o immaginare come attraverso una musica,

un ultratempo, un ultramondo, e come attraverso un gioco di associazioni melodiche produce impulsi invisibili che finiscono per catturare nella figura di un uomo il senso più autentico della sua intera esistenza.

Il Poeta che vediamo è la sua stessa poesia, il luogo concreto dell’anima; quel camminare sempre in bilico tra la vita e la morte, sempre col piede nel mistero, come se i versi fossero tradotti paesi immaginari, passi prodotti dall’incontro della luce e del buio, estensioni miracolose, meravigliose, dell’unica grande incognita che ci spinge alla vita e all’arte. Così procede, in Serino, la gioia del verso, ovvero la tensione nella quale spinge il lettore a comprendere, in senso etimologico, gli affanni e le paure, gli inganni e le afflizioni, ogni minima pulsione, ogni minimo palpito di verità.

Giovanni Perri

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Per stupirti

.

in extrema ratio

ti aggrappi a curve di sguardi

per poterti ancora stupire

conoscenza è dall’alba dell’uomo

il primo anelito

in un cielo di silenzi

il tuo richiamo si spezza

Nell’ultimo sangue

ora nell’ultimo sangue

è il vuoto delle braccia

ma sai non è difficile

far rivivere

la tua figura dall’ali recise:

un po’ mi consola

la visione

di te languida riversa

sull’amaca

mentre gli uccelli ti cantano

sulla testa

.

Felice Serino, Nell’infinito di noi (2015-2016) letto da Angela Greco

Nell’infinito di noi (2015-2016) la nuova raccolta di Felice Serino pubblicata su Poesie in Versi, uno spazio web ad accesso libero, con presentazione di Giovanni Perri, che raccoglie le poesie scritte a cavallo degli ultimi due anni e suddivise in due sezioni da quarantacinque testi ciascuna: Lo sguardo velato e la omonima Nell’infinito di noi.

Da sottolineare la generosità di Felice Serino, autore piiù volte e con gioia ospitato su Il sasso nello stagno di AnGre per stima reciproca; generosità espressa non solo nel numero di testi proposto, ma anche nell’aver affidato questo suo nuovo lavoro alla gratuità della rete, a beneficio di tutti coloro avranno voglia di incontrarlo sul sito sopra indicato. Felice Serino, nato a Pozzuoli e residente a Torino, autodidatta, un poeta che ha ottenuto numerosi consensi critici, che ha vinto molti premi letterari, pubblicato diverse raccolte di poesia ed è stato tradotto in otto lingue;

gestisce diverse realtà letterarie on-line, dove condivide con passione poesie e autori di livello e da tempo usa il mezzo telematico per affrontare il mondo non sempre docile e benevolo della poesia, senza scomporsi o intimorirsi, ma accettando il bene e il male ed anche i limiti che il mezzo offre e a sua volta offrendo a ciascun lettore o detrattore che approdi ai suoi lidi, un ringraziamento.

La poesia di Felice Serino anche nella nuova raccolta mantiene saldi i temi del rapporto con Dio, del tempo che passa, della visione del reale sulla base dell’esperienza vissuta e degli autori cari al poeta, come ad esempio Dino Campana, a cui è dedicata “Le vele” o Rafael Alberti a cui, invece, è dedicata “Angeli di carta”, creature, gli angeli, che ben si accordano con la voce di Serino sempre protesa verso il cielo e verso Dio. Perché un poeta di fatto è le sue letture ed è i suoi autori, quelli che, anche dopo la stesura di un testo e l’abbandono della penna o della tastiera, gli rimangono accanto e dentro per diventare a loro volta nuova materia, in un circolo vitale a cui Felice Serino non si sottrae. E ogni volta che leggo una selezione delle poesie di Felice, i suoi versi asciutti e brevi, domati dall’esperienza e solo in apparenza freddati per quella decantazione benefica a cui la poesia va drasticamente sottoposta, ritrovo sempre un colore, una luce, una scia positiva e benefica, capace di restituire serenità e fiducia.

Nell’infinito di noi si pone nel solco della poesia novecentesca, come tanta buona poesia italiana, assumendo toni e connotazioni care alla maggior parte dei lettori; mittente e destinatario dei versi sono evidenti e lo accompagna ogni composizione, rientrando tra gli elementi non eliminabili e delineando una presenza, che, però non disturba, ma si fa compagna di esperienza pronta a porgere la mano a chi è accanto; molti i rimandi ai testi sacri, alla dottrina cattolica e alla mistica occidentale; netta la percezione della ricerca data anche dal numero abbondante di testi raccolti, mentre la dimensione onirica, evidente in molti testi, conferisce levità agli argomenti tra i quali non sfigura nemmeno il tema della morte.

(Angela Greco)

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poesie tratte da Nell’infinito di noi (2015-2016) di Felice Serino

Una giornata di

.

suvvia eccedi

a chi pensi

dare la colpa

come si dice è stata una giornata

così

.

esageri se pare

ti si spalanchi

d’instabilità un baratro

viola in fondo agli occhi

.

L’oltraggio

.

perso nelle forme strane

delle nuvole mi sento

lontano da un mondo estraneo

.

assisto all’oltraggio

della rosa che si

perpetua

.

sono esposto alla vita

.

.

Spleen

.

brusio di voci

.

galleggiare di volti

su indefiniti fiati

.

si sta come

staccati

da sé

.

golfi di mestizia

mappe segnate

dietro gli occhi

.

vi si piega

il cuore

nella sanguigna luce

.

.

.

Il Tuo splendere

.

su un remoto

di assonnate rive

-spiumata

di luce l’anima-

torna

.

a far breccia il Tuo splendere

.

settanta volte sette

ho conficcato i chiodi

altrettante non

basteranno

lacrime da versare

.

sulle Tue luminose piaghe

.http://www.literary.it/dati/literary/g/greco_angela/nellinfinito_di_noi_201516.html

.

Nota di Giovanni Perri a “Vita trasversale” di Felice Serino

Col tratto suo solito, con la materia nuda dei versi alti e alati, Serino ci incanta di nuovo. E lo fa con un volume, il suo ultimo, corposo, “Vita trasversale”, che è un ben calibrato campionario di temi e motivi caratterizzanti la sua intera produzione poetica; ricca e profonda, tenuta in un suo prezioso tenore lessicale di figure svelate in altezza o come prelevate da un occhio ulteriore e quasi sempre girata nell’inconoscibile. Poesia che ci trattiene in un sollievo, oppure in una morsa, di grandi domande e di incognite. Agevole nell’andatura e nel respiro dei versi concepiti come in una stanza piena di sole, ma dalla cui finestra filtra un paesaggio piovoso, pieno di suoni incantevoli e sinistri: analitica, ma detta in stato quasi d’abbandono. Motivi di vita e di morte messi nel medesimo grandangolo, restituiti al loro più sensibile grado del sentire, in quel confine di corpi corrotti dalla loro stessa immagine; che allunga gli abissi mondani potandoli alla visionarietà più lirica, alla più ampia cosmogonia; ma è materia che vibra di una intimità pura, cogente, covata in un suo lembo etico, in una sua calma affezione di gesti e parole dettate da Amore. Parole levigate e vive, messe in versi come a mani giunte, piene di abbagli tuttavia improvvisi e rivelatori.

C’è un mondo di forme dette al limite dell’ombra, un buio di acque sconosciute da sentirne il suono lontano. Serino nuota come se volasse campi e fiumi e con lui stelle a far luce di parole, sotto un silenzio grave di vita. Ed è come trovarsi innamorati inaspettatamente, aver fiutato il senso in bilico e tirarselo con una corda, ad ogni strappo un grido d’amore, una preghiera di livida sopravvivenza, ad ogni affanno un seme di luce da salire in dolcezza, rimanendo con la voce nell’acqua.

E questa è acqua filosofica, tenuta in un suo denso nucleo lirico, in una sua mistica malinconia.

Ecco: qui stanno gli affetti, i ricordi, ogni piccola gioia terrena; qui è il teatro del mondo, il gioco che si gioca per fame e per sete: qui è l’ora dei ricami nel fuoco, di vecchie controversie e comunioni, di silenzi tenuti in una sacca di odio o di amore. Ma dopo, oltre, è l’aria dorata che viene per svelare il sogno, l’arcano che ci muove le ali, la forma tutta del cielo esplosa in una piccola divinazione.

Un pianto, par d’udire, di muta intelligenza: pensiero della morte sorella, felicità o speranza di pioggia rigeneratrice. Pensiero della vita che si espande ben oltre i suoi torbi furori: terragni infine, ma ubiqui, appunto: trasversali, pieni di un sole leggero.

Quanta preghiera nei testi di Serino. Quanta alta Poesia.

Giovanni Perri

Piccola scelta di testi

*

Sic transit

confidare

nelle cose che passano

è appendere la vita

al chiodo che non regge

è diminuirsi la vera ricchezza

-arrivare all’essenza

lo scheletro la trasparenza

*

Espansione

il sogno è proiezione? o

sei tu in veste onirica

uscito dal corpo?

sognare è un po’

essere già morti

come

nell’oltrevita

e l’essere si espande

si sogna moltiplicato

in fiore atomo stella

appendice? o

espansione è il sogno?

*

Vive una luce

vive nell’akasha una luce che

custodisce quel mosaico che dici

destino

tu sei l’ombra

del Sé: l’alterego o se vuoi

l’angelo che

ti vive a lato nei

paradossi della vita

*

Forse una nube

(a Pierluigi Cappello)

mi accoglierà un non-luogo

non più inalerò resina di abeti

alle finestre degli occhi colombe

bianche si poseranno

mi abbraccerà vaghezza

forse una nube vorrà dire casa

*

Eterno presente

kronos esce dal mare

prenatale

il domani è un imbuto

dove fluiscono gli oggi

coi sordi tamburi del sangue

dove in fondo

agli specchi annegherà la

realtà

relativa: lì il mondo che

si vede

rovesciato

*

Sull’acqua

sul grande mare del sogno

veleggiano i miei morti

gli occhi forti di luce

con un cenno m’invitano

al loro banchetto sull’acqua

d’argento striata

m’accorgo di non avere

l’abito adatto

cambiarmi rivoltarmi

devo

vestire l’altro da sé

Giovanni Perri

Recensione di Donatella Pezzino a “Vita trasversale” di Felice Serino

In un mondo sempre più corporeo e materiale, viene spontaneo chiedersi se ci sia ancora posto per l’anima. Poi si legge la poesia di Felice Serino e allora tutta la prospettiva cambia. D’un tratto, il velo dell’apparenza si squarcia ed ecco la verità nuda, il significato ultimo dell’esistenza umana: l’evidenza che potrebbe, se solo lo volessimo, costituire l’abbrivio verso una vita piena, consapevole e scevra da paure.

In “Vita trasversale” l’anima è più che mai al centro, e la poesia diventa in toto ancella del pensiero. La silloge, infatti, raccoglie gli ultimi scritti (2017-2019) nei quali il pensiero e la spiritualità dell’autore campano emergono con più forza rispetto alla produzione precedente. Ed è una forza talmente dirompente da lasciare in chi legge un segno profondo: la poesia breve, il verso ridotto all’osso eppure pregno, vivo come non

mai di immagini e sensazioni, dicono che l’uomo, prima ancora che il poeta, ha trovato ciò che cercava da tutta una vita: è arrivato all’essenza delle cose. Quasi sorride sornione Serino, tra i versi, evocando ricordi e illusioni di tante vite precedenti, del sé stesso del passato angosciosamente fermo dinanzi al muro delle convenzioni che adesso si è finalmente sgretolato.

E cosa c’è al di là del muro? Semplice: l’Oltre. E quindi, il Tutto. Pur senza essersi ancora, nei fatti, spogliato del suo corpo di carne, Serino si è distaccato dal mondo e dalle sue pastoie e può quindi aprire gli occhi su ciò che ci aspetta “dopo”. Non la fine, la morte, l’annientamento: oltre c’è un altro piano di esistenza, anzi, infiniti piani di esistenza da dove non solo i nostri morti, ma anche i tanti noi stessi speculari ci guardano. La nostra anima è un dispiegarsi in infiniti alter ego e in infinite potenzialità: tutto quello che i nostri limiti fisici e le costrizioni imposte dalla società ci impediscono può essere realizzato altrove, anche quello che abbiamo cominciato qui e che non siamo riusciti a portare a termine.

ora

danzi il flamenco che amavi

col tuo corpo d’aria

e da un altrove “detti” poesie

quelle

che non hai avuto il tempo di scrivere

Ma questo oltre non è trascendenza, è trasversalità: nel corso della nostra esistenza terrena, quindi, possiamo scorgerlo in trasparenza dagli innumerevoli segni inspiegabili in cui ogni giorno ci imbattiamo, nella bellezza della natura che ci fa “sentire” la nostra realtà di esseri spirituali, e soprattutto, attraverso il sogno. La dimensione onirica è sicuramente uno degli aspetti più interessanti della poesia seriniana, data la valenza assolutamente peculiare che le viene attribuita. Il sogno, infatti, è il trait d’union fra i diversi piani di esistenza: un bivio nel quale tutte le strade dell’oltre convergono, la via che rende possibile la comunicazione con l’invisibile permettendoci di evadere per un attimo dal nostro “esilio di carne”.

Ogni notte, quindi, il sonno ci scioglie dai ceppi del sangue per lasciarci fluttuare in quel Tutto al quale non smettiamo mai di appartenere, anche quando la vita di ogni giorno ci restituisce alla nostra condizione di peccato e di polvere: quel Tutto che è Dio e che è amore, assoluto e incondizionato. La consolazione alla nostra pochezza, quindi, è questo sconfinato amore di Dio per noi, e la certezza che, benchè peccato e polvere, torneremo a Lui; che tutto è in tutto e tutto è Dio; che la vita nasce dalla morte e si rinnova da sé stessa. Così, l’anima è un continuo partorirsi e ritornare al Tutto: è grazie a questa consapevolezza che possiamo vincere la nostra atavica paura della morte. Perché, infatti, dovremmo temere quel “punto di non ritorno” che invece di distruggerci ci restituisce alla nostra vera vita?

fioriti

nelle braccia di Dio

come nella prima luce

La luce, altro punto nodale del nostro poeta-pensiero: una luminosità che fa quasi male agli occhi, tanto è intensa e inestinguibile. La poesia di Serino è tutto un immergersi in questa Luce dove l’umano e il divino sono allo stesso tempo sorgente, fiume, cascata, foce, in una continua simbiosi dove si può conservare la propria unicità solo annullandosi. Ed ecco, quindi, affiorare un nuovo concetto capace di rispondere a tutti i nostri interrogativi, soprattutto di fronte alla sofferenza, all’errore, all’inadeguatezza: questa vita sulla terra ha senso solo se trascendiamo la nostra animalità per trasformare il nostro sangue in ali. L’angelo e l’uomo, due facce della stessa medaglia che la carnalità rende opposte, nemiche:

convivere con gli umori

di un corpo di morte

dall’animalità all’angelo: questa

l’impervia salita

più d’una vita se dal sangue

fioritura sia d’ali levate:

ogni passo ne perdi una piuma

e ancora:

le mani affondi

nel sangue delle convenzioni

mentre

all’angelo lucente del sogno

tarpi le ali

facendolo all’alba svanire

Basta immergersi nel proprio spirito per annullare qualsiasi distanza fra noi stessi e l’angelo che siamo. Allo stesso modo, il distacco dalla realtà che ci circonda ci aiuta a prendere coscienza della verità che sempre ci sfugge: che vita e morte sono una cosa sola; che non c’è una fine, e che ogni morte non è che un nuovo inizio. Se a ciò fossimo sempre presenti, affronteremmo con serenità, quando non addirittura con gioia, il passo estremo che ci attende, e che altri hanno compiuto prima di noi:

rinfranca il pensiero d’essere

immortale -e già dalla ferita della

creazione lo sei-

la morte ti cerca?

uscito dal guscio tu sarai altro

l’anima libera sarà dai lacci

lo spazio mentale onde di luce e amore

niente d’ imprevisto se la morte

non ti sorprenda più della vita

Avanzare negli anni, a questo punto, non è invecchiare, ma pervenire a nuova giovinezza; avvicinarsi sempre più alla verità mentre ci si allontana dalle meschinità del mondo. Eppure, come ogni altra creatura di carne e sangue, il Serino-uomo non può fare a meno di chiedersi: mi ricorderanno un giorno? Come sarà il momento del trapasso? Domande alle quali lo speculare Serino-pensiero risponde con l’ironia di chi ha già oltrepassato quella soglia e non può più essere scalfito. Il Serino che ricorda persone ed episodi del suo passato con tenerezza, con gioia struggente, filtrando ogni fotogramma alla luce dell’anima e conservando solo quelli in cui sia visibile il riflesso di Dio.

Così, il poeta rivolge lo sguardo solo alle strade che portano verso casa: l’amore, la bontà, la bellezza in grado di elevare, il donarsi che rende capaci di fare la differenza. Nonostante sia in continua introspezione, Serino non è mai chiuso in sé stesso. E in tutto ciò la parola lo aiuta, lo innalza, oltre le barriere che ovunque, su questa terra, ci opprimono e ci ostacolano. La parola acquista una valenza liberatoria grazie alle sue inesauribili possibilità di creazione: in questo sta il senso dello scrivere. Alla domanda: perché scrivi? Si potrebbe quindi rispondere: perché la parola è luce, e io detesto il buio. Perchè la parola è casa. E’ il respiro dell’anima, è la vita stessa. E l’assenza di ispirazione, di conseguenza, è un sentirsi disabitato/simile a quell’albero nudo/da cui son fuggiti i canti/vivere/di stelle spente.

Donatella Pezzino

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In un remoto altrove di Felice Serino letto da Angela Greco

27 MAGGIO 2020 ~ ANGELA GRECO – ANGRE

Felice Serino, In un remoto altrove – poesie, 2018 presentazione di Donatella Pezzino, autoproduzione da richiedere gratuitamente all’autore (tramite il profilo social), oppure – da aprile 2020 – scaricabile dalla piattaforma ISSUU, è la nuova raccolta di questo poeta campano (Pozzuoli, 1941) residente a Torino.

Immediatamente risulta particolarmente degno di nota il fatto di aver messo a disposizione dei lettori la propria opera senza remunerazione; indice di una certa idea di poesia che trova compimento nello scrivere per donare all’altro il proprio sentire, il proprio vissuto e il proprio vedere. Poesia come dono, quindi; concetto che altre volte ho attribuito a Felice Serino, anche legandolo alla sua prolificità.

I testi presentanti nella silloge In un remoto altrove fanno riferimento all’anno 2018 e hanno la delicata bellezza – mi si conceda la metafora – di un cielo trapunto di stelle, ognuna con la sua luce particolare e tutte insieme pronte a rischiarare notti tutte uguali per buio, silenzio e solitudini. Vengono confermati i temi propri di questo autore, il rapporto con il sacro, la trascendenza, la passione artistica e l’attenzione verso gli accadimenti dell’esistenza, sottolineando un percorso autodidatta che nel tempo ha condotto Felice Serino, senza dubbio, ad un certo livello e ad un valore confermato dai lettori, che in questi versi ritrovano attenzione e dettagli degni di nota. Tra queste pagine si avverte nitido e si legge con ricchezza di linguaggio l’amore del poeta per la sua materia, la Poesia, alla quale vengono dedicati versi colmi di rispetto e speranza, ma anche di meraviglia, come se tutto il tempo già trascorso a scrivere fosse un tempo mai passato, ma ancora nuovo e tutto ancora da vivere; un tempo, quello della poesia, che rende vivo e appassionato il poeta, che felicemente ne trasmette al lettore.

Una presenza che si lascia osservare da vicino, e che mi piace evidenziare in questa sede, in un remoto altrove, dove per remoto si intendere non già un luogo lontanissimo nel tempo, quanto piuttosto un punto lontano dall’occhio per il quale, però, è ancora possibile la visione distinta, è quella dell’angelo, presente in un nucleo centrale di componimenti, i cui versi spesso definiscono anche la poesia stessa e finanche il pensiero dell’autore: è ubiquità ed ali l’angelo / o essere-pensiero; asimmetriche tracce / lascia la poesia ch’ esprime / l’angelo-farfalla; poesia / è dove l’angelo perde una piuma; nella camera della mente / non è detto non t’appaia l’angelo / dell’ affresco / che ti rapì quand’ eri bambino; memoria di volo / dell’ antenascita – quando l’ angelo / benigno si piegò / nel vestire la carne. Un messaggero reale, l’angelo di Felice Serino, che avvicina l’Uomo alla parte meno tangibile, alla sfera celeste, all’oltre-umano, che appare nelle poesie, al posto della divinità e in nome del sacro, completando quel dualismo carne-spirito molto forte nel pensiero dell’autore, nella speranza di avvicinarsi sempre un po’ di più al secondo, attraverso la riflessione e l’esperienza del primo.

Le altre poesie di questa silloge levano liriche a svariati argomenti, momenti che hanno suggestionato l’autore e attimi che hanno mosso penna e sentimento e che si configurano come luoghi di riflessione per il lettore, che mai esce deluso dalle pagine di Felice Serino (in chiusura si riporta una breve selezione di testi), il quale, con maestria, conclude questo nuovo lavoro con una poesia intitolata “Alba”, che già di per sé è un programma ed un invito alla prossima pubblicazione. [Angela Greco]

*

Alba

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nella luce che sale

generosa sei

come musa che l’abbrivio dà

col primo verso

.

-aria

di vetro – parola sospesa

.

come andare in mare aperto

.

sogno o stato di grazia

.

.

.

Quella che appare

.

quella che

appare – che luccica o getta

ombre – non è la realtà

che credi

.

se ci pensi: perfino

quest’essere-soma non è

reale ma in divenire – carne

e proiezione del cielo

.

reale è ciò che non

vedi – e che ti fa dire

Amore

.

quando ti genufletti nella luce

.

.

.

Tu madre del mio silenzio

.

tu madre del mio silenzio

tu cattedrale del sangue

indiato

.

-poesia- apri lunghe sospensioni

e varchi

e archi di luce ricrei

tra ciglia d’amanti

.

tu fai spuntare fiori tra le pietre

preservi un raggio di sole

.

per gli occhi persi

del povero cristo

nei giorni anodini

.

.

.

Ai margini del foglio bianco

.

occupi il bianco ai margini

dove apporre note

varianti

.

restano obliqui segni

come di ferite

su aborti di pensieri

.

è il vasto mare del possibile

.

vi si estenua

nelle sue immersioni il sub

per una parola-perla

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https://ilsassonellostagno.wordpress.com/?s=In+un+remoto+altrove+di+Felice+Serino

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Felice Serino – “Palpiti di cielo” – e-book – http://www.poesieinversi.it 2015

Felice Serino, nato a Pozzuoli e residente a Torino, è un poeta che ha ottenuto numerosi consensi critici e che ha vinto molti premi letterari. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia. Gestisce svariati siti su Internet di ottimo livello e qualità, che ospitano poeti anche prestigiosi. “Palpiti di cielo”, il libro che prendiamo in considerazione in questa sede, è connotato da un linguaggio pervaso da un forte misticismo nello sperdersi e indifferenziarsi dell’io poetante in spazi cosmici, interspazi, galassie o anche in squarci naturalistici. La scrittura è composta e composita, elegante e armonica e quasi tutte le composizioni sono suddivise in strofe. Spesso c’è un tu, al quale il poeta si rivolge, del quale ogni riferimento resta taciuto. La raccolta è costituita da due sezioni, quella eponime e quella intitolata “La composizione della luce”. La prima composizione, “L’indefinito”, che nel suo nome riecheggia vagamente “L’infinito” leopardiano, ha un tono programmatico, in quanto, in essa il poeta riflette nell’incipit sulla stesso poiein, sulla poesia medesima e sulla ricerca dell’ispirazione, cosa che avviene anche in altre composizioni: “E’ nello spazio delle attese/ nel bianco del foglio”. I suddetti versi spiegano e descrivono efficacemente il caos calmo dal quale emergono i testi poetici dopo una misurata pausa, quasi un raccoglimento preliminare del poeta stesso. Ottima la tenuta dei versi lunghi che Serino sa ben controllare. Ogni componimento fluisce in lunga ed ininterrotta sequenza e tutte le poesie iniziano con la lettera minuscola, elemento che produce sospensione e fascino, creando il senso di un’arcana provenienza, di un ipersegno possibile e affascinante. Temi fondamentali sono quelli della vita e della morte, il cui timore è superato tramite la raffigurazione di paesaggi iridati come quello dove il verde grida in folti ciuffi e gli alberi si cambiano d’abito.

Nell’ambito del tema della poesia che riflette sulla poesia stessa, anche il libro di poesia fresco di stampa può divenire oggetto di riflessione, per il vertice di emozioni che il poeta prova avendolo tra le mani. Non mancano composizioni di stampo religioso, che si rifanno ai testi evangelici. Tutte le poesie sono dense concentrate e ben risolte. E’ spesso presente anche la vena di fisicità mistica, quando vengono detti abbracci senza mani e corpi immateriali. Una natura intrisa di mistero e stupore s’insinua nelle pagine che sembrano sottese ad un segreto antico. Poetica che ha il pregio di essere complessa e chiara nello stesso tempo, nel suo strutturarsi. Un tema trattato con suggestione è quello dei figli partiti per un eldorado e ai quali si fa l’invito di reinventarsi una vita nella fugacità del tempo. Poetica che di libro in libro brilla per originalità e compiutezza quella di Felice.

Raffaele Piazza

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Nell’infinito di noi – 2015–2016

http://www.poesieinversi.it

Felice Serino, nato a Pozzuoli e residente a Torino, autodidatta, è’ un poeta che ha ottenuto numerosi consensi critici e che ha vinto molti premi letterari. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia.

Gestisce svariati siti su Internet di ottimo livello e qualità, che ospitano poeti anche prestigiosi. E’ stato tradotto in otto lingue.

In Nell’infinito di noi, che presenta una presentazione di Giovanni Perri ricca di acribia, Serino continua ad elaborare la sua personalissima e originale ricerca letteraria.

La raccolta è suddivisa in due sezioni, entrambe costituite da quarantacinque componimenti, Lo sguardo velato e quella eponima.

Se la poesia è in se stessa sempre metafisica, si deve mettere in evidenza che, di raccolta in raccolta, Felice riesce a produrre componimenti collegati tra loro che, oltre ad essere metafisici, sono connotati sempre da un forte alone, o ancora meglio, da un’aurea di sorprendente misticismo postmoderno.

Il suddetto si può evincere, sia in testi che hanno come oggetto o tematica figure tratte dall’immaginario religioso, come il Cristo o gli angeli, sia quando il poeta proietta la sua vena trascendente in situazioni del tutto quotidiane, nelle quali l’io – poetante e le varie figure protagoniste, dette con urgenza, sono in tensione appunto verso l’infinito (e qui giocano un ruolo importante le tematiche della nascita e della morte).

Un accentuato senso del sacro caratterizza Nell’infinito di noi. Esso qui trova la sua espressione estrema, rispetto alle raccolte precedenti del Nostro, nelle quali già si notava.

Il poeta sembra suggerirci, con il titolo della raccolta, che noi esseri, come persone, pur vivendo sotto specie umana, per dirla con Mario Luzi, già nel nostro transito terreno siamo infiniti e che le nostre anime sono immortali.

I componimenti sono tutti connotati (e non potrebbe essere altrimenti per quanto già affermato), da sospensione e magia che si realizzano nei versi icastici, veloci e leggeri.

Stabile è la tensione verso il limite nella ricerca dell’attimo in senso heidegeriano, della vita oltre il tempo degli orologi.

Così Serino produce tessuti linguistici pieni di illuminazioni e spegnimenti, nei quali è visibile una luce, che è appunto quella di una realtà soprannaturale, che si proietta tout-court in quella delle nostre vite, restituendoci una notevole carica di senso.

Particolarmente affascinante, nella sezione eponima, la poesia intitolata proprio Nell’infinito di noi, nella quale sono stabili visionarietà, sospensione e dissolvenza.

In questa il tu, al quale il poeta si rivolge, e del quale ogni riferimento resta taciuto, è Nina, una figura che, nell’incipit, volteggia nelle stanze viola della memoria. Qui si evidenzia una forte tensione attraverso una parola sempre raffinata ed avvertita.

Particolarmente alto il verso apparire o entrare nello specchio/ dell’essenza, nella quale è presente una forte valenza ontologica. Nella seconda breve strofa della composizione il tu afferma che qui siamo affratellati nel sangue con la terra e la morte.

Poetica mistica, dunque quella di Serino, la cui cifra essenziale è quella di una parola che scava in profondità per riportare alla luce l’essenza dell’esistere in tutte le sue sfaccettature.

Raffaele Piazza

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Il sospiro del Daimon: “La Vita nascosta” di Felice Serino

Scritto da Sabrina Santamaria.

L’anima poetica decanta i suoi versi con espressioni sublimi e soavi. Alcune allitterazioni e anafore costituiscono una dolce sinfonia che suggerisce al lettore una sensazione di morbidezza. Il poeta Felice Serino è un autore presente nel panorama della letteratura nazionale e internazionale da circa mezzo secolo; l’originalità dei componimenti del nostro poeta è un sospiro ineffabile, in alcuni versi era come se stessi origliando il canto eterno di serafiche espressioni; molte poesie in “La vita nascosta” donano la piacevole sorpresa di rimanere sospesi a mezz’aria e tendono la mano al lettore per varcare le trasognate porte dell’infinito, uno degli scopi di questa raccolta poetica, ricca di significati e contenuti, è quello di estraniare il lettore dal nostro consueto mondo, regime del pratico inerte. Il titolo stesso dell’opera “La vita nascosta” ha molteplici chiavi di lettura; l’uso dell’articolo determinativo conduce all’estasi in cui la figura retorica della personificazione diviene candida essenza vitale, alito e soffio dell’amplesso del vivere; fra l’altro, il poeta fa molto riferimento ai sostantivi singolari per farci comprendere che la verità risiede nell’Assoluto(“scrivere la luce inginocchiato nella luce inspirando bellezza ch’emana come da un tempo altro/ pure ami la luce ferita: chiedile delle infinite crocifissioni fattene guanciale in notti di pianto”- “Chiedilo alla luce”, pag 31) e non nel mero e sterile relativismo in cui il pensiero di massa si perde nel fagocitante conformismo dunque la Somma realtà trova l’epicentro nella singolarità, nell’Uno: “girovagare tra luminarie e vetrine ti richiamano all’incanto del bambino mentre ti lacera dentro la morte del clochard sotto i portici nel gelo” (“Fine anno”, pag 26), .

L’aggrapparsi violentemente a una dimensione eterna è la peculiarità del nostro poeta, colui che soffre prendendo le distanze dalla società odierna che propone o il nichilismo dell’io o l’elevazione dell’uomo a divinità: “ricusi l’abisso capovolto intriso del Suo sangue/ dall’orlo della luce ti distanzi in vaghezza dell’effimero/ vanagloria leva al cielo un pugno d’aria”( “Blasfemia”, pag 32); dalla lettura di questa silloge trapela un certo temperamento dell’autore, un uomo da un forte equilibrio interiore che ricerca la pacem in terris con il creato, con il cosmo e con gli esseri umani

La scelta dello stile libero senza rime e schemi metrici nell’opera poetica si addice molto al sentire dell’autore che si eleva a voli “pindarici” però Felice Serino compie una catarsi e una liberazione dai suoi istinti di morte tanto è vero che le sue liriche partono con l’esplorazione degli abissi negli inferi e raccontano delle profondità più oscure infatti le prime poesie puzzano del tanfo fetido di una decomposizione dell’animo, è come se il lettore fosse condotto nell’imbuto infernale dantesco e dai vari strozzati enjambement si odono le grida di Cerbero e la puzza di zolfo tuttavia lo smarrimento del poeta non è reale, ma solo figurato quindi l’esodo è interiore. Il travagliato viaggio si evolve e cammin facendo i latrati si tramutano in canti e inni alla bellezza, sulle prime le odi descrivono con fierezza l’immagine dell’immanente per poi giungere, come in una sorta di dialettica hegeliana, allo Spirito Assoluto, all’Apeiron, all’Archè; si schiude il varco alla visione della scala di Giacobbe, Felice Serino gradino dopo gradino si appresta all’eterea sostanza cosicché all’apice della sua produzione letteraria del nostro portavoce privilegiato le liriche solenni di “La vita nascosta” giungono a un train d’union o a una liaison con l’Eterno che fa breccia al miracolo più grande ossia la Salvezza e la Crocifissione del Cristo e su questi due caposaldi si fonda buona parte della vena poetica di questo scrittore il quale è sempre lesto a caldeggiare infiniti mondi possibili attraverso le sue fervide ispirazioni a volte, anche, strettamente intrecciate a dei sogni o a delle visioni che vengono tenacemente narrate e descritte in taluni casi facendo molto leva sull’astrattismo e su Kandinskij o in altre circostanze si rende omaggio e onore a scrittori che ci hanno accompagnati nelle vicende storiche del secolo scorso come Montale, ispirandosi a “Ossi di seppia”, e crea un parallelismo fra l’aridità spirituale e l’immoralità in cui è scaduto l’uomo contemporaneo e la metafora montaliana dell’osso di seppia in cui Eugenio Montale mette in luce l’eventuale cristallizzazione della figura poetica in cui si propina una crisi profonda del letterato. “La vita nascosta” è un tuffo nei meandri dell’infinito e dell’eternità, è un tentativo molto azzeccato di solleticare con la punta della penna il demiurgo platonico oltre, però, il fantomatico mondo delle idee, siamo al confine di una deus ex machina in cui il canto poetico pizzica le aulenti note di un Daimon segreto e misterioso.

Sabrina Santamaria

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Vita trasversale e altri versi (2017-2019) di Felice Serino – nota di Angela Greco

22 DICEMBRE 2019 ~ ANGELA GRECO – ANGRE

Felice Serino (Pozzuoli, 1941), in questa prima metà del 2019, offre ai lettori una nuova raccolta di versi – Vita trasversale e altri versi (2017-2019) – densa, corposa e sempre degna d’attenzione, nella quale mette nero su bianco, oltre ai suoi distintivi temi, anche la grande voglia di comunicazione e condivisione, che da sempre caratterizza la sua poesia, fruibile on line in un susseguirsi di confronti in siti e riviste, luoghi telematici e persone, utili senza ombra di dubbio alla crescita dell’autore, unitamente al suo interesse fine e svariato per la lettura. Di quest’ultima opera è interessante segnalare l’apparato di note critiche e recensioni (riferito alle più recenti pubblicazioni) che chiude il testo: una raccolta di autori, che hanno letto e condiviso

la poesia di Felice Serino, che hanno seguito i suoi passi, fino all’attualità, momento ancora in divenire, testimonianza della continua ed efficace formazione dell’autore. Ecco, la lettura dei versi di questa Vita trasversale dovrebbe iniziare da qui, dalla consapevolezza di essere in cammino, in transizione tra due mete e con la voglia sempre viva di procedere, di essere un ponte gettato tra un ricordo e un sogno, tra l’accaduto e la speranza, tra il vissuto e l’augurio per il domani.

Il libro è articolato in tre parti (Vita trasversale, Trasparenze, In un remoto altrove) che raccolgono ‘percorsi’ utili ad orientarsi tra le oltre cento poesie raccolte negli ultimi anni di scrittura. Una lettura impegnativa dal punto di vista fisico, ma scorrevole e interessante all’atto pratico, che conferma Felice Serino autore prolifico e disponibile a mettersi in gioco, al grande tavolo della poesia contemporanea, ad incontrare il punto di vista altrui sui suoi componimenti asciutti, concisi, dal verso breve, in assenza di punteggiatura e punto finale, confermandosi, inoltre, fonte sempre viva di input supportato in quest’ultimo lavoro dall’efficace presentazione di Donatella Pezzino, che pone l’accento – che condivido, come in altri scritti già detto – su quel che è il cardine della poetica di Serino, scrivendo: “Qualsiasi cosa saremo, siamo stati amore, ed è questo ciò che potrebbe sopravviverci. L’amore, eterno e ubiquo, ha una forza pari soltanto a quella della fede.” Dunque, poesia che vince il tempo mortale, come l’amore vince tutto e, facendo eco alle parole di Virgilio, a noi non rimane che arrenderci all’amore e alla poesia, mi permetto di aggiungere, riportando in compendio alcuni versi: una farfalla è una farfalla ma / tutto un mondo nella sua essenza // la natura / riflesso del cielo è preghiera / ogni respiro ogni sangue / vòlto verso l’alto è lode // l’anima nel suo profondo / in segreto s’inginocchia e piange (“Tutto è preghiera”) e, anche: Infinite vite infinite vite possibili / ha forse l’anima quel che è detto da taluno / l’essere moltiplicato // mai si chiude il cerchio? // è come traversare innumerevoli / porte nei meandri dei sogni / o abbandonarsi a visioni / di déjà vu // non si chiuderà il cerchio se / come si sa / è del Demiurgo un continuo creare / infiniti / mondi-entità col solo sognarsi (“Infinite vite”), che ben evidenziano il senso finale della poesia di Felice Serino, unitamente ad un senso di pluralità al quale è difficile sottrarsi.

Le poesie della prima parte, Vita trasversale, sono un inno allo spirito, alla preghiera e alla Luce, in cui si incrociano e sovrappongono dediche a questioni religiose e a persone scomparse, confermando la forte fede dell’autore, nutrita di rimandi filosofici, occidentali e orientali, supportata dalla costante presenza di entità extra corporee, angeli e sogni, in forza alla poesia stessa, che racchiude anche una bella sezione dedicata alla Musa, da cui deriva la Poesia stessa, in cui Serino ci lascia intuire il suo concetto di poeta e poesia.

Trasparenze, conferma i temi della prima parte, con versi più concreti, ma sempre qualche passo più in alto del suolo calpestabile, adornati di ricordi ed esperienze, in una deriva verso i tempi moderni: anneghi / nell’effimero d’una vita marginale // tenti nell’indaco prove di volo / -fino a che dura il sogno // da quale parte è la verità ti chiedi / nei momenti lucidi (“Prove di volo”); oppure: combatti contro i mulini / a vento delle ipotesi / ti vedi quel filo d’aquilone / tenuto da un bambino e / toccare il suo cuore e il cielo // o quel bimbo ti vedi / tenuto dal genitore per mano // o ancora -tra fremiti d’ombre- / quel figlio prodigo / che ti torna in sogno: che anni / scavalca a ritroso // per chiedere perdono / al padre sul letto di morte (“Ipotesi dell’impossibile”); in “Se avranno voce” si legge: ed è pleonastico il tuo dire / i tempi son cambiati e / alle piante seccano / i timidi germogli // i pesci son gonfi di plastica e / i cieli di cenere / e i mari piangono coi miei occhi // lasciare parlino i fatti / se voce avranno / in una -lesta?- inversione di tendenza .

L’ultima parte del libro, intitolata In un remoto altrove, sembra riassumersi nei versi di “Indivisa sostanza”, che recitano: sono indivisa sostanza / dimora delle origini / porto il respiro di voci / tra ramate ombre // nelle trame del vento / lascio si dilegui la morte / mi vivono nella carne / illimitati cieli // mi ustiono di rosacea luce, in una ricognizione del proprio operato e del proprio sentire, spaziando dall’arte ai fremiti di un cuore che non smette di scrivere ed essere poesia, una via di riflessione e un punto d’appoggio, forte del suo percorso anagrafico ed esperienziale, che concede al poeta di poter dire, in chiusura, che “Tutto è ancora possibile”. [Angela Greco]

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Tutto è ancora possibile

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ti senti altrove e il più

delle volte fuori dal coro

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ti chiedi se -nell’ordito della vita dove

si spezza la parola- ti sei perso

qualcosa – vorresti allora

rovesciarti come un guanto

.

riconoscerti come il

fuori del tuo dentro

.

aprirti a un’ alba che

diradi questa

corolla di tenebre

.

e sai che tutto

è ancora possibile

.https://ilsassonellostagno.wordpress.com/2019/12/22/rileggendo-il-2019-vita-trasversale-e-altri-versi-2017-2019-di-felice-serino-nota-di-angela-greco/

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Trasparenze 2019 2020 di Felice Serino letto da Angela Greco

27 APRILE 2021 ~ ANGELA GRECO – ANGRE

Felice Serino Trasparenze 2019 2020La poesia di Felice Serino, in questo tempo difficile e non ordinario, appare al lettore come una epifania; una luminosa presenza utile a prendere consapevolezza di taluni dettagli, che non sfuggono al poeta, attraverso i quali sperare in qualcosa di più, oltre quello che si vede. Serino attraversa le occasioni che gli vengono offerte quotidianamente dal vivere con i sensi disposti a percepire e a codificare quello che accade, anche tra le righe, attento a circoscrivere con perizia l’evento, per fornire una eventuale chiave di accesso, senza imporsi o alzare la voce, quanto piuttosto con la pacata ragionevolezza di chi affronta le situazioni forte del proprio bagaglio spirituale ed esperienziale.

“Trasparenze 2019 2020” (pubblicato in formato elettronico dal sito “Poesieinversi”, con prefazione di Donatella Pezzino) è un altro tassello degno di nota nel lavoro poetico dell’autore; lavoro, che va sempre più affinandosi col procedere delle condivisioni dei versi con i suoi lettori, ponendo in tal modo l’accento sull’importanza, anche in Poesia, del confronto e dello scambio, elementi assolutamente necessari alla crescita.

La raccolta si apre con una emblematica poesia, che funge, a parer mio, anche da incipit: Giobbe, antonomasia della pazienza, nella quale, elaborando la tradizione classica di affidarsi, in incipio, alla divinità, il poeta per mezzo del protagonista invoca l’atto essenziale per il quale, con buona ragione, sembra addirittura scrivere, in due versi dalla forza non indifferente, che tolgono ogni dubbio al fatto che per Serino il vivere è affidarsi a qualcosa di più grande di lui (sacro e poesia, d’altro canto, si possono senza dubbio mettere sullo stesso piano):

Signore liberami

da questa gravezza della carne

-ora mi pesano gli anni

come macigni-

ascoltami – quando

il sangue grida le ferite della luce

ed io come giunco mi piego

in arida aria

Si ritrovano, sempre con piacere, gli elementi caratterizzanti dell’autore; ed ecco che l’occhio non manca di osservare tutto quello che c’è intorno, con riferimenti ad altre materie, oltre quelle letterarie ed artistiche, evidenziando il tutto tondo della poesia di Felice Serino, la sua innata curiosità e la sua volontà di rendere partecipe la poesia di ogni momento della sua esperienza di vita. La trascendenza, tuttavia, sembra avere il posto d’onore in questi versi brevi, incisivi e pregni di terminologie specifiche, trai quali, con una sola parola, spesso si può leggere la tendenza del poeta al ragionamento filosofico, all’interrogazione di se stesso in rapporto al mondo, sempre con la pacata tensione dell’attesa di una risposta di chi sa, però, che non arriverà, perché i quesiti posti sono di un ordine ben oltre questo umano che attraversiamo, come ad esempio si legge in Rinascere negli occhi o in A prescindere, a seguire:

all’inizio nel tempo

primigenio

il primo stupore in un volo

ai piedi dell���angelo

sarà poi precipizio della luce

ma si resta

nella memoria della rosa

che vuole rinascere negli occhi

*

questo uscire rientrare nell’alveo celeste

è racchiuso in un tempo

rallentato

un lampo nel cuore dell’ universo

t’ è stato messo nel cuore il senso

dell’eterno – a prescindere

ogni giorno ti riscopri vivo

come il seme

Una poesia, quella contenuta in “Trasparenze 2019 2020”, che non manca di riferimenti anche ad episodi più concreti, vissuti dall’autore o dedicati a persone reali, che hanno il grande pregio di avvicinare il poeta al lettore, in un rapporto di reciproca stima, indubbiamente lodevole; Serino non spiazza con trovate lessicali ad effetto o termini ineleganti, tutt’altro; la sua è una poesia che continua a carezzare il fruitore anche quando tratta temi scottanti o difficili, con una delicatezza che non può non essere propria della persona che scrive, perché sarebbe difficile creare ad arte quel sentimento che si stabilisce durante la lettura di un’opera. [Angela Greco AnGre]

Cieli capovolti

nel cavo del grido

deflagra rombo di tuono e

scalpitano nella testa

destrieri impazziti

egli non vede

più il corpo della madre

solo cieli capovolti e

accovacciato in un angolo

della parete che separa

vita da vita

trascorre le ore vuote suonando

l’ocarina

https://ilsassonellostagno.wordpress.com/tag/punti-di-svista/

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La poesia come atto di fede.

Recensione a Trasparenze 2019-2020 di Felice Serino (Poesiainversi.it, 2021)

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Di Mario Saccomanno

Sono diversi i punti fondanti intorno cui gravitano le poesie che compongono l’ultima raccolta di Felice Serino che porta il titolo Trasparenze 2019-2020 (Poesiainversi.it, 2021). Per questo motivo, una breve presentazione del testo come quella che si vuole offrire al lettore in queste righe risulterà inevitabilmente carente di molti aspetti. Si aggiunga che l’autore possiede una conoscenza minuziosa dei mezzi poetici, affinati con l’esperienza che traspare anche dagli altri lavori che precedono la silloge che si vuole prendere in esame. Di conseguenza, le analisi che verranno tracciate possono risultare proficue in particolare se utilizzate come spunto per avvicinarsi alla poetica dell’autore con l’intento di leggere le poesie con un piglio personale, cercando strade interpretative individuali che possono anche distaccarsi enormemente da quanto verrà proposto in questo contesto.

Dopo questa premessa indispensabile, il primo punto che occorre evidenziare è il tema della fede, filo rosso della silloge. Per capire il tipo di

fede a cui Serino si riferisce e comprendere la pervasività di questo aspetto, ci si può affidare a quanto descrisse nel libro La confessione il celebre scrittore russo Lev N. Tolstoj. A prima vista, potrebbe sembrare azzardato prendere le mosse dal testo tolstojano, eppure proprio in quelle pagine Tolstoj giunse ad affermare che l’assurdità della vita era evidente soprattutto se si guardava ai modelli di vita ostentati dalle classi agiate. I frutti di questo approccio si riscontravano nelle ultime strade percorse dalle scienze, nei modi di intendere la società e, ancor di più, nella violenza imperante. Quelli appena elencati, sono tutti temi che nella raccolta di Serino ricoprono un ruolo importantissimo e decisivo.

A Tolstoj, osservando la massa delle persone, i popoli, in contrapposizione proprio alle caratteristiche predominanti delle classi agiate, impantanate nell’ozio, risultò evidente una cosa: la vita aveva uno scopo. Quel senso ultimo di ogni gesto era garantito dal possedere una fede semplice e radicata nella quotidianità. Da questa convinzione, Tolstoj cominciò ad affinare la sua visione del mondo basata, sempre più su una fede universale riflessa in un principio, il rifiuto di utilizzare la violenza, che provocò reazioni disparate, sia di disprezzo, sia di profonda ammirazione, come avvenne nel celebre caso di Gandhi.

Il libro di Felice Serino parte da un assunto, che è l’assunto tolstojano: il bisogno di credere. È questa fede che smuove il ristagnare della vita. Senza la fede non si può giungere oltre gli angusti confini materiali di ogni esistenza. Del resto, sin dalle prime righe della Prefazione, Donatella Pezzino presenta egregiamente quest’aspetto al lettore affermando: «In ogni mondo esiste una porta di comunicazione con tutto il resto. Conoscerne l’esatta ubicazione, aprirla, e attraversarla non presuppone capacità medianiche, ma solo un umile atto di fede: una fede qualsiasi, in Dio, nell’amore, nelle energie della natura, in sé stessi».

Dunque, nel testo di Serino questo bisogno di fede assume, come appena avuto modo di notare, tratti differenti in base al contesto precipuo e al bagaglio culturale ed esperienziale del singolo. Di sicuro, è un aspetto sotteso in ogni verso dell’autore incluso nella raccolta che si sta prendendo in esame. Di più: sembra possibile affermare che senza l’assunto della fede non potrebbe mai prendere forma l’illogico e indispensabile gioco poetico presentato dal poeta.

Il riflesso più grande di questo approccio poetico-comunicativo basato su un atto di fede è lo sgretolarsi di ogni barriera che intercorre in chi è impantanato costantemente nel divenire, costretto a una continua peregrinazione, a un eterno calpestare le strade del suo ultimo presente. Nella raccolta, Serino si occupa con vigoria proprio di questa condizione, con un linguaggio che acclude diversi registri, intrecciati sempre con sapienza al punto che risultano essere in grado di soddisfare le esigenze che sottendono la costruzione di ogni singolo verso.

È tramite questo approccio che nel testo risulta evidente come ogni mancanza che segna irreversibilmente il singolo venga prontamente colmata da un ricordo, da una continua presenza, viva e penetrante, che risulta essere in grado di indicare i modi adeguati che conducono a sciogliere i nodi di ogni nuovo inevitabile inciampo esistenziale.

Così, la poesia è il riflesso di questa condizione di insicurezza e fragilità. Diventa tonico per l’esistenza, specchio di una continua ricerca. In effetti, a ben vedere, i versi di Serino sono l’unico modo attraverso cui l’autore può comunicare al lettore tutte quelle condizioni che il linguaggio ordinario non può contenere nella forma usuale. Appellarsi alla poesia e alle sue regole perennemente in bilico, che necessitano di una compartecipazione costante e duratura del lettore, significa abbracciare la possibilità di cogliere gli aspetti che – sembra affermare l’autore in conclusione – non solo sono ben presenti negli atteggiamenti quotidiani, ma si pongono come elementi regolatori e determinanti di tutte le esistenze.

Dunque, l’atto di fede, il credere che viene richiesto al lettore, non è un azzardo, ma viene riscontrato nella quotidianità, nell’osservazione minuziosa degli atteggiamenti mostrati dagli uomini. Per questo motivo, un altro elemento fondamentale della poetica dell’autore è il prendere costantemente le mosse dall’analisi degli avvenimenti peculiari del presente, filtrati principalmente i comportamenti e gli umori mostrati dalle persone più vicine. È in questa quotidianità che si annida sempre il bisogno della fede, della speranza. Proprio in questo contesto il linguaggio canonico perde il suo significato. Ecco perché solo la poesia sembra indicare un modo attraverso cui indicare al lettore la possibilità di percorrere una strada, solo apparentemente impervia, che possa far cogliere i tratti distintivi di una quotidianità che spesso si vive senza partecipazione attiva.

Serino rassicura in più luoghi del testo come, al di là delle difficoltà di fare i conti con un nuovo alfabeto che regoli la propria esperienza vitale, il modo attraverso cui scardinare i muri che contornano il presente è un qualcosa che sembra quasi essere spontaneo una volta che si ha avuto la forza di volontà di percorrere i primi faticosi passi. Del resto, questo risultato è ben visibile non solo nelle principali religioni che hanno contraddistinto da sempre l’uomo, ma anche nelle figure di spicco d’ogni secolo. La semplicità è contrassegnata nella fede nell’amore, in un amore che da particolare si spinge, quasi ficinianamente, ad amore universale e che, in una spirale infinita, include ogni particolare in un contesto più ampio.

Questa percorso, nel testo di Serino, è un compito che spetta al singolo. Eppure, nel peregrinare continuo sulle strade spesso secondarie del presente, il bisogno dell’altro è sempre fondamentale, specialmente nei contesti più usuali, quelli intimi. Da qui, nasce anche il bisogno di riportare la propria esperienza, i ricordi, il vissuto avvalendosi dei versi quasi come forma diaristica. Da questo punto di vista, Trasparenze è una testimonianza, una sorta di confessione utile a indicare il modo attraverso cui l’autore è giunto alle sue conclusioni. Per rifarsi ancora alle parole di Donatella Pezzino: «Più che limitarsi ad essere credente, l’uomo di Serino guarda oltre, desidera oltre: e nel farlo, il suo sguardo incontra Dio».

È possibile analizzare i temi passati in rassegna finora facendo riferimento ad alcuni versi presenti nella raccolta. Di sicuro, sin dalle prime poesie della silloge risulta evidente come il tema dell’oltre sia l’elemento caratteristico della poetica di Serino. L’urgenza di allontanarsi in qualche modo, di liberarsi dalla «gravezza della carne» è un bisogno primario, al punto che spinge a percorrere i nuovi viaggi e finisce per assumere il tono di una richiesta, rivolta a se stesso, prima ancora che a Dio. Il bisogno di liberazione, l’andare oltre diventa necessario soprattutto nel caso in cui, utilizzando le parole del poeta, «come giunco mi piego / in arida aria».

Il bisogno del viaggio, il più delle volte interiore, capace di dare nuova linfa al ristagno in cui può versare un’esistenza è riscontrabile, ad esempio, in Musica sacra in cui si può leggere: «Il tempo si era fermato e / fu come uscire fuori da me / uno sconosciuto luogo di pace / mi accolse». Solo da questa nuova condizione si giunge all’empatia, tassello fondamentale di cui si discuteva già in precedenza, raccordo indispensabile tra l’uomo che percorre questo nuovo viaggio esistenziale di liberazione e «gli angeli e i morti». È proprio l’empatia che spinge energicamente a osservare le trame del presente con nuovo piglio. In merito si veda In questo giorno stordito di luce dove tuonano i versi «canto per la dignità dell’uomo / che fa della sua insopprimibile libertà / ali di luce // a lambire le fonti del sogno».

Non resta che sottolineare un ultimo aspetto della poetica di Serino: la musicalità delle sue composizioni. Del resto, tra i debiti mostrati e mai nascosti dall’autore spicca quello nei riguardi del celebre poeta Federico Garcia Lorca – si veda in merito Bocche di chitarre – che sulla musicalità delle sue poesie ha a lungo lavorato raggiungendo risultati indiscutibili. Le composizioni di Serino nutrono sempre il bisogno di una musicalità che deve permeare tutti i versi che, solo così facendo, possono diventare veste soddisfacente che copre i tratti dell’esistenza. Solo col ritmo impresso nella poetica, il messaggio può diventare davvero universale e spingersi oltre l’apparente staticità del vivere. Nella poetica di Serino la bonaccia quotidiana è spazzata via da un vento fatto di musica che risuona in parole ricolme di nuove possibilità che si insinuano nei meandri spesso insondati d’ogni uomo.

.

Poesie scelte:

Giobbe

Signore liberami

da questa gravezza della carne

– ora mi pesano gli anni

come macigni –

ascoltami – quando

il sangue grida le ferite della luce

ed io come giunco mi piego

in arida aria

***

Dell’immaginario (del sogno)

Li vedevo salire dal mare

dal grande mare aperto

i miei morti che dispensavano sorrisi

era esplicito il loro invito

lo si leggeva negli occhi forti

di luce

ma una vocina dal di dentro

mi diceva

che non era giunto il tempo

***

Bocche di chitarre

alla sua morte per fucilazione

anche le chitarre emisero lamenti –

a un ordine dei generali

dalle loro bocche uscirono insetti

bibliofagi

a divorare pagine e pagine

di versi sparsi per il mondo

ma lo spirito del popolo è vivo

la memoria è vasta come il mare –

venne ricomposto il poema

insanguinato

fino all’ultimo rigo-respiro

si può uccidere un poeta

non la poesia

(Federico Garcia Lorca, 1898 – 1936)

***

Tra la bestia e l’ angelo

tra la bestia e l’ angelo

corda tesa sull’ abisso

nel divario della mente dove destrieri

scalpitano inesausti

bivaccano i tuoi fantasmi

o si mimetizzano tra

la fantasiosa tappezzeria dei divani

semmai si annoiassero sai

dove trovarli: a giocare ore

e ore con le nuvole

tenendo al guinzaglio i sogni

***

Da un imperscrutabile sentire

ti attraversano come una luce sottile:

sono sempre con te i tuoi morti

mai andati svaniti -ci crederai?-

saldano le tue radici

“vivendo” con te ancora: ubiqui e

onnipresenti

da un imperscrutabile sentire

puoi percepirne al tuo fianco la presenza

sono essi a suggerirti in un soffio

semmai ti giunga

una ispirazione

sostano dentro gli specchi

si fanno tuoi consiglieri

quando non sai deciderti

sul colore di un maglione da indossare

allucinate presenze

ti accompagnano in quel mondo parallelo

ch’è la regione del sogno

***

Emarginato

quest’uomo: tristezza

d’albero nudo

avanzo di vita aperta

ferita

-occhi scavati

che perdono pezzi

di cielo

quest’uomo

puntato a dito

quest’uomo fatto

torcia

per gioco

.

Estratti da Afflati di Felice Serino (e-book, 2022)

Senza titolo 2

.

un’alba cadmio

apre spazi

inusitati nel cuore

.

usciti dal sogno

beccano sillabe

gli uccelli di Maeterlinck

in un cielo di vetro

.

da un luogo non- luogo

le uve dei tuoi occhi

chiamano il mio nome

genuflesso nella luce

.

.

Spleen 2

.

brusio di voci

.

galleggiare di volti

su indefiniti fiati

.

si sta come

staccati

da sé

.

golfi di mestizia

mappe segnate

dietro gli occhi

.

vi si piega

il cuore

nella sanguigna luce

.

.Vita nascosta

.

il muro d’aria che divide

luogo e non- luogo

o solo quell’esistere sognato

che torna come déjà vu

.

qui solo apparire:

l’essere è vita

parallela – nascosta

.

..

Felice Serino (Pozzuoli, 1941), autore prolifico, redattore presso molti lit-blog e riviste on line, ha all’attivo diverse sillogi poetiche; la sua poesia è tradotta in diverse lingue. Con Afflati (scaricabile cliccando QUI), il nuovo e-book creato all’inizio di questo 2022 in cui raccoglie la sua produzione poetica 2019 – 2020, rinnova il legame con i suoi lettori.

In effetti, quello che si stabilisce con questo autore è un legame di fedeltà, tra se stesso e i suoi temi e tra il poeta e il suo pubblico, il quale, ad ogni lettura, rileva una sfumatura, coglie un significato in più, in un’attesa mai delusa nei confronti di questa poesia che, col passare del tempo, si eleva, percorrendo man mano proprio quella strada auspicata dall’autore nella stesura dei propri versi.

La lettura �� introdotta da una breve ed efficace Prefazione redatta da Enrico Marià, che si sofferma, a giusta ragione, sull’introspezione, che diventa patrimonio comune, esternato con sonorità lievi, mai eccessive, fuori luogo o aggressive; un balsamo anche per questi tempi che stiamo attraversando, nei quali Felice Serino si pone, con la sua voce sensibile e costante, quasi come un punto fermo al quale riferirsi.

“Afflato”, per definizione, è il soffio, ma anche l’ispirazione e nella poesia che Felice Serino ha incluso in questo titolo al plurale, ben si coglie questo momento particolare occorso nella vita del poeta, il quale sembra voler gradualmente lasciare le cose terrene per involarsi verso un cielo verso il quale l’anelito non è mai stato celato o mal esternato in tutta la sua produzione poetica. Il tono delle poesie detta quasi una suddivisione in due parti: nella prima si avverte un’assenza, una mancanza, quasi il poeta stesse usando la poesia per ricordare qualcosa o, meglio, qualcuno, che era presenza e che oggi ha mutato la sua condizione; nelle poesie successive, invece, si ritrova il Serino dei precedenti lavori, la sua forza e la sua radice, in un’analisi intima degna di nota e che mai abbandona i riferimenti culturali e artistici tipici di questo poeta.

La poesia di Felice Serino si apre sempre alle domande fondamentali, alle riflessioni filosofico-religiose, che fanno bene al lettore, ma anche alla rappresentanza italiana di questa scrittura, alla Poesia nostrana degli ultimissimi tempi intendo, spesso maltrattata con il trattare argomentazioni futili, quando non parli addirittura di questioni sterili con la scusa di essere specchio dei tempi.

[Angela Greco AnGre]

.

Il sapore del tatto

“Orizzonti di palpiti”. Ed è già qualcosa di più di un titolo. Una dichiarazione di vita. E quindi di poesia. E di visione poetica. Felice Serino muta il senso, il tatto, rendendo tattile la parola sul rigo. Rigo che non è più orizzontale ma materia plasmabile, esistente, concreta. Serino, ci porta nell’oltre corpo, regno dei regni, dove tutto può il sentire. Il limite è attraversato. Non ci sono più contorni netti se non quelli dettati dal pulsare dell’anima: “ ti senti altrove e il più delle volte fuori dal coro… e sai che tutto è ancora possibile”. Ecco la chiave, la chiave che l’autore ci fornisce per scardinarci e scardinare. Le parole che non vanno sprecate perché: “ sillabe cadute dagli occhi/ l’ingoio di stelle a svanire”. La dimensione del non – ritorno per tornare a guardare l’oggi, il presente, l’ora, l’adesso con sguardo nuovo, puro, severo d’incandescente. Introspezione e universalità. Conoscersi per conoscere: “ per l’uomo e il suo specchio/ dai mille rebus irrisolti/ dove confluisce la sua storia.” Il poeta che, ancora una volta lui, si muta in guida, esploratore, generatore di quesiti e conforto: “ sarà un capriolare/ di dolce vertigine/ come immergerti in una pace amniotica”. Il passo sempre oltre sicuro perché incerto e certo delle incertezze che ci colmano in un continuo domandarsi, interrogarsi, chiedersi : “scuotersi dall’inerzia: vegliare/ con le lampade accese /nel turbinio del mondo”. Sino a divenire corpo- poesia. Un crollo di pareti. Per altre dimensioni perché: “sempre viva è la rosa di sangue/ e splende di bellezza”. E il palpito diventa rumore di mille mari calmi e mossi, cicli lunari, il suono dell’inestricabile a sciogliersi “cosa saremo/ chi ci dirà?”. Il fiato si forma verso inscalfibile di chi ha visto l’invisibile e per noi lo traduce. “Dietro il velario di carne /chi siamo?” chiede il poeta pacificandoci viaggio che non ha fine. E che mai finirà.

enrico marià

.

Oltre lʹesilio di Felice Serino letto da Angela Greco AnGre

Autoproduzione che raccoglie liriche del 2020, questa nuova silloge di Felice Serino è una conferma, come già sottolineato nella Prefazione, dei temi e ancor più delle presenze care a questo autore, con uno sguardo alla realtà che fa ben sperare per il lettore. Cʼè vita, cʹè sentimento e cʼè voglia di vivere ogni momento, positivo e negativo, interrogandosi, soffermandosi, riflettendo su ogni dettaglio, ogni incontro, ogni situazione, giungendo con un linguaggio preciso, mai lasciato al caso o al desiderio di mettersi in mostra, dedicato con accuratezza.

Il trascorrere del tempo avvicina il poeta a temi esistenziali inevitabili; ma Felice Serino è capace di portare al lettore gli argomenti con quella grazia che è propria di chi ha consapevolezza della grande tribolazione e sa bene che la Poesia è onestà e che con essa non si può barare.

Nello scorrere delle pagine s´incontra il quotidiano, nel quale anche un percorso in autobus diviene occasione per riflettere materialmente sulla poesia, su questa compagna che custodiamo e che ci custodisce e che affiora nei momenti più inattesi per svelarci qualcosa che era sfuggito. E in questo fluire di versi affiorano i maestri, le passioni, le curiosità che hanno alimentato la fucina della scrittura e ai quali lʹAutore non manca mai di tributare componimenti; un personale pantheon reale-sentito nel quale il poeta vaga e raccoglie frutti da donare a profusione, perché “lʼuomo / è per la meraviglia”.

[Angela Greco AnGre]

*

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941. Autodidatta. Vive a Torino. Copiosa la sua produzione letteraria (22 volumi di poesia e numerosi e-book); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in otto lingue. Intensa anche la sua attività redazionale. Gestisce vari blog e siti.

*

Estratti da Oltre l’esilio di Felice Serino

Nella prima luce

.

ci accorgemmo che non siamo

esistiti che nel pensiero

.

è la mente che crea – essa si

materializza in ciò che vuole

.

nel grembo del cielo fu l’immagine

del primo uomo che

Dio sognò nella prima luce

~

Da un altrove

.

e tu a lumeggiare le mie sere

anima di candore e di sogno

.

si fa conca il cuore

ad accogliere

dei versi dettati da un altrove

~

Il dopo

.

ci aspetta sempre

un dopo: il di là

da venire

.

aria di nuovo aleggia

negli occhi – che ci

sorprenderà – e

.

ancora non sappiamo se

croce o delizia

~

La vita scorre

la vita scorre

e quel senso

sempre del fugace

in ogni cosa

ma il mare

il mare è nel cuore di Odisseo

che si interroga

a specchio del cielo

.

l’uomo

è per la meraviglia


Felice Serino, Lo sguardo velato – 2016-2017 letto da Angela Greco

La poesia di Felice Serino è un incontro atteso, un momento di conforto, una superficie solida a cui poggiarsi nella inevitabile stanchezza del giorno dopo giorno. Serino tratta la poesia con la quotidianità di chi è a lui familiare e i suoi versi mettono in luce l’affetto per la poesia stessa, la costanza che lo ha condotto fino ad oggi e l’estraneità a quei fenomeni sempre più diffusi dei personaggi in cerca di spazio e lode, che manipolano la poesia in favore del proprio ego o dell’ego del proprio editore.

Felice Serino, scrive come dono di sé all’altro, donando i suoi versi senza attendere nulla in cambio, ma, semmai, ricompensato dal fatto che le sue esperienze possano essere in qualche modo utili ad altri.

Realizzato nel giugno 2018 per il sito poesieinversi.it, “Lo sguardo velato” raccoglie

questo ultimo anno di versi e si apre con un esergo – in seno a cieli di cui non è memoria / dove nessun grido resta / inascoltato / lì è la vita nascosta – che è fin da subito un’immersione nei temi cardini della silloge e della poetica stessa di Serino: il cielo, quindi l’aspetto oltre il visibile degli accadimenti; la ricerca-conoscenza di Sé attraverso la frequentazione-studio del sacro e l’analisi del rapporto tra umano e divino.

Nel paese interiore

nel paese interiore

eiaculo i miei sogni –

vivo una stagione

rubata al tempo -mimesi

icariana sul vetro del cielo-

nel paese interiore

brucia il mio daimon

di febbre e di luce

§

Dell’ indicibile essenza

dell’ indicibile essenza

noi sostanza e pienezza

solleva l’angelo un lembo

di cielo:

in questa vastità soli

non siamo: miriadi

di mondi-entità ognuno

in una goccia

di luce

C’è nei versi di questa raccolta, la calma di chi osserva tutto quello che ha intorno e di chi ha attraversato tanto delle cose del mondo; una quiete, che giunge al lettore con dolcezza e fermezza nelle convinzioni, come nella costante e decisiva presenza di Dio, una presenza che nello scorrere di queste pagine e delle varie opere dello stesso autore, si fa man mano più viva e vicina e alla quale non è rivolta nessun rimprovero, nessuna parola negativa, quanto piuttosto un sommesso ringraziamento per com’è andata (perché non è andata peggio).

La poesia e l’anima-spirito divino fanno parte per Felice Serino dello stesso comparto, a tratti della stessa dimensione, e la prima sembra l’abito che veste i secondi, la forma grazie alla quale si manifestano e Serino ci presenta così la poesia: dici poesia intendi finestra / affaccio dell’anima bagnata da alfabeti di lune / è finestra su un mare aperto / poesia /per l’orecchio del cuore-conchiglia (Poesia-finestra), come un tramite tra l’esterno e l’interno che in questo caso è anima e anima è, per questo poeta, il divino che ci abita, come in questi toccanti versi dove la traccia del tempo che trascorre è di una bellezza particolare:

Il tuo volare alto

l’anima spando sulla terra

a ricambiarmi una solitudine

ampia come il cielo

mi appresto a gran passi agli ottanta

e ancor più poesia ti canto

-del mio sangue azzurra ala

ai confini della sera in quel

farneticare che richiama la morte

il tuo volare alto

come preghiera

La pluralità di temi e livelli (fisico e metafisico, onirico e reale) emerge in testi come i due che seguono, che al meglio rendono il percorso di Felice Serino, sempre in equilibrio tra umanità e visone alta, attento ai dettagli di quanto lo circonda e consapevole del fattore tempo, utilizzato al meglio nel donare al lettore un vademecum per meglio procedere nei suoi giorni; quasi un consiglio da parte di chi non si è perso in sciocchezze, ma ha perseguito con fiducia e tenacia il dono della Poesia. [Angela Greco]

Stanze

le notti inzuppate di sogni

quando

nonsense veleggiano

sulle ondivaghe acque dell’inconscio

o ti vedi seguire

una successione di stanze

e ti perdi e ti ritrovi

in un’altra realtà-sogno o dimensione

§

Epifanie

vita che si guarda

vivere e ci guarda

vita che si pensa ed è

-riflessa vita che

apre la fronte del mattino

ed è esistere

nel suo ricrearsi

epifanie

*

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941. Autodidatta. Vive a Torino. Copiosa la sua produzione letteraria (raccolte di poesia: da “Il dio-boomerang” del 1978 a “Dove palpita il mio sogno” del 2018); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in otto lingue. Intensa anche la sua attività redazionale. Gestisce vari blog e siti.


Recensione a “Le voci remote” di Felice Serino

di Donatella Pezzino

In ogni mondo esiste una porta di comunicazione con tutto il resto. Conoscerne l’esatta ubicazione, aprirla e attraversarla non presuppone capacità medianiche, ma solo un umile atto di fede: una fede qualsiasi, in Dio, nell’amore, nelle energie della natura, in sé stessi. Credere, semplicemente. Ecco, leggere Felice Serino è un po’ come riappropriarsi della consapevolezza che quello stargate esiste, e che possiamo attraversarlo in qualsiasi momento, spinti dalla forza degli eventi, da un desiderio di trascendenza o dalla riflessione sull’oltre che ci attende alla fine dei nostri giorni. In “Le voci remote”, l’anima del poeta ha raggiunto la sua dimensione ideale, meta di un lungo viaggio che lo ha visto percorrere a piedi nudi i vasti deserti umani alla ricerca del sé più puro, nel quale la grandezza dell’uomo sta nella sua valenza infinitesimale e il buio è solo assenza di Dio.

tu sei l’ombra

del Sé: l’alterego o se vuoi

l’angelo che

ti vive a lato nei

paradossi della vita

La lanterna di questo instancabile Diogene non si affida al lume ma al suono: un suono interiore, fatto di silenzi costantemente modulati allo scopo di rievocare i dolori, le gioie e perfino le insipidezze della vita trascorsa. E fra i suoni che questo silenzio è in grado di intercettare ci sono, appunto, le “voci remote”: appena udibili alcune, più chiare e distinte altre. Un titolo niente affatto casuale, come casuale non è, in apertura, la scelta dei versi del poeta greco Ghiorgos Seferis sulle “voci remote/ delle anime in sogno” che riassumono in un certo senso la cifra dell’intera opera. Ma cosa sono queste voci remote, e a chi appartengono?

nell’oltre

non ci son porte e chiavi

è tutto -in trasparenza-

un fondersi di sguardi

Sguardi; anime; vite. Si, perché la dimensione “altra” non è un luogo solitario; al contrario, è un humus fertile d’amore a nutrire mani, volti e profumi che dalla realtà visibile, come tutti noi, sono passati; e che ora, abbandonati i pesanti costumi teatrali della quotidianità terrena, ci guardano e ci giudicano.

eccoti un ectoplasma ovvero

un antenato

a sentenziare da un aldilà

-non sapete neppure vestirvi

-bella forza: voi con i vostri

doppiopetti

vi credevate dio in terra o guappi

noi

casual-cibernetici

della libertà siamo bandiera

grida il rosso

del nostro sangue nelle piazze

per le ginocchia aria di primavera

Ma più spesso, in queste entità ultraterrene è l’amore a vincere: una pietas che non è -come si potrebbe pensare- l’atteggiamento compassionevole di chi, già in salvo sulla riva, cerca di portare conforto ai naufraghi ancora in mare; piuttosto, il contrario. A dispetto di tutti i luoghi comuni sul paranormale, Serino ci propone l’idea di un interscambio dove le barriere tra morte e vita si annullano e dove il bisogno di contatto non è univoco:

m’invitano i miei morti

a una uscita fuori porta

amano

farmi partecipe del loro mondo

m’avvedo

dagli occhi lucenti e i sorrisi complici

ch’è molto molto gradita

indispensabile quasi la mia presenza

ché senza orfani sarebbero

e tristi forse

pur essendo estraneo al loro mondo

di luce

Ma voci remote sono anche il frutto della nostra mente: i pensieri, le riflessioni, i sogni e tutte quelle immagini che non sappiamo spiegare e che

tante volte ci sconcertano per la loro potenza, ovvero

visioni aleggianti nelle

stanze del tuo sangue

che spesso restano sepolte per anni prima di riaffiorare dal nostro sottosuolo e che conoscono tutte le nostre debolezze, perché in esse abbiamo creato l’unico specchio in grado di afferrarci quando rischiamo di perderci:

vedi: se

qualcuno è a spiarti

non sei che tu

da un altrove

E poi, ci sono i sogni. In questo labirinto di immagini che si stendono come un ponte tra il visibile e l’ultraterreno, la dimensione onirica si configura come la materia che ci plasma e dalla quale, al tempo stesso, veniamo plasmati. In questo contesto, la poesia è l’unico linguaggio che rende accessibile il mistero, consentendo all’anima di ritrovare la strada:

in questo minuscolo essere

smarritosi

nella sua realtà-sogno

vedi te stesso se lasci che la vita

ti conduca lungo

i labirinti viola della mente

Il sogno è la culla, il rifugio. E’ la linea di confine che rende possibile il momentaneo distacco dell’anima dal corpo; è, in ultima analisi, quel punto di contatto tra il nostro sé terreno e “l’altro” che prefigura il passaggio da questa vita a quella che ci attende.

il sogno è proiezione? o

sei tu in veste onirica

uscito dal corpo?

sognare è un po’

essere già morti

Eccola la porta, lo stargate: il valico che, in qualsiasi momento, ci mette in comunicazione con “l’altrove” consentendo alla nostra anima di espandersi e vivere, anche solo per pochi istanti, la vita che le è congeniale.

di notte sto bene con me e l’altro

sono io l’altro che -c’hai mai

pensato?- non proietta ombra

ombra di me è il sogno

come un bambino

avvolto dal regno delle ombre

affido tutto me stesso alla notte

E su tutto, come un velo impalpabile ma sempre presente, domina il pensiero della morte, intesa non come la fine di un ciclo, ma piuttosto come l’ennesima tappa di un viaggio: un nuovo giorno che si schiude e dove il peso delle cose di questo mondo è un fardello che si abbandona volentieri. Perché la vita che abbiamo sempre voluto non è che leggerezza, e la leggerezza viene dalla libertà, e la libertà è possibile solo sciogliendo le corde che ci legano alla materia:

confidare

nelle cose che passano

è appendere la vita

al chiodo che non regge

è diminuirsi la vera ricchezza

-arrivare all’essenza

lo scheletro la trasparenza

L’essenza, lo scheletro, la trasparenza: tutto qui tende allo spoglio, al nocciolo, allo sfrondo. Perché solo togliendo le sovrastrutture con cui spesso la vita ci inganna è possibile strappare il velo che ci copre gli occhi e arrivare alla verità. Un’esigenza, questa, che emerge sempre più forte nella matura poesia di Serino e che si riflette anche nell’impianto strutturale: nei componimenti brevi, nella crudità delle riflessioni, nei versi nudi fino alla scarnificazione. “Invettive”, dedicata a Padre Pio, ne è un esempio eloquente:

una parola un fendente

minimizzi

l’orgoglio un ordigno

inesploso

carità

ti accompagnerà nella polvere

Parola che scarnifica, dunque; che si fa, come la morte, strumento di scavo, liberazione, palingenesi, dando un nuovo significato agli anni che avanzano. Vincendo, soprattutto, l’atavica paura del nulla, con un fatalismo capace, talvolta, di sconfinare nello humour nero:

ho a volte il pallino

-farneticare dell’età-

che d’improvviso qualcuno mi spari

da un’auto che rallenta e poi via

-come in una scena da gangsters

-è fantasioso ma

freddamente reale

Sorridendo: si, perché uno degli aspetti più tipici della poesia seriniana è il sorriso, declinato in tutte le sue sfumature. Dolce nel rimpianto, feroce nel dolore, sereno nel pensiero di Dio; sornione a volte, mai cinico. Il sorriso del giusto, pronto a consegnarsi nelle mani di Dio con tutta la sua miseria, le sue cicatrici, la propria inesorabile condizione di uomo.

ricorda: sei parte

dell’Indicibile – sua

infinita Essenza

pure

nato per la terra

da uno sputo nella polvere

La religiosità di Felice Serino: cristiana, ma non solo. C’è, nella sua fede, qualcosa di universale, di applicabile a qualsiasi credo: un sentimento che è soprattutto apertura, anelito. Più che limitarsi ad essere credente, l’uomo di Serino guarda oltre, desidera oltre: e nel farlo, il suo sguardo incontra Dio.

una farfalla è una farfalla ma

tutto un mondo nella sua essenza

la natura

riflesso del cielo è preghiera

ogni respiro ogni sangue

vòlto verso l’alto è lode

l’anima nel suo profondo

in segreto s’inginocchia e piange

http://poesiaurbana.altervista.org/recensione-donatella-pezzino-le-voci-remote-felice-serino/

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Recensione di Donatella Pezzino a “Lo sguardo velato” di Felice Serino

Quando ci si accosta all’opera di Felice Serino, è difficile non notare il dinamismo della dimensione interiore: nonostante sia interamente incentrata sull’anima, infatti, la sua poesia è ben lungi dal ripiegarsi in sé stessa, poiché l’essenza umana è continuo movimento. La parola “ondivago”, presente in diverse composizioni seriniane, esprime in modo pieno e immediato questo anelito al volo, quest’ansia di scrollarsi di dosso un’immobilità che è congeniale solo alla materia inerte. L’anima di Serino è un agglomerato di particelle che, pur restando unite, sciamano in tutte le direzioni, nella brama di riunirsi al loro elemento naturale: il Tutto. Ma, per seguire quell’ordine che appare insito nella stessa struttura del creato, quest’anima tenta di ravvisare nell’esistenza terrena un percorso logico e coerente, in cui il dispiegamento delle forze interiori possa dipanarsi in linea retta: salvo poi rendersi conto, alla fine di questo lungo cammino, di aver sempre cercato il proprio cerchio perfetto. La vita, allora, acquista un senso in qualità di processo dialettico, in cui l’opposizione tra corpo e anima trova un suo superamento nella morte, vista non come la fine di tutto, ma come una vera e propria risurrezione, da cui scaturirà nuova linfa vitale:

dal Tutto

ritrovarsi nell’uno

a vivere il sogno della carne

il sangue che cavalca il vento dove

crescono i passi

lacerato dalle lancette

d’un orologio interiore

un Lazzaro a sollevarsi da cento morti

In questa raccolta di liriche, il poeta giunge ad una nuova tappa del suo viaggio: al termine del percorso, si apre finalmente la porta di comunicazione tra il mondo sensibile e quello trascendente. Ma ciò che appare non è ancora ben visibile: sul ciglio dell’oltre, lo sguardo è ancora velato (da qui il titolo) e non può nitidamente distinguere gli oggetti della trascendenza.

ma a te presente

il Sé -il celeste- l’esistere

specchiato: vita che si guarda

vivere

un mondo in un altro

In tale contesto, risalta la volontà di non voltarsi mai indietro: contrariamente a quanto il senso comune vorrebbe, in Serino la maturità non è tanto il momento del ricordo, delle nostalgie, dei rimpianti, quanto più un’occasione per interrogarsi su cosa lo aspetta. Questa tendenza a proiettarsi in avanti non nasce dal desiderio di negare il proprio passato: ciò che è stato vissuto, tuttavia, è ormai alle spalle e non può tornare. Questa ferma intenzione di vivere nel presente sembra annullare il tempo: e, dove la dimensione temporale non esiste, la stessa età dell’uomo si appiattisce, e il poeta può attingere a piene mani dal bambino che dorme in lui.

scoprire in me il bimbo

accoccolato nella mente

Di quando in quando, il flusso di coscienza è intervallato da riflessioni sui tanti drammi che segnano il nostro vissuto: il corpo di un migrante abbandonato su una spiaggia, le laceranti incomprensioni dei rapporti affettivi, la sofferenza dello scrivere; come a voler ricordare che morendo ci si lascia alle spalle un mondo fatto di sequenze dolorose. Da qui il tema del sogno, visto come momentaneo rifugio dalle tempeste della vita:

c’è un donnone nei miei sogni

mi perdo fra le sue grandi mammelle

piccolo piccolo mi faccio e

come scricciolo

mi c’infilo

nel suo caldo grembo

al riparo degli tsunami del mondo

Il tono dell’intera raccolta accentua quella ricerca di essenzialità già distintiva della produzione precedente: il verso è breve, asciutto, simile ad un legno prosciugato; l’anima, in procinto di distaccarsi, guarda già al corpo come ad un involucro che ha perso la sua sostanza.

l’anima spando sulla terra

a ricambiarmi una solitudine

ampia come il cielo

mi appresto a gran passi agli ottanta

e ancor più poesia ti canto

-del mio sangue azzurra ala

ai confini della sera in quel

farneticare che richiama la morte

il tuo volare alto

come preghiera

Tanti i quesiti che si leggono fra le righe. Una volta riassorbito dal Tutto, l’uomo conserverà una scintilla della sua individualità? Il suo bagaglio di ricordi, le sue colpe, i suoi “scheletri” insomma: lo seguiranno o si dissolveranno?

sì onorarli

i morti che

ci perdonano con un velo di pietà

quelli che sognarono

il loro eldorado

ragazzi degli anta presto

dipartiti

ora di qualcuno

d’essi verrà detto

era un pezzo di pane

-anche se di certo avrà

portato con sé i suoi scheletri

o si saranno nell’altra

dimensione dissolti

Domande probabilmente destinate a restare senza risposta; ma, in mezzo a tanti dubbi, c’è comunque una certezza. Qualsiasi cosa saremo, siamo stati amore, ed è questo ciò che potrebbe sopravviverci. L’amore, eterno e ubiquo, ha una forza pari soltanto a quella della fede.

falesie di pensieri

tesse ragno di luce

vertigine: come

sarà senza il corpo

-serbata la vita

nella Pietà del sangue

solo espanso

pensiero saremo?

ci consoli certezza

di portare in salvo brandelli

d’amore

I due temi, l’amore e la fede, si trovano da sempre strettamente intrecciati nella poetica di Serino: qui, tuttavia, la fede non sembrerebbe avere il ruolo preponderante che ha rivestito altrove. Ma è solo un’impressione superficiale: ad un certo punto della lettura, infatti, ci si accorge che la presenza di Dio ha in questa opera una valenza molto più forte, tanto da poterla respirare in ogni verso. Ovunque, nel libro, c’è un silenzio pieno di Dio; e questa pienezza, così tacita e così viva, incarna il desiderio quasi tormentoso di anticipare la fusione con il sommo Bene, per trovare finalmente quella felicità che sembra preclusa alla condizione umana.

tocco in sogno la fiorita

riva delle tue braccia:

è una dolce pena questo lieve

sfiorare la tua vaga essenza

a un lunare complice chiarore

Fenomeni psichici come il dormiveglia o il sogno prefigurano in tal modo il trapasso, aiutandoci a distinguere con più chiarezza ciò che i sensi ci impediscono di vedere:

si concentra ed espande

l’amore in quel vivere-morire

delle prensili braccia

sospensione apparente carne e cielo

Un “vivere-morire”, appunto: una vela spiegata verso altri approdi, dove lo spirito può finalmente trovare conforto al suo perenne cercarsi.

dove ti porta il filo

dell’immaginario o del

sognare

dove

questa strana ma feconda

inquietudine

serpeggiante nel sangue

tutti i libri letti i mari

solcati – odisseo tu

nello spirito- dove

questo cuore nomade

d’amore

ti porta

Ma in fondo, la vita del poeta si è sempre svolta in una dimensione dualistica: da un lato, quel “paese interiore” dove l’anima può pienamente espandersi:

nel paese interiore

eiaculo i miei sogni –

vivo una stagione

rubata al tempo -mimesi

icariana sul vetro del cielo-

nel paese interiore

brucia il mio daimon

di febbre e di luce

Dall’altro, una realtà sempre più dominata dai falsi idoli, magistralmente descritta in “Un dio cibernetico?”:

vita asettica: grado

zero del divino Onniforme

-ma la notte del sangue

conserva memoria di volo

vita

sovrapposta alla sfera celeste

regno d’immagini

epifaniche

emozioni

elettroniche

eclissi dell’occhio-pensiero

In questa esistenza bifronte, la morte fisica viene vista come un evento che ci strappa il velo dagli occhi, consentendoci di riappropriarci di quella dignità ormai sconosciuta alla società degli uomini. Liberi dalle pastoie del mondo sensibile, ridiventiamo ciò che avevamo dimenticato di essere: mondi di pura luce, completi nella loro unicità e, allo stesso tempo, in quanto parte del Tutto.

dell’ indicibile essenza

noi sostanza e pienezza

solleva l’angelo un lembo

di cielo:

in questa vastità soli

non siamo: miriadi

di mondi-entità ognuno

in una goccia

di luce

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Donatella Pezzino

http://poesiaurbana.altervista.org/recensione-di-donatella-pezzino-a-lo-sguardo-velato-di-felice-serino/

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L’ANIMO SOSPESO ALLE VARIE DIMENSIONI DELLA VITA: la “VITA TRASVERSALE” di FELICE SERINO (a cura di Sabrina Santamaria)

april 12, 2020 by felice serino

Guardare oltre per scrutare profondamente il riflesso dell’altro, spingersi al di là di ogni immaginazione possibile; questa profonda sensazione mi ha suscitata la lettura della raccolta poetica di Felice Serino “Vita trasversale e altri versi”, un’eclissi dell’anima che conduce passo dopo passo ad un mosaico ultra mondano che il nostro poeta compone. L’ispirazione alla musa non costituisce solamente un retorico artificio letterario, ma un vero e proprio flatus vocis che accompagna il poeta per tutte le sezioni della raccolta. Il poeta, in questo capolavoro, riflette come uno specchio i sentimenti umani, gli intrinseci bisogni della natura umana, come essere che appartiene all’universo e si sposa con esso, infatti l’uomo è l’ornamento perfetto del cosmo, completamento infinitesimale che unisce

il creato a Dio, solo nell’uomo si manifesta quel punto di incontro cruciale con l’Essere Supremo. Serino conia dei neologismi, dei termini che appartengono alle volte al linguaggio della chimica e della fisica, ma che diventano patrimonio inscindibile del suo corredo linguistico. La sua sensibilità osserva la realtà in modo trasversale attraversando i componenti vitali della vita, come gli antichi greci che studiavano l’archè del mondo e la trovarono negli elementi naturali: acqua, fuoco, terra. Come se il nostro poeta vorrebbe partire all’origine primordiale del mondo per concludere con un’unione armonica e pacifica dell’uomo con il creato e Dio, in “Sogno di Cupido” ci descrive la sua visione: “Vedevo nel tempo di Veneralia in un cielo quasi dipinto splendere carnale fiamma”. Soffermandoci fra i versi di Serino notiamo un forte attaccamento alla vita, ma non solamente alla vita usuale, solita che viviamo, ma ad un atomo di vita che conosciamo quando ci interroghiamo sul significato ultimo del quotidiano, come in “Ondivaghe maceri parole”: “Quando ti rigiri tra le lenzuola ondivaghe maceri parole dove latita il cuore somigli al gabbiano ferito che solo in sogno ritrova il suo mare, la vita altra”. Fuori dal tedio che assilla l’uomo, quel tedio leopardiano che portava il pastore errante dell’Asia a chiedersi il significato del nascere e del morire, quel solipsismo che inquietava il nostro pastore (nel caso leopardiano), in Serino troviamo, invece, la volontà sincera, quasi un’abnegazione, a voler trovare delle assonanze fra l’uomo e l’aria che respira, è presente l’intenzione di creare una sorta di panteismo con il mondo. L’idea del nostro poeta è quella di mettere a soqquadro i modi di osservazione, ecco, perché “Vita trasversale” si tratta di un’appercezione che cerca di unire i vari modi di darsi dell’uomo al mondo, un’unione delle categorie aristoteliche che diventano un’unica sostanza, oltre l’esistenziale heideggeriano. Fenomenologicamente il nostro poeta opera un lavoro coraggioso e accademicamente impegnativo; quello di unire scienza e letteratura. Cerca di agire mettendo in atto un folle volo e compie un salto nel buio. “Vita trasversale” mi ha, anche, suggerito l’idea di un desiderio inconscio verso ciò che è ignoto, come a voler toccare con la punta delle dita l’infinitesimale, l’inquantificabile. Ciò che non può essere quantificato mentalmente può essere soltanto sfiorato solleticando la punta del naso all’infinito, in “Sognarmi” esprime esattamente questa sua esigenza poetica: “Sull’otto orizzontale librarmi etereo piume d’angelo a coperta di cielo”. Un altro aspetto, sicuramente da non trascurare fra le tematiche di Serino è l’onirico, l’incontro appassionato e agognato dell’essere umano col sogno, cosa ci regalano i sogni? Sono sostanza, qualcosa di palpabile? Oppure il loro carattere apparentemente inconsistente li rendono inafferrabili? Il sogno è un altro modo dell’uomo di darsi nell’esistenza, un’unione dell’ in sé e il per sé che diventa fenomeno infatti in “Dove palpita il sogno” racconta al lettore questa esperienza del sé nel dispiegarsi delle sue forme: “Da una dimensione parallela il Sé in me rispecchia la sua primaria origine punto dell’eterno dove palpita il mio sogno di carne e cielo” oppure in “Espansione”: “Il sogno è proiezione? o sei tu veste onirica uscito dal corpo?”. La poesia di Serino esprime un modo arroccato, abbarbicato fra la vita usuale e la vita ignota, le sue poesie esprimono l’animo di chi sta appeso ad un filo sospeso facendo l’equilibrista fra i vari strati consci della vita umana, che sia

terrena o celeste questo ancora non lo sappiamo, ma l’esigenza poetica del nostro in questa silloge è quella di cogliere a braccia aperte le dimensioni eterne dell’infinito.

“L’essere si spande si sogna moltiplicato in fiore atomo stella appendice? O espansione è il sogno”

cit. tratta da “Espansione” di Felice Serino

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Sabrina Santamaria

Tutti i diritti intellettuali riservati

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Il poeta-eroe contemporaneo in “Un dove di trasparenze” di Felice Serino

(a cura di Sabrina Santamaria)

La ricerca spasmodica della luce è una costante di Felice Serino; il panteismo è un afflato che lo rende originale come se la seconda variabile (panteismo) fosse direttamente proporzionale alla variabile indipendente (la luce). L’effabile “volo di Ulisse” tra gli amabili versi di Serino solleticano il desiderio di evasione di ogni comune mortale che percepisce dentro di sé un macigno piuttosto del cuore, infatti affrontando le problematiche quotidiane un uomo o una donna si trasforma in un eroe/eroina della contemporaneità. Il nostro poeta si esprime in modo chiaro, non si avvale di uno stile ricercato, questa credo sia una sua caratteristica poetica infatti questa è una delle motivazioni del titolo di questa raccolta poetica. Un aggeggio trasparente ci dà la possibilità di guardare il mondo esistente al di là della trasparenza, ma ciò costituisce un punto di forza o debolezza? Forse un orpello trasparente non è appunto inutile? Oppure ciò che traspare suggerisce anche una certa idea di limpidezza che un medium troppo artefatto non può fornire in quanto illusorio? I testi poetici del nostro autore mettono insieme l’utopia della chiarezza; i sentimenti e le emozioni pullulano fra le sue riflessioni, a volte tristi, a volte malinconiche o ironiche. Le espressioni racchiuse in “Un dove di trasparenze” si accordano con tonalità pacate che donano ai lettori sensazioni serafiche di estasi mistiche, l’attaccamento di Serino alla vita è a dir poco profondo giacché l’amore per la luce si estrinseca nell’imprescindibile culto divino in nome delle istanze vitali che il nostro autore venera al canto delle sue Muse ispiratrici: “La morte ti cerca? /Uscito dal guscio tu sarai altro”, << mi “nascondo” nel corpo/ da me emergono alfabeti afflati/ enunciate sillabe>> questi versi costituiscono un lodevole canto alla speranza di una rinascita, badi bene il lettore che sperare un’alba non equivale a illudersi come un prigioniero che agogna la sua libertà, in guisa della tempra coraggiosa del nostro autore possiamo sostenere che egli è un Ulisse dei nostri tempi perché sa, nonostante tutto, ben sperare quindi la sua armatura è composta da una spada, uno scudo e un elmo ossia metaforicamente: la speranza, il coraggio e la poesia. Gioviali canti sono accostati a inni malinconici però Felice Serino non si abbandona mai a sproloqui laconici ovviamente chi si appresta a leggere le sue poetiche riflessioni potrà schiettamente valutare che egli non è un letterato spartano dai toni rudi o aspri altresì il suo stile poetico non può definirsi del tutto classico o classicista; i suoi versi hanno un patrimonio lessicale colto, ma, allo stesso tempo, il nostro autore serba nell’animo la lodevole premura di farsi comprendere da un target di lettori ampio e questo impegno che il poeta manifesta dovrebbe essere inteso come un potenziale intrinseco che nel corso delle sue pubblicazioni l’autore ha certamente concretizzato con grandi risultati e apportando un profitto umano e di notevole spessore culturale. Felice Serino è un eroe del nostro periodo storico perché si protende verso sentieri che altri intellettuali, per pigrizia o per inerzia, non attraversano più, forse per timore di essere incompresi dalla massa uniformante che dirige l’uomo verso un’unica dimensione (vedi “L’uomo a una dimensione” di Marcuse) tanto è vero che l’umanità contemporanea è plasmata in un’amorfa intelligenza emotiva che la disorienta fossilizzandola in un’esistenza sempre più reietta; “Un dove di trasparenze” è il topos in versi in cui le insufficienze umane divengono palesi suggerendo l’idea di una libertà di espressione ancora oggi carente cioè la possibilità di poter raccontare i drammi, i dubbi, le angosce e le perplessità che pesano come carichi insormontabili nella mente umana soprattutto se non impariamo a saper comunicare e a saper dialogare condividendo con l’altro le nostre paure e anche in questa nuova chiave interpretativa l’eroe-poeta(in questo caso il nostro Felice Serino) assume connotati di una persona che tenta di elevarsi con l’ausilio della forza del grafema-fonema che rende liberi. L’eroe contemporaneo non rimane scevro dalle problematiche quotidiane, ma è colui che le vive metabolizzandole e affrontando le paure di ogni giorno quindi attraverso la presa di coscienza delle proprie debolezze ogni uomo può fortificarsi rigettando l’idea pietistica che causerebbe il nichilismo dell’Io purtroppo già reso vulnerabile da alcuni contemporanei fattori etico-sociali. L’Ulisse dell’Odissea di “Un dove di trasparenze” vuole tornare a un’Itaca interiore, senza confini, ecco la ragion per cui il “dove” del nostro poeta è utopia e allo stesso tempo ucronia perché il naufrago interiore cerca la regione o il porto (definizione di Kurt Lewin) sicuro nelle sfere più recondite di un Io che troppo spesso si smarrisce e brancola nell’oscurità; per venir fuori da questo tunnel la poetica di Felice Serino verseggia fra i fotoni di una luce ontologica e teleologica che ha un grande impatto in ogni lettore assetato di una via che possa donare le coordinate per un’isola ancora da scoprire, individuare i significati nascosti in “Un dove di trasparenze” ci farà valutare la sua fatica letteraria come un’ opera molto attuale e giammai obsoleta.

Sabrina Santamaria


Recensione di Renzo Montagnoli a DALLE STANZE DEL CUORE E DELLA MENTE

july 22, 2020 by felice serino

Dalle stanze del cuore e della mente

(Poesie 2018)

di Felice Serino

Libreria Editrice Urso

Poesia

Pagg. 56

ISBN 9788869542893

Prezzo Euro 10,00

Sublimare la parola

Felice Serino, più che un poeta, è un artista che vive per la poesia ed è tanto più vero qualora ci si lasci coinvolgere dalla sua consistente produzione che lo vede sulla breccia da molti anni. Con Dalle stanze del cuore e della mente, raccolta di poesie del 2018, l’autore, pur nell’ermetismo che la caratterizza, lascia prorompere una creatività sognante, un’ispirazione profonda che tende a sublimare la parola. In effetti, come nella famosa poesia di Luzi intitolata Vola alta parola, anche in questa raccolta i versi si fanno eteree immagini, spiccano il volo, liberi da qualsiasi legame terreno (da Fonemi – nella bocca della notte / -la luna sopra il petto / il letto è un mare dove sillabe / perdono sangue /…) e, in aggiunta ( Ricordi – confondersi del sangue col colore / dei papaveri nel sole / ampie distese a perdersi / mentre all’orecchio del cuore / a far capolino una / melodia nel tempo andata / ricordi / ci si appiattiva scalzi col fiatone / nell’erba alta / dopo una volata e / in levità d’angeli / quasi non si toccava terra). Quella delicatezza di esposizione, che da sempre lo contraddistingue, trova conferma anche in questa raccolta, è sempre più un segno distintivo del suo stile ed è frutto di come si accosta alla poesia, non con timore, ma con profondo rispetto. Chissà perché credo che questa sua caratteristica sia un che di originario, sia frutto di un sentimento nato in lui le prime volte che scriveva in versi, così che la poesia, la sua creatura, fosse, e probabilmente lo è ancora, avulsa dalla sua volontà, come se lui risultasse solo il semplice braccio di un disegno più ampio da cui inconsapevolmente scaturisce il risultato finale, ed è questo il rispetto per qualcosa di superiore che si compone sotto i suoi occhi. E ancor oggi che l’età non è più quella dei verdi sogni, l’aspetto sognante, l’emotività che si innesta riga dopo riga offre l’impressione di trovarsi di fronte allo stupore e alla serena innocenza di un bambino, come, per esempio, in La passera (memore della bella accoglienza / me la trovo sul davanzale ogni mattina / per “condividere” la colazione / è d’un piumaggio lucido e vellutato / l’ho chiamata “nerina” / …) e probabilmente ancor più con Primavera (capita che il bosco mi parli / ogni volta che abbraccio il “mio” albero / -risale / a un rito atavico / l’abbraccio: patto di luce-amore / mi parla -il bosco / tendendo le mille sue braccia / nell’espandersi in canti che allargano il cielo / ….). La straordinarietà di queste poesie è nella loro semplicità, non disgiunta tuttavia dallo svolgimento di tematiche che inducono più a riflessioni che a interpretazioni perché l’ermetismo dell’autore non esclude mai la facile comprensibilità, circostanza che, in un’epoca in cui spesso mi tocca leggere componimenti che risultano del tutto incomprensibili perché chi li ha scritti non ha idee chiare, conferisce un plus di valore alle stesse. Non credo debba aggiungere altro, se non il mio augurio di buona lettura.

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941 e vive a Torino. Autodidatta.

Copiosa la sua produzione letteraria (raccolte di poesia: da “Il dio-boomerang” del 1978 a “Dalle stanze del cuore e della mente” del 2020); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in nove lingue.

Intensa anche la sua attività redazionale.

Gestisce vari blog e tre siti.

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https://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=21559

http://www.poetare.it/recensioni.html

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Recensione di Guglielmo Peralta a ORIZZONTI DI PALPITI

july 8, 2020 by felice serino

Felice Serino

ORIZZONTI DI PALPITI

Questa silloge di Felice Serino si apre con la grande speranza rivolta all’Impossibile, a ciò che sta nel cuore di ogni poeta o artista in genere e che si può solo immaginare e tradurre in parole, in opere, nella piena coscienza, alla fine di ogni creazione, di avere prodotto qualcosa d’incompiuto, infinitamente distante da quell’orizzonte dal quale scaturiscono le idee e che non si concede allo sguardo orfico, sognatore e innamorato del volto inguardabile: non per espresso divieto ma perché ineffabile e perdutamente consegnato alla notte, in un altrove che il nostro poeta s’illude di cogliere e dove spera di “abitare” attraverso la parola, quella poetica, sottratta alla quotidianità, all’“ordito della vita” e “fuori dal coro”, non soggetta al sistema arbitrario e convenzionale dei segni linguistici. In virtù di questa parola egli ha la vaga sensazione di ri-trovarsi in qualcosa di perduto e che sente “palpitare” dentro di sé, nell’intimità, dove gli è data la possibilitàd’intuirsi, di guardarsi dentro e venire fuori, aprendosi a sé stesso e in questa apertura sentirsi prossimo a una verità che gli riveli la sua appartenenza a un altrove, a un mondo distante e diverso da questo in cui siamo gettati e che, al di là dell’«esser-ci» heideggeriano, gli dia la coscienza della vita autentica indipendentemente dall’«essere-per-la-morte». Perché è nell’intimità, dove accade il miracolo della creazione, che sorge la possibilità di agire attivamente contro l’irrazionalità e il vuoto, contro l’insensatezza e la nullità dell’esistenza, di distaccarsi dalle cose materiali e lottare per costruire un mondo migliore sulla Bellezza, su quel qualcosa di sublime che si manifesta restando nascosto e che ha il nome di Poesia. Di fronte al Meraviglioso, che si annuncia nella parola creatrice come orizzonte perduto, “tutto è ancora possibile” per Felice Serino, perché questa parola, a differenza di quella che si spezza contro la quotidianità e la realtà contingente, ha il potere di legare il suo mondo interiore all’oltre, sì che egli si sente rovesciato “come un guanto”; perché essa allontana e disperde ciò che, divenendo, è destinato a perire e mostra la vera natura delle cose, la loro essenza immutabile ed eterna.

“ti senti altrove e il più / delle volte fuori dal coro / ti chiedi se – nell’ordito della vita dove / si spezza la parola – ti sei perso / qualcosa – vorresti allora / rovesciarti come un guanto / riconoscerti come il / fuori del tuo dentro / aprirti a un’alba che / diradi questa / corolla di tenebre/ e sai che tutto / è ancora possibile”

Essere nel mondo, allora, significa per Serino opporre alle difficoltà contingenti della vita, all’angoscia esistenziale per la crisi profonda della società mondiale che sembra segnare il tramonto dell’umanità, il sentimento per ciò che è duraturo e, in quanto tale, portatore di una verità eterna in grado di aprire in interiore e in virtù della poesia quegli «orizzonti di palpiti» che sono espressione del suo stato d’animo particolare nell’atto della creazione, in cui lo sguardo e il cuore si cor-rispondono e si coniuganonella visione sinestetica, che è insieme immaginazione e sentimento, da cui sorge la parola poetica come l’alba, la quale è il pallido riflesso della sorgente, la possibilità e l’illusione di cogliere l’Impossibile negli “orizzonti” che essa apre al nostro poeta, suo sognatore fedele e innamorato. E quest’amore per la Poesia, per la Bellezza, che è ricerca della Verità trascendente e che si traduce nella scrittura, nel bisogno di dare forma a ciò che gli “palpita” dentro, è per Serino, ancora, un modo necessario di essere nel mondo, di dare significato al relativo/immanente, di valorizzare la dimensione umana rapportandola a quell’orizzonte assoluto di senso che è l’Essere divino.

“Tutto è possibile” nel sogno creativo e tutto è illusione, “stato d’incantesimo” e “delirio / che sanguina luce”, “breve estasi-amara / al risveglio”, quando le parole, “sillabe cadute dagli occhi”, lasciano il buio nell’anima e nuda la vista, ingannata dalle belle figure di suono e di significato: gli «allucinogeni» che catturano gli occhi, il cuore e la mente, protési e uniti nel vagheggiamento di un “cielo inventato”. La caduta dal sogno nella realtà non scoraggia il nostro poeta, non blocca i suoi tentativi di oltrepassare la “siepe”. In sostanza, la possibilità di giungere ��nell’Oltre” non viene mai meno perché essa è il connubio di fedeltà e amore; è l’espressione del legame tra l’immanente e il trascendente, tra l’umano e il divino, tra l’interiorità e l’alterità, tra il «sé» e l’altro da «sé», tra l’«esser-ci» e l’oltreità, tra gli “orizzonti di palpiti” e l’impalpabile «oltre», il quale è principio e fondamento della nostra vita che un giorno ci farà “colmi / di lucente meraviglia noi resi/ impalpabili / essenze e vieppiù reali / tanto che ci parrà un sogno / l’aver attraversato / nella carne la morte”, e tuttavia “nel circolo del sangue / noi in bilico / un piede nel mistero”.

«Si può» in virtù della poesia “trasumanar per verba”. Perché essa ci fa beati essendo grazia divina, per cui basta l’“erba miracolosa” della sua parola a proiettarci oltre la condizione umana e dare significato alla nostra esistenza. Perché essenziale è questa parola “nutrita del sangue degli dei” e perciò vitale, sempre pronta ad aprire gli “orizzonti palpitanti” contro i “chiusi orizzonti” del “progresso / dio-boomerang”, nonché in grado di contrastare, di contenere tutto ciò che deturpa la bellezza, di farci ritrovare “nel bailamme di giorni a perdere”, dove vacilla la certezza di esistere, di essere reali, e col dubbio sorge la domanda se siamo “quasi finzione o sogno”, consegnati e dis-persi nel “virtuale”.

“Tutto è possibile”, “tutto / può ancora accadere”, perfino di scoprire, al di là delle evidenze, delle assodate certezze, “quell’essere consanguineo / con lo spirito delle cose” e comprendere che apparteniamo alla totalità che non lascia nulla fuori di sé, che siamo tutt’uno in virtù dello Spirito unificatore. Allora “l’impossibile si fa / possibile” se non restiamo inerti e confidiamo nell’energia della parola poetica; possiamo tornare a stupirci di fronte a “ciò che sembra / umanamente assurdo”, perché anche le cose hanno la loro epifania e rivelano la loro vera natura al poeta nel suo stato di grazia. “Tutto è possibile”; solo resta il mistero dell’oltre, della verità ultima, irraggiungibile, preclusa allo sguardo e perfino al linguaggio poetico, perché la Poesia stessa è mistero e Parola ineffabile. La conoscenza dell’origine non è di questa vita; solo nel mondo celeste la verità impenetrabile ci sarà rivelata; l’oscurità sarà dissolta e saremo assorbiti “nel mistero lucente” del Tutto, avvolti nella “bolla / di un tempo non-tempo / come nella prima luce” e, dunque, non vedremo più “per speculum / in aenigmate”. Qui, nel riprendere le parole di S. Paolo1, la fede di Serino e la sua visione religiosa sono ampiamente dichiarate. Religiosità e misticismo sono tutt’uno col suo pensiero poetante, volto alla visio beatifica di Dio, del quale la poesia rivela la presenza nella profondità del mistero. E Dio si fa “presente” nelle parole che il Poeta Gli fa pronunciare e che testimoniano ancora la sua fede, la certezza di riuscire a sopportare, a dimenticare i mali terreni, nonché la speranza nella salvezza dell’uomo, al quale il Signore non farà mancare la sua misericordia e carità.

“(…) e come può non accoglierti la luce / se tu da questa hai origine? (…) dimentica / i bianchi deliri della solitudine / i voltafaccia dei giorni perduti / dimentica / come io ho dimenticato / sulla croce” (“Dimentica”)

“(…) Dio non è stanco / mai dell’uomo” (“La rosa di sangue”)

Le virtù teologali, che troviamo qui implicitamente espresse, assicurano al Nostro di essere accolto nella luce, la quale è la loro emanazione e il frutto della contemplazione mistico-religiosa e poetica al tempo stesso. Perché la Poesia è per Serino conoscenza ‘visionaria’ superiore a quella empirica. Gli “orizzonti di palpiti” sono mondi spirituali, stati di coscienza, “squarci / di vite trasversali / realtà sfumanti / nel mistero” che si aprono a una più completa conoscenza in virtù del legame tra l’interiorità e la suprema realtà spirituale. Attraverso la poesia il Poeta partecipa della divina visione, distoglie il pensiero dalla morte e lo rivolge dove “c’è del buono che ci salva”, dove è ancora possibile incontrare un sorriso e godere della natura. Ma è nella Verità oltre la morte la vita autentica; nella sparizione, che è il ritorno nella luce, dove siamo già stati, si compie il destino dell’uomo, si dissolve il mistero, e allora «vedremo faccia a faccia», sapremo chi siamo stati, chi veramente siamo. Di ciò è convinto il Nostro, perché la fede, sostenuta, suffragata dalla poesia e dall’amore, quello che “si scrive col cuore”, vince su ogni dubbio. Ed è in forza di questa certezza che egli può asserire ancora con S. Paolo2: “sapremo non per speculum / in aenigmate (…) allora / conoscerò / come sono conosciuto”. Solo allora la domanda sull’«essere» sarà soddisfatta. Oltre lo specchio del sogno la Verità mostrerà il suo volto, e il Nostro, come Raffaello rapito “davanti agli ultimi ritocchi” della “Mater dolorosa et Admirabilis”, contemplerà la sua Vergine: la Poesia che qui, in questo mondo, gli è concesso solo di sognare.

Guglielmo Peralta

1Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem (I Cor. 13, 12),

2(…) nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum (I Cor. 13, 12)

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Trasparenze – Recensione di Giovanni Perri

Poeta prolifico e di lungo corso, Felice Serino compone per accensioni. La sua è una poesia che non dà risposte ma interroga, e chiedendo, sigilla un piccolo mistero musicale. Ecco: per Serino il canto è ciò che di sacro ci accompagna nell’Oltre da cui veniamo, il mezzo per accedere all’inconoscibile che ci sovrasta, il punto azzurro nel cerchio che fa alta la vita.

C’è sempre una luce, un soffio di parole, l’anelito di un angelo guida; e poi c’è un uomo chiuso nella sua carne, e già sollevato oltre sé stesso, nella misericordia del giorno, liberato da ogni gravezza, da ogni impurità.

Per Serino il canto è comunione dei vivi e dei morti, perché questo è il posto dove lui vuole stare, questo il suo interminabile nostos, ed è questo, mi piace aggiungere, il crocevia dell’eterna poesia.

Ma la poesia è guardare con occhi anche l’attimo che accade, anche il male che vi declina, pungerne l’anima oppure tirargli il succo di una più intima verità.

Con un continuo affiorare di lampi onirici egli però intercetta sempre una speranza, rivolta il disincanto in gesto di preghiera, ci proietta in un comune desiderio di salvezza che è anche attraversamento del mistero, un mistero tutto da decifrare per una vita colma di senso.

Nel verso che nasce da una oscura cagione, e per questo si trattiene nella più piccola scaglia di luce, egli ripone il seme più prezioso che ha: la sua parola, il suo terzo occhio.

Con “Trasparenze” 2020/2021 (www.poesieinversi.it), Serino ci accompagna in un cammino di conoscenza, fatto di svelamenti meditati o improvvisi, in cui ognuno è chiamato in causa, perché parte di un tutto. Nel verso quasi imprendibile eppure molto lucido, si tirano le somme di un percorso lirico autentico e degno di ancora molta considerazione per chi lo legge oggi e per chi lo leggerà nel tempo a venire.

Giovanni Perri

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Dell’indicibile – Recensione di Raffaele Piazza

Felice Serino, nato a Pozzuoli nel 1941 e residente a Torino, autodidatta, è un poeta che ha ottenuto numerosi consensi critici e che ha vinto molti premi letterari. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia da dio boomerang del 1978 a Quell’onda che ti tiene lieve, 2019.

Dell’indicibile, la raccolta del Nostro, che prendiamo in considerazione in questa sede, è preceduta da una presentazione di Giuseppe Vetromile esauriente e ricca di acribia.

Già a partire dal titolo del volume ci rendiamo conto che Serino è ben conscio dell’importanza della poesia come fatto in sé salvifico e utile per una vera redenzione del poeta che può essere redenzione anche per il lettore.

Se la poesia è sempre metafisica attraverso l’ipersegno qui il poeta si rende conto che la forza portante del poiein di ogni autore e in primo caso del suo lavoro, il suo fare poesia, consiste nel dire l’indicibile e a questo proposito vengono in mente l’estasi e il sogno stesso, elemento che per molti artisti non solo poeti è fonte d’ispirazione profonda se è vero come affermava Maria Luisa Spaziani che la poesia è il genere letterario più alto.

Indicibile significa grandissimo, eccezionale, indescrivibile, straordinario e insolitamente grave e profondo e sembra che Felice, poeta mistico ed esistenziale, con questa raccolta raggiunga la più alta maturità espressiva senza mutare la forma in modo notevole ma mantenendosi in continuum con le precedenti prove.

Il senso del mistero perdura in questo libro quando sono detti gli angeli e i morti con i quali il poeta dice di avere un rapporto empatico in una bellissima composizione e si percepisce il senso del sacro anche quando Serino non nomina cose religiose ma si mantiene in una dimensione di quotidianità nella quale ritrovare costantemente il vero senso della vita, un filo che tenga per sopravvivere anche nel tempo della pandemia.

E anche il tema sociale – politico è affrontato nell’invettiva contro gli scafisti che speculano sui migranti, tematica attualissima.

Serino è conscio che la poesia sia, per usare una metafora, il negativo fotografico della fotografia che è la vita stessa, il precipitato chimico delle nostre esistenze, quindi la poesia è fondante nella vita per arrivare ad un’eterna adolescenza della parola stessa per un ringiovanimento che non è solo della mente ma anche del corpo.

Versi scabri non definibili neo lirici tout-court anche se ci sono a volte accensioni e spegnimenti che s’inverano nella linearità dell’incanto.

La raccolta non è scandita e può essere considerata vagamente un poemetto e la dizione è luminosa, ben cesellata e raffinata, elementi costanti nelle prove del Nostro che a volte raggiunge toni neo orfici.

Se la vita è questa non è tanto l’uscita religiosa l’ancora di salvezza (pur essendoci una splendida composizione sul Cristo), quanto proprio l’indicibilità stessa che diviene categoria fondante per uscire dalle angustie e dalle frustrazioni del tran – tran quotidiano e da quello di un’esistenza che metterebbe in scacco.

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RECENSIONE DI RENZO MONTAGNOLI A “SOPRA IL SENSO DELLE COSE”

Sopra il senso delle cose

di Felice Serino

Libreria Editrice Urso

Poesia

Pagg. 56

ISBN 9788869543463

Prezzo Euro 10,00

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Esperienza e creatività

Sopra il senso delle cose è un’altra silloge che si aggiunge alla già corposa produzione poetica di Felice Serino a cui di certo non mancano né l’esperienza né la creatività che con il passare degli anni si sono fatte più mature, pur restando la tipicità dell’autore di trasporre la realtà in una visione onirica, che ben si presta a essere espressa in versi, come nel caso di Sopra il senso delle cose, poesia che dà il titolo all’intera raccolta ( chi può conoscere / meglio della terra i morti / l’inverno col suo bianco manto / il silenzio copre e il loro cuore / oltre orizzonti di palpiti / vegliando aleggia / il mistero / sopra il respiro dei vivi / sopra il senso delle cose / come un sole freddo ).

Come sempre Serino tende a sublimare la parola, così che la stessa non è solo parte di un discorso, ma diventa autonomamente mezzo di espressione, frutto di una ricerca per nulla semplice, ma dai risultati di notevole effetto, e ciò nonostante predomini un certo ermetismo, peraltro di non difficile interpretazione ( di sguardi è il sogno o polvere / della nostra creazione noi polvere / del sogno noi sogno di Dio / tra intermittenze / di fosfeni veleggia / l’ “occhio” per inesplorati lidi ).

Ogni tanto il tema ripercorre il passato, sempre più presente mano a mano che aumenta l’età, ma non c’è rimpianto, se non la semplice constatazione che ogni epoca ha le sue caratteristiche e che la vecchiaia è fatta di ricordi che appaiono luminosi nella nebbia del tempo trascorso ( Mare d’erba – con l’ avanzare degli anni / riduci sempre più il percorso / delle tue camminate / giungerà il momento / di affacciarti solo sull’ uscio / o dalla finestra vedere l’ immensa / distesa di verde e nello / stravedere la scambierai per quel mare / che ti vide nascere / -ti brilleranno gli occhi andando / col pensiero alla fanciullezza gaia / ora quella luce è fuggita / lascerai / impregnato quel mare d’erba / di amori e pene ed eterei voli ).

Sarà per la mia non più verde età ma resta il fatto che sono in sintonia con quanto esprime Felice Serino e quindi il mio giudizio ampiamente positivo ne è influenzato; tuttavia, anche leggendo e analizzando asetticamente le poesie che compongono questa raccolta non si può fare a meno di rilevare le felici scelte espressive, lo svolgimento armonico delle tematiche e l’indubbio piacere che si ritrae, tutti elementi altamente qualificanti che se sono una caratteristica comune a tutta la produzione dell’autore non sono però scontate nel caso di altri poeti.

Aggiungo inoltre che la semplicità che caratterizza le composizioni è da sempre una meritoria caratteristica di Serino, il cui ermetismo, mi preme ribadirlo, è tale da non rendere problematica l’interpretazione dei suoi versi, a tutto vantaggio della gradevolezza che si accompagna alla lettura.

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941 e vive a Torino. Autodidatta.

Copiosa la sua produzione letteraria (raccolte di poesia: da “Il dio-boomerang” del 1978 a “Dalle stanze del cuore e della mente” del 2020); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in nove lingue.

Intensa anche la sua attività redazionale.

Gestisce vari blog e tre siti.

Renzo Montagnoli

https://www.amazon.it/review/R3PGQC6IH0OHN9/ref=pe_1640261_66412381_cm_rv_eml_rv0_rv

https://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=22694

https://www.ibs.it/sopra-senso-delle-cose-libro-felice-serino/e/9788869543463

http://kultunderground.org/art/39835/

http://www.poetare.it/recensioni.html

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Fra sogno e realtà

Quell’onda che ti tiene lieve – Felice Serino – Urso – Pagg. 56 – ISBN 978-88-

6954-242-8 – Euro 10,00

E tre, verrebbe da dire, perché con questa sono tre le raccolte di poesie di Felice Serino che ho avuto l’opportunità di leggere. La prima, che mi ha fatto incontrare l’autore, è stata Dalle stanze del cuore e della mente, una sublimazione della parola, la seconda è invece stata Sopra il senso delle cose, una silloge che, recensendola, ho ritenuto di definire frutto dell’esperienza e della creatività. Del resto il poeta, di origini napoletane, ma dimorante a Torino, è un artista di lungo corso che via via negli anni ha affinato il proprio modo di verseggiare, e ciò è facilmente riscontrabile leggendo le sue composizioni in ordine temporale. Questa che ora ci occupa si inserisce cronologicamente, almeno come epoca di pubblicazione, in posizione intermedia, senza segnare una marcata evoluzione e fermo restando quella ricerca introspettiva che è materia propria dell’autore uso ad approfondire con progressività.

Nel contesto di ricerca di ciò che può rivelare il proprio Io si nota particolarmente, apprezzando, una visione evanescente che dona particolare fascino, ammantando il verbo di magia, all’intero corpo come in Angelo della luce: adagiati creatura del sogno / sulla curva del nostro abbandono / la lontananza è ferita insanabile / un cielo d’astri divelti / e tu balsamo sei / -tu orifiamma tu altezza / sognato stargate – /dove voce insanguinata c’inchioda / dalla caduta. Sono versi che tendono a volare, a superare confini naturali per congiungersi a un mondo di fantasia, la cui porta, lo stargate, è in attesa di essere valicata. In questo universo che si potrebbe definire poetico Serino s’invola, novello Ulisse verso un’Itaca che è la propria dimensione interiore, un’avventura senza fine in cui conta di più la conoscenza che si incontra nel percorso che il raggiungimento della meta (da Sull’acqua: sul grande mare del sogno / veleggiano i miei morti / gli occhi forti di luce / con un cenno m’invitano / al loro banchetto sull’acqua / d’argento striata / m’accorgo di non avere / l’abito adatto / cambiarmi rivoltarmi / devo / vestire l’altro da sé .). E tutto procede in una sorta di limbo, un sogno che porta ad altra dimensione, e in cui con maggior chiarezza è possibile leggere dentro di sé, in una visione che continua a essere evanescente, una sorte di ectoplasma che avvince e respinge (da L’elemento celeste: tornerò ad essere pensiero espanso / quando dalla scena / sarò sparito / dove si curva all’orizzonte il mare / sarò forse atomo / fiore o stella e / in estasi / mi unificherò all’elemento che da sempre / mi appartiene). Si resta attoniti, anche sgomenti spettatori di una metamorfosi, di una trasformazione che è un’implosione della persona stessa, e,

comunque, il tutto si riassume, si comprende con chiarezza in questi versi, con cui vorrei chiudere la recensione di un’opera complessa, ma dall’indubbio fascino: da In vaghezza di sogno “ ti rigiri e vedi -in vaghezza di sogno / un te estraneo vagare / per strade buie e vuote / come un san sebastiano a trafiggerti / gli strali della notte – senti / recalcitrare / in te l’uomo vecchio – ah convivere / con gli umori di un corpozavorra / ti avvedi d’aver perso le chiavi / di casa mentre un gallo / canta / in lontananza ed è l’alba “.

Renzo Montagnoli

https://www.lin.it/scheda-libro/felice-serino/quellonda-che-ti-tiene-lieve-9788869542428-2779864.html

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Dietro il velario di Felice Serino letto da Angela Greco AnGre

24 settembre 2024 ~ Angela Greco – AnGre

Il collage posto in copertina (composto dallo stesso autore e pubblicato in catalogo) è immagine che al meglio non poteva aprire-presentare Dietro il velario, e-book del 2024, prodotto in proprio con prefazione di Mario Sacomanno: una visione estesa sugli accadimenti del mondo e intensamente vissuti dal poeta. Una collettanea di scritti del 2021 e di esperienze nella quale Serino (in questo blog) torna a fare esatta mostra della sua ormai consolidata capacità di visone e scrittura, procedendo in quell´avanzamento tecnico-stilistico, quella “maturità” a volerla chiamare in altro modo, che già si era mostrato in precedenti lavori.

Le produzioni di Felice Serino sono passi segnati, punti fermi, soste di consapevolezza, riflessioni estese sul lavoro compiuto e sempre offerto in maniera gratuita al lettore che ne segue il cammino, passo dopo passo.

Dietro il velario, fin dal titolo, ha il pregio di restituire al lettore una situazione che spesso sfugge, ossia quella di domandarsi a riguardo di cosa ci sia o possa esserci al di là di quello che si vede e si sente. Un susseguirsi di componimenti che conducono il lettore a interrogarsi su quel qualcosa che ormai è sempre più nascosto da tanto, da troppo. Ed ecco, allora, che la poesia si fa introspezione, domanda, ricerca meticolosa del protagonista nascosto da quel velario-mondo: l´Uomo. Uomo, che avverte nitida dentro sé la coesistenza dei differenti dualismi che lo distinguono dagli altri esseri viventi e con i quali costantemente deve imparare a vivere e, ancor più, convivere.

In te l´immenso

quest’allumare d’anima che

senti come vastità

di rifiorite rive

questo accogliere in te

l’immenso

oltre l’esilio di carne

franta

Il poeta, quindi, riducendosi alla essenzialità della parola e indagando su quello che è nascosto, cerca l´ appartenenza alla sua essenza e contestualmente cerca di ritrovarsi per poter, successivamente, ritrovare tutto il perduto che compone l´intera esistenza non soltanto propria. E qui entrano in gioco i vari aspetti di cui si compone l´Uomo e che Felice Serino riporta nella sua scrittura poetica: il quotidiano, il sacro, l´ attualità, la circostanza particolare, l´arte e la filosofia, compagni di domande e riflessioni che completano la poesia stessa.

Non si è mai scesi dal grande palcoscenico della Vita, nemmeno a fine stagione o per l´intervallo tra due atti, e Felice Serino ha intuito che occorre ricondurre tutto alla verità che sempre più si fatica a seguire, perché richiede sacrificio, scelte precise e conoscenza prima di tutto di se stessi. Il poeta, allora, nei versi di Serino, divine il mezzo per approdare alla nuova riva di una terra ferma tutta da ricostruire e ancora assolutamente necessaria per il prosieguo di questa favolosa avventura a cui tutti siamo chiamati. [Angela Greco AnGre]

Dietro il velario

che siamo –

un fremito – come quello che avvertì

il primo uomo – in questo volteggiare

d’anime erranti

maschere in una

pantomima –

dietro il velario

dove s’apre il grido

della bellezza ferita

riconoscersi

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https://ilsassonellostagno.wordpress.com/2024/09/24/dietro-il-velario-di-felice-serino-letto-da-angela-greco-angre/

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RIFLESSIONI SULLA RACCOLTA “LA DIFFICILE LUCE” , 2005

di Felice Serino

Nostalgia immemore

Io penso che le nostalgie che trapelano dai tuoi scritti non sono nostalgie terrene.

Si tratta unicamente di una nostalgia che sfugge alla memoria, infatti non possiamo avere flash visivi, odori, suoni, gusti, sensazioni tattili se non in questo mondo. Non c’è un ricordo che inchioda il tempo, che languisce, che rimpiange e che rende amaro il quotidiano. Non c’è un ricordo bello e non c’è un ricordo brutto che infantilizza o rende immaturo il nostro vivere. Non c’è… non c’è, non c’è. Non ci sono regole nel mondo assoluto dell’amore da cui proveniamo, non ci sono schemi, non ci sono segni di riconoscimento, Dio si riconosce in tutto e in tutti e noi ci riconosciamo in lui. Nei cieli, per intenderci, non ci sono paletti che delimitano spazi né orologi che scandiscono tempi, l’eternità è fatta di ben altra pasta e noi non sappiamo quale. Avvertiamo solo un senso di appartenenza, un afflato, un desiderio d’infinito di quando siamo stati intessuti nel seno materno di Dio dalla Sapienza e dalla Parola che, nell’atto del creare, han separato Creatore e creatura. E’ questo distacco – a me sembra – che porta, causa in te il pathos nostalgico, immenso, senza paragoni.

E’ facile e naturale che un immigrato senta il richiamo delle sue radici; tutti noi siamo immigrati e mandiamo smisurate lettere al cielo:

preghiere o imprecazioni in attesa dell’immancabile ritorno.

Proveniamo da una dimensione celeste e quello che ce lo fa riconoscere è che Dio non ha mai tolto il suo amore da noi.

Siamo concittadini dei Santi e familiari di Dio catapultati su questo globo di creta per riconquistarci, nella prova, la Gerusalemme liberata, la Gerusalemme celeste e il volto di nostro Padre che bramiamo di vedere per poterci rispecchiare in lui. Già il Paradiso ce l’ha conquistato Gesù ma noi dobbiamo metterci del nostro e un giorno comprenderemo pienamente chi siamo. Per ora, nell’estasi, possiamo fare solo piccoli assaggi dell’Eden, come una goccia d’acqua che evaporando sale ma che presto ridiscende rientrando nel suo corpo.

Andrea Crostelli [lettera privata]

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RIFLESSIONI SULLA RACCOLTA “FUOCO DIPINTO”

di Felice Serino

[edizione dell’autore, 2002]

Corpo di vetro

Ci sono poeti legati alla terra (e questi forse sono la maggioranza, nonostante la poesia venga dai luoghi più reconditi e inspiegabili) e ci sono poeti propendenti al cielo; sicuramente Felice Serino è di questa seconda fascia.

A volte il cielo parla con il sangue delle tue vene

più che con l’indaco delle tue arterie,

comunque sia vuole sentirsi uomo

forse solo per avvicinarsi a chi lo guarda

perché costui ci si rispecchi perché l’umanità nel mondo

è ciò che prevale e pervade il mondo

finché ci sarà mondo,

allora il cielo non può far altro

che ripiegarsi nel gesto d’amore iniziale

e improntare continuamente la sua somiglianza

col fiato sospeso di chi attende

la perfezione finale del ricongiungersi.

E’ pure vero che il cielo può rapirti o che tu contemplandolo favorisca la sua “presa”, e in quel momento d’estasi che non t’appartieni sei finalmente libero. Cosa strana, libero di essere preso, libero di appartenere a qualcos’ altro che ti ama e ti sovrasta d’amore.

In questo tipo di situazione puoi sentire il tuo corpo leggero, di vetro, accessorio superfluo, e quindi… “ride la tua immagine d’aria”.

E’ la fusione del tuo corpo nell’immenso corpo cosmico. Diventa una fatica sottrarsi alla luce per tornare indietro sui passi che la terra chiama a percorrere.

Quella “carne attraversa un incendio”, un incendio piacevole, pienezza per l’anima la fusione col tutto, difficile accettare che si tratti di un momento, di un solo momento dal quale però ricevi carica per affrontare il quotidiano imperniato di materia. E affrontare il quotidiano significa mettersi a servizio, soffrire per chi fa uso di L S D, del fumo, del bere e delle donne come strumento di piacere, soffrire per chi naviga nel male e non si lascia investire dalla luce, soffrire di chi abusa del potere e che, quindi, è nemico della luce.

Felice Serino denuncia la violenza, la guerra con le armi potenti della poesia, e sa cosa potrebbe aspettargli: “di certo m’imbavaglieranno / non sopportano di guardarmi negli occhi”. Non scorda poeti assassinati (Dalton, Heraud, Urondo) per strada o nei manicomi (Campana) ma non può e non vuole trattenere la forza della parola che gli esce dal di dentro.

Dichiara che la morte è sconfitta dalla luce [vedi: “Frammento (lettera di un malato terminale)”], lui, infiammato da una luce, che va oltre i suoi interessi per l’astrologia.

Puntuali, brevi, atossiche e con lampi intuitivi niente male le poesie di Felice Serino ridanno fiducia all’uomo che vuole incontrare animi trasparenti per procedere incoraggiato e sollevato nel cammino dell’esistenza.

* * *

Clessidra in polvere

Il tempo è un’argomentazione che preme al poeta; Serino dice: “nel sangue un tempo tuo – rotondo”. Una continuità di pienezza a cui aspira, tende, come si tende alla perfezione. A me lancia l’immagine del ciclista, quello bravo dalla “pedalata rotonda”, costante, mai scomposto e bello da vedere.

Costui elimina i vuoti e va spedito verso il traguardo. Infiammare il sangue d’amore è benzina che brucia il l’acido lattico alle tue gambe che vorrebbe bloccare la tua corsa. Senza ostacoli nell’ immaterialità delle cose avanzi con l’aiuto dell’angelo che “da dietro il velo / del tempo è luce al tuo passo”.

Il tempo frequentemente è l’accusatore e l’accusato delle nostre irrealizzazioni. Perché allora non velarlo d’irreale? Perché non portarlo in un altro contesto dove non sia lui a dirigere le danze bensì noi “cosmonauti di spazi / sovramentali”?! Perché non ipnotizzarlo o sognare di ipnotizzarlo?! Perché non condurlo nel nostro sogno per poterci camminare a braccetto?!

“Nel paese interiore” – aggiunge il poeta – “vivo una stagione rubata al tempo”.

Ma forse, o molto probabilmente, il tempo ideale di Felice Serino non esiste, perché egli ama guardare “all’indietro nell’imbuto fuori del tempo” e avanti “per volare fra le braccia della luce”, proiezione anch’essa d’eternità.

Andrea Crostelli

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VA OLTRE IL SEMPLICE VERSO O LA PURA PAROLA

Felice Serino, poeta campano e residente nel capoluogo piemontese, ha pensato bene di pubblicare le sue poesie più riuscite, tratte da quattro volumi (“Il dio-boomerang” 1978; “Frammenti dell’immagine spezzata” 1981; “Di nuovo l’utopia” 1984; “Delta & grido” 1988, in un’opera unica inserendo anche la sua ultima silloge “Idolatria di un’assenza”.

Ed è proprio questo il titolo che Pino Tona in apertura così sintetizza: “Le poesie della presente raccolta non hanno metrica e non godono della musicalità della rima: ubbidiscono solo all’estrosità della penna matura dell’autore che ha avuto il pregio di far scandire senso e doppio senso senza mai stancare la sensibilità del lettore”.

Giustamente, è la maturità dell’autore che si erge a vele spiegate in una forma soprattutto particolare e suggestiva: il ritmo incessante, le frequenti parentesi, l’ambiguità, l’importanza del significante, di ciò che va oltre il semplice verso o la pura parola.

Ma Serino è anche poeta di “fondo”, sa stare in superficie ed è agile nel penetrare dentro, sino alla radice delle cose: “la vita: unghiata sulla carne / del cielo: un grido / rosso come il cuore”; il suo grido si alza, là dove necessita, nell’universale stordimento degli eventi: “ma sarò ancora la denuncia la voce / di chi non ha voce sarò il suo sangue che urla / la storia attraverso i miei squarci”.

Bravo è il poeta nella costruzione delle frasi, le quali condite anche da opportuni enjambements invitano a lunghi respiri. Un gioco suggestivo che sottolinea il forte impegno tecnico: “gli anni che il volto grida l’amore / cristallizzato le notti che si spaccano alla volta / del cuore absidi-di-nuvole le ipotesi / di vita o voli della memoria oltre l’urlo” oppure: “tua anima di uomo-di-carta / fino a farla sanguinare nel grido / dell’inchiostro guardarti dal di fuori tra idoli / famelici che ti fanno / a brani mentre bagliori d’insegne scheggiano la / coscienza lampeggiando”.

Continuando nel mondo seriniano, si nota la penna del nostro autore affilarsi come lama e accendersi come fuoco: “da albe incancrenite si alzano babeli / che imbavagliano il grido / di coscienze impiccate / a capestri di profitti” per poi subentrare una voce pacata, quasi melanconica: “detrito / dei delta ove tendi senza / foce le braccia rotte / di solitudine e sei come / giuda col tuo peso / di terra”.

Il rammarico di Felice Serino, in quanto troppo premurosamente “lasciamo il posto alle macchine”, nell’insensatezza di certi giorni, di una vita che forse è legata a troppe regole (lo stesso Blaise Pascal a suo tempo disse che “le leggi sono leggi non perché sono giuste ma perché sono leggi”): “al trillo della sveglia c’è chi si fa / il segno della croce mentre al piano / di sopra un altro forse apre il giorno con una / bestemmia c’è chi sventola una bandiera / di carne e chi miete denaro di / sangue uno chiude l’anno con un volo / dall’impalcatura mentre la donna del magnate fa il bagno / in 200 litri di latte vedendo distratta / i cristi del terzomondo in tivù”.

Il quadro poetico di questo autore, sfogliando il suo “Idolatria di un’assenza” è una continua scoperta di immagini vive viste anche al microscopio e, forse più suggestive, da un’ altezza e un’angolatura sempre differenti: “li inghiottirà una fuga / di luci la città verticale / allucinata: la sua bava / di ragno che tesse latitanze” là dove l’uomo si aliena da se stesso anziché dal resto del mondo: “recita la propria morte e finge / di fingere per essere autentico”.

Ed è poeta colui che piange e ride (riprendendo il caro concetto pascoliano) come un fanciullo; ma è anche colui che fra le mani si nasconde il volto nella tenera paura di riuscire a capire: “lancerà l’orso il suo / anatema / sugli uomini e la loro cecità / per non aver posto un albero tra / sé e la sua fine”.

Fabio Greco

[“reportage” – n. 21/’94]

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Critica al libro “In una goccia di luce”

di Felice Serino.

A cura di Luca Rossi.

Febbraio 2009.

Incentrato sulla psicologia dell’ Io, tra interiorità-esteriorità, tra morfologia del corpo (il

pre-essere che si fa uomo, il quale si relaziona successivamente col mondo), il biennio 2007-2008 vede il poeta dare alla luce queste nuove liriche, riaffermando

il suo indagare su ciò che è temporalità e realtà.

Già la prefazione di W. Blake anticipa quello che sarà il corpus poetico che vede la “bellezza dell’essere” risiedere nel mistero ancestrale del creato. Quell’essere che non porta al suo interno il mistero stesso, è un individuo che acquista scarso valore. E’ questo che pare voglia affermare Serino ribadendo le parole di A. Crostelli nella lirica che apre la silloge. Un mistero dentro il quale si racchiude il bello e il brutto di ciò che è umano e non trascendente, per chi volesse pensare ai versi del poeta solamente alla luce dei lumi del cristianesimo. Un mistero che è regione spazio-tempo indeterminata, in cui anche i sogni hanno un loro ruolo (vedi: “In sogno ritornano”): “amari i momenti del vissuto/ che non vorresti mai fossero stati…//si affaccia nel tuo sogno bagnato/ quel senso di perdizione…”.

Riflettori da cui diparte una luce “insostanziale”, che ci permette di vedere il “non-vissuto” o ciò che non si vorrebbe scrutare perché figlio della paura “…luce verde della memoria/ scuote la morte”, come afferma in “Insostanziale la luce”.

Una luce che diviene il punto di partenza incentrando il discorso antropologico intrinseco nel vissuto di ognuno: “…sostanza di luce e silenzio/ sapore dell’origine…”, da “Lacera trasparenza”.

Entrare nel mistero vuole dire entrare nella luce: “…camminare nel mistero a volte/ con passi non tuoi…”, da “Entrare nella luce”. Mistero come sinonimo di fragilità dell’essere e brevità del tempo, o fortezza di entrambi.

Il concetto viene mirabilmente espresso in quelli che potrebbero ritenersi i versi centrali di tutta l’opera, riportati in “Se ci pensi”: “capisci quanto provvisoria/ è questa casa di pietra e di sangue/ dove tra i marosi il tempo/ trama il tuo destino di piccolo uomo?…//…mentre ti ripugna/ il disfacelo lo scandalo/ della morte il salto nel vuoto”.

Come non riandare ai versi della Dickinson scritti per la morte del nipotino Gilbert?

Incostante, poco convincente la chiusura della poesia “Mondo”, dove colui che scrive sembra smentire tutta una filosofia etico-morale appartenente al suo modo di concepire l’immagine dell’essere che detesta il mondo. Eppure è proprio in “quel” mondo che nasce l’uomo descritto da Serino, anche se proveniente da bagliori indefiniti. E’ proprio lì che il mistero di un amore-odio ha valore solo se entrambi coesistono. Non ci potrebbe essere amore se non esistesse odio. Non ci potrebbe essere odio se non esistesse amore. Binomio indissolubile senza il quale tutto sarebbe utopia, anarchia del pensiero collettivo, sempre che non si varcassero le porte del trascendente. Che il suo dichiararsi contro la guerra sia la ragione che sublima il pensiero umano è cosa scontata, ma non reale nella sua pienezza, perché è in quello stesso uomo che il bene e il male convivono.

Così come in “Sic transit…”. Ma questa è la realtà dell’uomo contemporaneo. Aggrapparsi all’effimero o costruire il suo dominio sulla roccia. Probabilmente l’abile penna del poeta vuole portarci a fare un salto di qualità nell’apprendere il suo professare.

Un salto di qualità che è didattica. Perché questo è il fine ultimo della poesia, anche se talvolta difficile da concepire.

Una poesia fine a se stessa, con un costrutto essenzialmente “vuoto”, è infruttuosa. Deve sussistere una poesia invece in grado di farci volgere lo sguardo alle “coordinate dei sogni -e/ l’insaziato stupirsi della vita/ da respirare su mari aperti// – che tenga lontano la morte”, da “Nel segreto del cuore”.

La morte, la morte…Altra descrizione di un paesaggio tanto forte quanto quello della vita. Il passaggio dalle tenebre alla luce può essere violento, ma è in questo che si risveglia la coscienza di chi vive tra il bene e il male operando attraverso strumenti di discernimento, quelli dettati dalla poesia, appunto: “e tu di nuovo ostaggio della notte/ l’invito/ l’abbraccio del vuoto// parola neo-nata/ la chiami nel buio/ l’innervi in parole// la plasmi a scalpelli di luce”, da “L’invito”.

La morfologia della poesia di Serino differisce da ogni altra per il suo concatenare i puri elementi dell’anatomia umana (sangue, nervi, fonemi, ecc.) con quelli del logos, perché la parola diventi carne ed entrambi, così terreni, così tangibili, generati da una forza a cui fare ritorno e in cui rispecchiarsi.

Non serve riportare nelle note biografiche la breve descrizione di chi sia il poeta, di quando sia nato o di ciò che abbia scritto. Le poesie da lui scritte sono un biglietto di presentazione, il biglietto da visita dell’uomo-poeta.

Egli è l’Hermes, colui che nella mitologia greca è il dio dei confini e dei viaggiatori, di tutti noi insomma, di quella geografia che ci appartiene, corporea e del pensiero.

Dio degli oratori e dei poeti, dei pesi e delle misure. E’ apportatore di sogni, osservatore notturno, interprete.

Mercurio, nella mitologia romana.

Serino ci trasporta così dal buio alla luce, dal non-essere alla forma dell’essere.

Scruta le ombre per capire dove sia la fonte di luce che le genera, perché senza luce, non esisterebbe ombra. Ladro e bugiardo solo apparentemente in certe strofe da lui scritte al fine di riscattarci a valori assoluti a cui il nostro “uomo di domani” deve rivalutarsi dal passato.

Proveniente dalla luce, attraversando le tenebre, si (ci) indirizza verso il mistero, oltre lo stesso.

Mi permetto solo di rubare alcune parole all’amico prof. D. Pezzini, direttore della cattedra di lingua inglese e letteratura medioevale inglese presso l’università di Verona, che nel descrivere la figura del poeta gallese Ronald Stuart Thomas, scrisse in un suo libro per gli studenti universitari: “Thomas ha infatti della poesia una visione che diremmo severa e impegnata, nella quale egli traduce un percorso di scoperta personale che passa attraverso la lettura del mondo in cui vive (…) e di indagine ostinata del proprio io alla ricerca del senso ultimo delle cose.”

Questo, a mio modesto avviso, vale anche per F. Serino.

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COMMENTI CRITICI

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Commenti a poesie di

Felice Serino

[di Luca Rossi, Andrea Crostelli e altri]

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“La Ricerca di Felice Serino”: Un’Odissea Introspettiva. Recensione di Alessandria today

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La Ricerca, poesia di Felice Serino, è un’esplorazione profonda dell’animo umano e della sua incessante ricerca di significato. La poesia ci porta in un viaggio introspettivo, attraverso i dubbi, le paure e le speranze che caratterizzano la nostra esistenza.

Serino utilizza un linguaggio ricco e suggestivo per creare immagini vivide nella mente del lettore. Le sue parole ci trasportano in un mondo interiore di riflessioni e domande esistenziali.

La poesia è ricca di metafore, come la vita paragonata ad un “mare in tempesta” e la ricerca di significato ad una “stella polare”. Queste immagini rafforzano l’idea della vita come un viaggio incerto e pieno di sfide.

Il tono generale della poesia è riflessivo e malinconico. Serino riconosce la difficoltà di trovare risposte alle domande più profonde della vita, ma non si arrende. La poesia ci ricorda che la ricerca di significato è un viaggio che vale la pena intraprendere, anche se non sappiamo dove ci porterà.

In sintesi, “La Ricerca” è una poesia profonda e toccante che esplora il tema universale della ricerca di significato nella vita. La poesia ci invita a riflettere su noi stessi e sul nostro posto nel mondo.

Pier Carlo Lava

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La ricerca

uscire

dal porto -il cuore in mano-

issare la vela della

passione

dietro lo stridulo

urlo dei gabbiani

tra le vene bluastre del cielo

foriero di tempesta

squarciare

nel giorno stretto

il grande ventre del mare

che geloso nasconde

negli abissi

i suoi figli

“La Ricerca di Felice Serino”: Un’Odissea Introspettiva. Recensione di Alessandria today



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Considerazioni sulle poesie di Felice Serino:

Spiove luce – Immersi nell’Assoluto – Infanzia

Spiove luce

spiove luce

di stelle gonfie di vento

col tuo peso

greve di limiti

ti pare quasi vita sognata

il vissuto già divenuto memoria

siamo frecce

scagliate nel futuro

o il tempo che ci è dato è maya

e si è immersi in un eterno presente?

Da In una goccia di luce, 2008

*

Immersi nell’Assoluto

come in una bolla d’aria o goccia

di luce

si ha vita

nel fiato del Sogno infinito

Da In una goccia di luce, 2008

*

Infanzia

la tenerezza dei giorni verdi

sparpagliati

nell’oro del sole appesi

alla luna

il papà dalle spalle

larghe come la volta

del cielo

quel sentirsi dèi – quasi

alati senza peso – e

non sapere la vita

Innocenza nostalgia del paradiso

* * *

ALATI SENZA PESO

Il nostro vivere non si concretizza, non si materializza malgrado le attese.

Siamo disciolti nell’aria come “frecce scagliate nel futuro”, ciò che conta si chiama anima. Il tendere. La concentrazione nel volo per non cambiare direzione, per non deragliare. Il tendere come dapprima le corde dell’arco. O come una bolla che il “fiato del Sogno infinito ” ti ha spinto.

Continuare il viaggio rilucendo dei colori del sole fino a dissolversi in esso.

“Sentirsi dei ” è la leggerezza della grazia, è comunque l’abbandono al Supremo, come bambini che ritornano agli affetti e si lasciano guidare fiduciosi nell’ignoto che li attende.

Andrea Crostelli

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Note per Flavio

Si è detto che il poeta viva dentro un perpetuo stupore. (1) A maggior ragione possiamo affermarlo parlando di Flavio Ballerini. Un poeta straordinario, personalissimo nel singolare modo di esporre i suoi versi, spezzati o dal ritmo musicale sincopato, espressi al tempo stesso con la forza di una continua novità (2); la novità e il candore propri del bambino che si agita dentro il suo essere diviso, che si lascia sorprendere dalla meraviglia della vita, dal suo miracolo.

Questo è il poeta Ballerini, un alchimista, “ballerino” della parola.

– – –

“come protezione si custodisce / la luce viva del sognare…”; “la vita se non è un miracolo muore” (pagg. 48 e 62 di “Emozioni maldestre”).

Si vedano ad esempio i pochi versi folgoranti ispirati dalla mia poesia L’ombra.

Felice Serino

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Insostanziale la Luce

insostanziale la Luce

nella carne si oscura

(energia fatta densa)

luce verde della memoria

scuote la morte:

il nocciolo del tempo

nel buio delle vene è universo

presto deperibile

– da La bellezza dell’essere, 2007 –

Felice Serino

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La luce ha bisogno di arrivare, come nel tunnel di una galleria ha sempre fame d’aria, di libertà, dispazi aperti, di correre fluentemente a gran velocità.

Non appartiene a nessuna sostanza (insostanziale) la luce: nella carne, nella materia, si oscura, perde di forza, di energia, si appesantisce… La sostanza del tempo / nel buio delle vene è universo /presto deperibile, ma la memoria salva dalla morte, riesce a rendere vivi avvenimenti passati (luci)di gioie irripetibili che sembravano perse. Si tratta di una memoria spirituale che non è cancellabile, bensì eterna.

La poesia di Felice Serino è di una brevità lessicale e concentrazione di significati unica. Se dovessimo catalogarla tra terra cielo e mare, diremmo senza dubbio che è una poesia di cielo.

Andrea Costelli

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ACCOSTAMENTI A “CREATURA” DI FELICE SERINO

(riflessioni, riferimenti personali ed altro)

CREATURA

mi godo la luce

come farfalla

sul palmo della tua mano

Signore non posso

che offrirti il mio niente –

fragile creatura

ti devo una morte

Da Il sentire celeste, 2006

Quante morti, per non pensare a quella ultima, abbiamo reso a Dio?!… e, quindi, quante resurrezioni!

C’è un’intuizione strabiliante in questa poesia. Ovvero la figura della farfalla abbinata alla morte.

Qualche anno fa ho avuto il privilegio di seguire da vicino un ragazzino dodicenne malato di tumore (uno dei cancri più rari e tremendi). L’ultima volta che l’ ho potuto portare davanti casa, semi-seduto su una sdraio, ho assistito a questa scena. Aveva una piaga sul ginocchio sinistro e, mentre si stava meditando il rientro, un nuvolo di farfalle bianche (le cavolaie) andò a posarsi su di lui e a baciare quella ferita.

Era coperto di farfalle, stettero in quel posto sacro, su quell’altare umano per minuti che sembravano eterni, prima di allontanarsi come uno sciame d’api venuto dal nulla.Era il segno che stava per essere accolto, dopo la morte, da quella luce straripante che in quegli istanti particolari ci aveva invaso. I giorni seguenti videro Samuele (così si chiamava) in coma. Un pomeriggio pensai che era il caso di portargli la comunione e pregare un po’ insieme. In effetti si svegliò dal coma e pregò profondamente insieme a tutti i presenti (familiari e amici). Il mattino dopo sullo stradello che porta a casa sua trovai una cavolaia morta. Piombò dentro me il dolore della perdita assieme alla certezza consolante di avere un santo, ora presente, “solo” in maniera spirituale.

Le morti interiori a causa del male commesso sono l’offerta del nostro niente a Dio. Offerta per il rifacimento totale del nostro essere che cerca la vita nuova nella grazia.

La morte può essere intesa pure come liberazione dai pesi terreni, la zavorra che si stacca dal nostro corpo che acquista leggerezza e sale nel cielo pari a una farfalla e, delicatamente, va a cercare la mano che l’ ha generato e vi si posa [per sempre].

C’è un altro significato che mi preme venga messo in luce. Quello che sta a dire: la mano del Signore mi ha salvato ora gli devo la vita (o meglio, quella gliela dovevo anche prima, ora gli “devo una morte”.

Andrea Crostelli

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Commento a Il mondo le cose del mondo, di Felice Serino

a Padre Pio

il mondo le cose del mondo

ci devono scivolare addosso

come acqua – dicevi

mentre era un sorriso

interiore a illuminarti –

guaglio’:

la casa del Padre è in fondo al tuo cuore

ma è il cuore

un campo di battaglia: a ogni giorno basta

la sua pena –

Da Il sentire celeste, 2006

*

Padre Pio parlava con semplicità di cose spirituali, ma c’è da lavorare, da togliere squame per andare all’essenzialità, per trovare sotto la carne tenera del cuore.

Ed il cuore è un campo di battaglia che gioca suo malgrado con le nostre falsità (falsifica il male per poi trovargli posto la mente/volontà distorta).

A ogni giorno basterebbe la sua pena e credo sarebbe perfetta letizia, ma si aggiunge un fardello troppo pesante sopra al cuore (il nostro orgoglio-egoismo) che soffoca i suoi veri battiti con un riverbero non più chiaro. La difficoltà del Dottore è quella di non poterti dire come stai, avendo tu interrotto il sistema di comunicazione via cuore che arriva come un segnale telegrafico non decifrabile. Bisogna cogliere allora il “suono allarmante” che indica il pericolo, la strada senza sbocco. Bisogna cogliere il lamento e risalire all’incrocio in cui abbiamo preso la via sbagliata.

Il cuore, in realtà, lo dobbiamo sentire da noi stessi – l’eco scandito dal suo battito, il pulsare dolce, soave, leggiadro che è lo stato di grazia al quale dobbiamo tendere.Il sorriso che esce dal cuore.

Andrea Crostelli

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Nel segreto del cuore

tenere in serbo scomparti

colore del vento che oblìa

memorie: rossi

come il sangue della passione

verdi come le prime primavere

azzurri come il manto di madonne

custodirvi gocce di poesia

cavalli di nuvole ed arco

baleni –

le coordinate dei sogni – e

l’insaziato stupirsi della vita

da respirare su mari aperti

– che tenga lontano la morte

Felice Serino

* * *

Nota a cura di Andrea Crostelli

luglio 2008

“Nel segreto del cuore” enumera ogni attaccamento dell’anima alle cose che ritiene essenziali.

L’impronta che ci caratterizza che vorremmo avere sempre davanti agli occhi per non perdere gli stimoli, gli entusiasmi.

Chi siamo e da dove veniamo… domande alle quali c’è bisogno di avere sempre una risposta pronta per non smarrirsi.

La morte, infatti, è la motivazione che viene a mancare, è l’assenza fatta di vuoto (non l’assenza dello “stupirsi” che è contemplazione, estasi, massima presenza).

Il “respiro su mari aperti” è laddove riusciamo ad essere liberi. Ad essere spettatori, a volte, di noi stessi. In quei frangenti possiamo meravigliarci della nostra persona come se venissimo a conoscerla improvvisamente, come il bambino che fa esperimenti e si compiace delle sue capacità e allora parla ad alta voce, parla a se stesso.

Raccontarsi con la poesia, progredire nel presente dello spirito che muove le cose, le inventa, le materializza, le valorizza, le sublima.

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CIELO INDACO

confondersi del sangue con l’indaco

cielo della memoria dove l’altrodi-

me preesiste – sogno

infinito di un atto d’amore

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Commento critico di Luca Rossi

Ottobre 1999

E’ l’attesa l’elemento fondamentale che si evidenzia in questo scritto.

Un’attesa-sogno che va a rivelarsi in ciò che già comunque in un certo modo sussiste: “. . .di me preesistente”.

Si chiude con la poesia l’inizio della vita, quell’atto d’amore che ci ha generati per essere attesi là dove già era collocato il nostro posto.

E non c’è dubbio sulla nostra nascita perché la memoria è un cielo color indaco che aspetta solo il confondersi del nostro sangue con esso, perché tutto si possa realizzare come predestinato, come preesistente.

E oltre l’attesa, anche il desiderio.

E’ un sogno potere credere che un giorno qualcuno verrà, farà parte di questo cielo dove memoria è uguale a realtà vissuta ma allo stesso tempo che deve ancora venire (l’altro di me ed io futuro).

Quattro versi per descrivere un’attesa così lunga.

Quattro versi per descrivere un desiderio che sembra non avere mai fine. Quattro semplici versi per ricordarci che non più lunga deve essere l’intensità che si prova riflettendo su di essi.

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I FUOCHI DELLA LUNA

(a cura di Luca Rossi)

coi fuochi della luna bivaccanti nel sangue

baluginare d’albe e notti che s’inseguono

dentro il mio perduto nome

per le ancestrali stanze un aleggiare di

creatura celeste che a lato mi vive

nella luce pugnalata

[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell’Autore]

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Dire se i fuochi della luna siano cosa reale o meno, non possiamo affermarlo con certezza.

Ma se per un momento, come fa il poeta, cerchiamo rifugio nella notte, allora potremmo vedere anche noi questi fuochi prima di oltrepassare la sottile linea che ci divide dal razionale, per inseguire un delirio che ci faccia sentire diversi da ciò che eravamo, fino al mezzogiorno di un incubo che prende il nome dalla vita di tutti i giorni dalla quale fuggire per un istante.

Ordinaria follia di un giorno che si vorrebbe esorcizzare, per superare il confine in cui la mente si libera da opprimenti istanze, dove fiumi di sangue scorrono davanti ai nostri occhi per avere accoltellato la luce tra un inseguirsi rapido di albe e di notti (come dice il poeta) in cui vivere o lasciarsi morire.

Già, perché non c’è modo di liberarsi del giorno che uguale ritorna ogni volta per vederci protagonisti di un tempo che ci tiene prigionieri.

Notte senza maschere quella in cui viviamo per scendere dal palcoscenico e restituire i soldi del biglietto allo spettatore seduto, ora che le parti si invertono, adesso che la vita ha cambiato il suo gioco.

Vaghiamo da una stanza all’altra aprendo porte chiuse alla luce e spalanchiamo finestre che danno ancora sulla notte dell’Io, dove il calcolo dei giorni scaduti è di gran lunga superiore a quello dei traguardi che si sarebbero voluti raggiungere.

Una figura mi è sempre accanto. Conosce il mio nome: ultimo tentativo tra coscienza e oblio di recuperare ciò che restava del mio corpo ucciso, lasciato nel sangue tra gli ultimi fuochi di una luna ancora malata.

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Canto per Nkosi

(In memoriam)

– A Nkosi Johnson, morto a 12 anni, il I° giugno 2001, a Johannesburg. Nato sieropositivo, fu scelto come testimonial contro il morbo dell’AIDS.-

colei che ti diede vita

la sai madre di cielo

bambino che hai corteggiato la morte –

tu messo in un angolo come vergogna

(lo sguardo orfano rapito

in vastità di cieli) presto non più

che mucchietto d’ossa – Nkosi

sei la nostra Coscienza:

e violentaci dunque nel profondo – tu

con la purezza di un breve mattino

mentre questa morte – vedi –

già s’ingemma di sole

Felice Serino

Da Fuoco dipinto, 2002 –

Commento di Luca Rossi

Pensare che quella di Felice Serino sia un’opera che mira solamente all’esaltazione isolata e semplicistica di un sentimento è cosa da poco; il poeta infatti cerca di attrarre il lettore verso il nucleo del dramma e della sua autenticità, mettendo in risalto la sofferenza che deriva da una presa di coscienza non tanto del vuoto lasciato da chi ora non c’è più, ma di chi ha fatto da spettatore a quanto andava accadendo.

Nella poesia il vero morto non è Nkosi, ma colui che rimane indifferente davanti alla denuncia di chi scrive, nel proprio “non-voler-fare” perché ciò possa “non-accadere”. A quali persone si rivolga in particolare il poeta non è dato saperlo. Forse ai potenti della terra che manipolano i commerci, in unione con le grosse multinazionali, come quelle farmaceutiche, per evitare morti precoci, o forse più semplicemente, a tutti noi (lo dice lui stesso: “Nkosi, sei la nostra Coscienza…“).

E’ la coscienza di chi non ha mai visitato, almeno una volta nella sua vita, le piazze delle grandi città, nelle quali ogni anno vengono distese al suolo le coperte con incisi i nomi dei figli, degli amici, dei compagni e delle compagne morti a causa dell’AIDS. E’ la coscienza di chi non ha mai stretto tra le mani, nelle stesse piazze, una candela accesa per ricordare gli uomini e le donne scomparse mentre viene letto il loro nome; persone magari sconosciute, verso la cui morte però non ci si può dimostrare non solidali. E’ la coscienza di quelli che non hanno mai voluto possedere un simbolo (come il fiocco di stoffa rossa a forma di “A”) il cui significato testimonia quella solidarietà umana verso coloro che saranno o sono già stati falciati dalla malattia. E’ anche la coscienza di colui che pensa di ritenersi immune per sempre da essa, o di chi addita le ragioni di quest’inferno terreno riconoscendone nella devianza una delle cause.

La morte di Nkosi per il poeta resta quindi un pretesto per indicare i veri morti, perché chi vive la malattia è colui che riscopre nella sua predestinazione a scomparire il senso vero ed estremo del vivere.

Così il poeta confonde il tutto facendoci notare quella “purezza di un breve mattino” al quale dobbiamo volgere lo sguardo per ritrovare l’innocenza e la verità perdute o dimenticate: quelle certe di Nkosi che non sono venute mai meno, ma anche, come nel primo caso, le nostre. Lui (Nkosi) ci fa da guida.

Apposta il poeta confonde, perché desidera lasciarci scoprire se continuare ad essere dei morti tra coloro che continuano a vivere o persone vive che prendono coscienza di quella morte che ci renderà tutti uguali.

E’ un monito duro ma schietto, che non bada a mediazioni di sorta, perché deve risvegliare la voglia di comprendere il dolore ed il perdono verso chi sta all’origine di tale dramma, come in questo caso lo furono i genitori che, da datori di vita, hanno implicitamente segnato la condanna del proprio figlio.

Anche noi così forse riusciremo un giorno a vedere, se saremo in grado di farlo, quel sole che, nei versi con i quali si chiude l’opera, risplende sulle tenebre della morte che presto o tardi ci raggiungerà, rivolgendo i nostri occhi alla resurrezione di Johnson: l’unico vero sole che resterà anche quando l’astro che ci illumina estinguerà per sempre la sua luce.

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ANGELI CADUTI

fuori dal cielo

bevvero l’acqua del Lete

ora non sanno più chi sono

presi nella ruota del tempo

mendicano avanzi di luce – curano

le ali spezzate

per risalire nell’azzurro

Da La difficile luce, 2005

Questa volta Serino ha voluto pericolosamente avventurarsi in un campo dove la tematica è riservata a chi ha fatto della vita tutta un campo d’azione nel mondo del Mistero, di quel mistero dove regnano angeli[1] e demoni, dèi e anti-Cristo, portatori di pace e dittatori della guerra, che sia poi guerra fatta di armi o di lotte interiori, dove il nemico siamo “noi-stessi contro noi-stessi” poco importa.

In questa moltitudine di figure indefinite, egli identifica la figura di un angelo che di soprannaturale, nel proprio profondo, ha ben poco, ma si definisce come un’immagine più di umanizzata, dove è il peccato a renderlo prigioniero del mondo.

Se lo diverrà (cioè essere slegato dalla terra) lo sarà solo poi, dopo che avrà superato la soglia del reale, in cui si allineano istanze nascoste, sogni criptati, dinamiche ancestrali di eventi remoti; la linea che demarca la purezza dal peccato, la tentazione … dal sacrum).

Angeli che prima erano ragazzi, esseri innocenti (perché mai la giovinezza dovrebbe essere immune dal peccato?) che ora cercano di riscattarsi dai propri errori, di lavarsi le proprie ali per potere risalire verso l’alto, verso l’Assoluto. Ma le ali intrise rendono difficile il volo verso un cielo sempre più alto. Resta comunque la speranza che il cielo tocchi la terra per rendere più breve la risalita e così disperdersi nell’Infinito.

Il paradiso perduto sta al di là del Lete[2], ci dice il poeta, fuori dal cielo, al di là del quale ognuno perde la propria identità: non è più massa, non è più omologazione, non è più l’Io specifico definito.

Definitivamente persi e pronti a bere un’acqua che faccia dimenticare chi fossero stati o, a giudizio del lettore, seguire la via dantesca.

Poveri divenuti tali a causa di una Grazia perduta che nello scorrere dell’eternità, dove stanno gli immortali e coloro che ancora sono nella prova, vanno alla ricerca della luce, della visione di Colui che è sempre pronto a tornare sui suoi passi perché nessuno sia un nuovo Lucifero, ma la manifestazione di quanto grande possa essere il perdono.

Curano le ali spezzate, dice l’autore, come a volere testimoniare che dopo l’errore c’è la presa di coscienza di ciò che di negativo si è compiuto.

E’ tempo ora di riparare al danno, è momento di stasi, momento in cui non si può fare altro che starsene fermi dove ci si trova a mendicare avanzi di luce.

Che sia dato loro (non potevamo essere forse noi quegli angeli?) un nuovo tempo è cosa certa: all’interno di questi cureranno le ferite delle loro ali pensando al passato e utilizzando la ragione come medicina che risana.

Ma ragione e tempo non basteranno per guarire, se l’Amore di Dio non si riverserà su tutto e tutti.

Serino, nella sua solo apparente distanza da una poesia in cui il cristianesimo non si riflette in una civiltà moderna, dove egli ha costruito la sua poetica fin dagli anni delle grandi lotte per i diritti dei lavoratori nelle fabbriche, nasconde invece, attraverso i personaggi da lui descritti, un forte e saldo legame nei confronti dell’Assoluto. In talune opere sembra quasi essere una necessità, per risalire quell’azzurro che rimane pur sempre, nel pensiero collettivo, il colore della purezza e dell’innocenza.

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[1] Vedi E. Dickinson nella sezione poetica dedicata agli angeli. Mi permetto di riportare qui di seguito una delle più belle poesie, a mio giudizio, della Dickinson sul tema, la quale dice:”Sola non posso stare – / Perché mi vengono a far visita – / Ospiti al di là della memoria – / Ospiti che ignorano la chiave di casa. // Non usano abiti o nomi – / calendari – o climi – / ma abitano case comuni / come fanno gli gnomi – // A volte corrieri interiori / ne annunciano l’arrivo – / Ma mai la partenza – / perché non se ne vanno mai più.”

[2] Nella mitologia classica, fiume dell’Ade (il mondo dei trapassati); i morti dovevano berne l’acqua che faceva loro dimenticare la vita terrena. Dante ne fece un fiume del paradiso terrestre; le anime ne bevono le acque prima di salire in cielo per dimenticare le colpe commesse.

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SULLE RIVE DEL MISTERO

ciò che non appare mistero

neppure è bello *

fragile come i sogni

spaesa il cuore

di là del mare

tutta

una vita –

… finché lo spaesare

non si adagia

sulle rive del mistero

* frase presa in prestito dal mio amico

pittore-poeta-critico Andrea Costelli

Da Dentro una sospensione, 2007

*

… “Tutta una vita”, e sì, l’anima è in cammino su acque tormentose-calme-fredde-calde, acque d’ogni specie, e non può smettere di camminare, di evolversi, di maturare e crescere per tutto l’arco del tempo donatogli.

“Lo spaesare” per paesi di mare, per mondi interiori è la sua natura. E quello che è mistero diventa scoperta, sicurezza, quando l’onda finale accompagnerà il nostro corpo sulla battigia. Sicurezza perché saranno le braccia di nostro PADRE-MADRE a raccoglierci e risollevarci per sempre.

Scoperta e sicurezza perché il tuffo completo nell’Amore ruberà al mistero i suoi punti sconosciuti, e quell’ansia continua mista di paura per l’ignoto e tensione per il desiderio evaderà dal nostro essere come lo sporco dopo una bella doccia.

Andrea Crostelli

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Breve commento sulla poesia di Felice Serino dedicata a Sandro Penna

La vita… è ricordarsi di un risveglio

“La vita… è ricordarsi di un risveglio”

[leggendo Sandro Penna: una cheta follia, di Elio Pecora]

sotto un mutevole cielo chiuso

nel tuo grido di diverso

cresce la luce a cui vòlti

le spalle: voglia di sparire

dentro un sogno o restare

nell’ora dolce dei vivi

– mosca impigliata nel miele

*

La difficoltà di accogliere la luce – quella non imprigionata dal sogno – la luce del tempo presente che mette in risalto il tuo aspetto di diverso. Sì, perché la luce fora la pelle, le ossa e giunge facilmente all’anima e illumina il tuo aspetto interiore di diverso.

C’è quasi una paura di mostrarsi e una paura di vedersi e non accogliersi.

Scrivo a te Sandro, te che amavi tanto la vita e ti sei “impigliato come mosca nel miele”, come uno che si butta e non sa frenare le sue passioni, come uno che trae dolcezza infinita anche dalle sue pene, dalla sensibilità che è dono e si riversa in poesia.

Andrea Crostelli

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Distacco

giungere dove ogni linea s’annulla

un brivido bianco… e sei altro

fiume che perde nel mare il suo nome *

* da un verso di Billy Collins

da In una goccia di luce, 2008

_ _ _

Le tue poesie seguono sempre una linea ascetica spirituale, sono una proiezione per inquadrare l’al di là. Potrebbero essere racchiuse quasi tutte in un unico libro.

Mi è piaciuto assai il verso: un brivido bianco… e sei altro.Il riferimento alla trasformazione che riceveremo sia nella carne che nello spirito alla fine dei giorni terreni è in risalto e ben trasposto.

Chiaramente ti raggiunge anche il pensiero che già da adesso la vita si trasforma per chi tende a giungere dove ogni linea s’annulla. Tra le braccia del Padre come il fiume tra il seno del mare.

Andrea Crostelli [stralcio da lettera privata]

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DOPPIO CELESTE

entrare nello specchio: esserne

l’altra faccia:

uscire dal sogno di te stesso

apparenza di carne tornata pneuma:

ri-unificarti col tuo doppio

celeste: il-già-esistente di là

dal vetro: tua sostanza e pienezza

[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell’Autore]

*

Sono il modo del verbo, quello infinito, ed il significato dello stesso, cioè quello di “accedere a un luogo”, che vengono sottolineati fin dall’inizio della poesia, che già ci portano a considerare l’aspetto introspettivo che i versi diranno di seguito.

E si è subito sul luogo della scena, senza premesse, in medias res. Si è subito sul luogo del delitto (del proprio suicidio): in riva allo stagno, dove, tra breve,superato il primo verbo che apre la poesia, l’immagine di Narciso si specchierà chiara nell’acqua (“esserne l’altra faccia”).

Non si arriva neppure a mettere in dubbio l’impronta fortemente narcisistica dello scritto (“uscire dal sogno di te stesso”).

O forse, superato il primo verso, può essere che le parti non siano le stesse che la mitologia vorrebbe riproporre.

Può essere che l’oggetto (lo stagno, lo specchio, l’altra faccia) e la persona (Narciso e il sogno che lo rappresenta) si confondano, proprio come talvolta avviene nei sogni, dove ogni cosa può occupare posti e ruoli diversi, differenti:

Quando Narciso morì, lo stagno del suo piacere si mutò da una tazza di dolci acque in una tazza di lacrime salse e le Oreadi vennero piangendo attraverso i boschi per cantare allo stagno e confortarlo. E quando videro che lo stagno s’era mutato da una tazza di dolci acque in una tazza di lacrime salse, sciolsero le verdi trecce dei loro capelli e gridarono verso lo stagno dicendo: “Noi non ci meravigliamo che tu pianga tanto Narciso, perché era davvero bellissimo”.

“Ma era bello Narciso?”, disse lo stagno.”Chi potrebbe saperlo meglio di te?”, risposero le Oreadi.” Ci passava sempre davanti, ma cercava te e si stendeva sulle tue rive e guardava dentro di te e nello specchio delle tue acque specchiava la propria bellezza”.

Allora lo stagno rispose: “Ma io amavo Narciso perché, mentre egli se ne stava disteso sulle mie rive e mi guardava, nello specchio dei suoi occhi io vedevo sempre specchiata la mia bellezza”.

(Oscar Wilde – Il discepolo, 1893).

Lo stagno e Narciso erano la stessa persona, la stessa cosa: ognuno di essi non vedeva l’altro.

In “Doppio celeste” si esce invece dal sogno per accorgersi che esiste una realtà, che è quella che lo specchio riflette, che poi è la stessa che, vista specularmente, completa la parte spirituale mancante nell’uomo, finché questa non viene raggiunta.

Solo passando attraverso lo specchio ci si addentra nell’anima e si vedono con distacco le cose che stanno oltre il sembiante, quando anima e corpo, corpo e anima si trovano già in uno stato etereo.

Nella lettura della poesia, prima di entrare nello specchio, si percepisce quanto l’autore voglia trasmettere che questa ricerca non sia stata del tutto casuale, ma che anzitempo vi era stato un percorso alla ricerca, appunto, del complementare; che vi era stata tutta una vita di riflessione a riguardo.

Ce lo sottolinea il modo in cui la poesia inizia, con quell’ “entrare” scritto con la lettera minuscola, abitudine certa di chi scrive nell’aprire i suoi lavori, ma non in questo caso, come si potrebbe interpretare; un modo d’iniziare portato quasi a testimonianza che prima c’era dell’altro.

Ne seguono poi, nella costruzione delle strofe, un utilizzo dell’interpunzione rappresentata dai due punti ben evidente e ripetuta. Si tratta di spiegare ciò che il discorso iniziato, continuato, ora vuole dire.

Scelta oculata, originale, non casuale della punteggiatura unita al senso della poesia.

Dopo essere entrati nello specchio, al di là della sua superficie, al di là della superficie dello stagno, c’è la distanza, la profondità dello stesso, che aumenta quanto più eravamo distanti da quel “doppio celeste” già presente.

Narciso conoscerà la sua essenza solo quando lo specchio d’acqua lo attirerà a sé tramite il gioco perverso della propria immagine.

Noi lo faremo quando l’immagine dello specchio rifletterà un azzurro che si aprirà al di sopra dell’unico colore, quello nero, della morte.

Ma che la morte sia il vero senso con cui si chiude questa poesia è in dubbio.

Ciò che lascia questo dubbio è l’utilizzo dei verbi usati all’infinito (entrare – essere – uscire dal sogno): all’infinito cerchiamo la nostra complementarietà all’interno della vita e moriamo così tutte le volte che portiamo a termine questa nostra ricerca, e rinasciamo subito dopo.

Sembra che in questa poesia non ci sia vita, non ci sia morte, perché la ricerca dell’anima supera i confini del tempo e della storia.

Commento di Luca Rossi

6 dicembre 1998

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LA FORZA GENTILE

Dio è paziente: ha sogni

per l’uomo infiniti – frutti

immarcescibili

(centro del cosmo: non è

il suo un giocare a dadi)

egli visita le nostre

piaghe – manda angeli

a spazzare gli angoli del cuore

(suo disegno è

la Bellezza)

la sua forza è gentile

Felice Serino

Da La difficile luce, 2005

*

COMMENTO ALLA POESIA “LA FORZA GENTILE”

Di Luca Rossi. Dicembre 2002

Un’estrema tranquillità nel descrivere ciò che Dio rappresenta per noi percorre questa poesia dal suo inizio fino al termine. Ogni aggettivo che viene attribuito a Colui che del tempo detiene le sorti ci insegna che la calma e la pace dei sentimenti appartengono solo a chi è eterno e non all’uomo frenetico dell’era moderna.

Nella sua “continuità” egli progetta per noi “oltre la morte” (il sogno infinito rivolto all’uomo senza tirare a sorte il destino di ognuno, ma predefinendolo per renderlo sicuro, certo, oltretempo, oltrememoria che si dilegua).

Un Dio che si fa uomo nella sofferenza essendoci accanto quando le piaghe del fisico e dell’anima si aprono, squarciano la notte che sta dentro di noi,e solitudine ed abbandono ci circondano; quando l’ultimo amico segna la distanza da dietro una porta che chiude i suoi battenti.

Un Dio che non si mostra, ma che si rivela attraverso messaggeri per ripulire il cuore da ciò che non è eterno (l’incomprensione del mistero che fa da linea di divisione fra il sentimento umano e quello dell’Assoluto). Solamente un cuore sgombro dal filo rigoroso della logica e del dubbio può prepararsi ad accettare il perché delle cose; un perché che il poeta vede come soluzione finale facendo riferimento alla bellezza, disegno infinito dell’amore di chi sa fare della forza un’arma gentile per combattere la paura esistenziale che ci appartiene.

Poesia a mio giudizio di elevato livello spirituale e morale, nonché compositivo; lezione certo di stile e di richiamo per tutti noi ancora una volta a volgere lo sguardo verso chi ci chiede di essere riconosciuto come architetto ristrutturatore di anime.

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Frasi sulla poesia “IL PECULIO DI LUCE” (a Simone Weil) di Felice Serino

IL PECULIO DI LUCE

(a Simone Weil)

1.

(occhi come laghi

a eco fremiti di vita)

ha mani che sfondano muri

di solitudine – amore

2.

germoglia grido di luce

da nuovo dolore

Felice Serino

Da Il sentire celeste, 2006

*

Tornano a te, come in un lago al centro della sua valle, gli echi della tua voce-dolore-di-tempo, di quando pronunciasti frasi o pensieri appena ieri, o tornano a te gli echi di chi, in un tempo più remoto, ti assomigliava nel suo “sentire”. Perché l’eco è un sentire che può arrivare dalle orecchie al cuore.

Queste sono le “mani che sfondano muri” (e anni), mani prolungate in gesti d’amore e alzate in inni di lode.

L’eco della “luce” sorge come un grido potente di vittoria che abbatte mura di Gerico (la preghiera “funziona” quando uno non dubita che otterrà quel che chiede, anzi sa già di averlo ottenuto prima che questo accada), che stronca le resistenze nemiche più volitive, che smaschera la “notte” con le sue abissali contrapposizioni del bene e con l’offerta lieta delle proprie pene.

E’ così che Felice Serino si specchia negli occhi di Simone Weil (intravede il suo sorriso come una mano tesa), è così che Felice Serino si specchia nella vita piena.

Andrea Crostelli

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LA VITA NELLE MANI DEL VENTO

palpebre d’aria

chiuse sulla disfatta del giorno

(depistate tracce

rotte smarrite

a insanguinare il vento:

ruotare del tempo

nella sua vuota occhiaia)

anse d’ombre

annegano il grido

dell’anima giocata a testa e croce

Felice Serino

Da Fuoco dipinto, 2002

*

Commento critico di Luca Rossi

Settembre 2000

Occorre tirare le somme e vedere la realtà per quella che è o per quella che è stata. La nostra anima, il nostro passato, non li possiamo cambiare.

Li abbiamo giocati al gioco del destino, apparso sempre così mutevole, come il vento che ora soffia in una direzione e subito dopo nella direzione opposta.

Un vento che corre lontano prima che il giorno finisce.

E ora che si fa sera si devono fare le proprie considerazioni, come palpebre che si chiudono alla disfatta del giorno.

Ma il giorno – la vita – è stato pieno di tante cose, di tanti avvenimenti, di un destino falsato, di una scelta che non si è trasformata in realtà (rotte smarrite, dice il poeta), che ha cambiato le sorti della

stessa e ha macchiato quel vento che porta oltre.

Restano le ombre, con le loro pieghe, con i loro risvolti che si accompagnano al grido di quella che è ora la realtà dell’anima che vuole tornare a essere se stessa, vita nelle mani del vento.

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NEL ROVESCIAMENTO

(a cura di Luca Rossi)

(non vedi al di là del tuo naso scientifico):

è come leggessi sull’acqua

lettere storte: poiché noi siamo

nel rovesciamento afferma

la weil – e negazione

ci appare la grazia

[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell’Autore]

*

Riscattare la propria condizione esistenziale è il fondamento di questa poesia.

Il nostro Io interiore e quello esteriore sono legati da un qualche cosa che li determina, che li unisce per essere insieme un tutt’uno, a costruire un significato.

Vediamo da un lato, mentre perdiamo visione dell’insieme dall’altro (non vedi al di là del tuo naso scientifico), perché i parametri di giudizio sono quelli di sempre, basati su una visione del cosmo troppo mediata dalla ragione e poco dai sentimenti; dalla rigida regola di catalogare il tutto per dare una risposta a ciò che avviene e poco dalla capacità di comprendere l’impossibilità di penetrare i progetti della natura che sfuggono a ogni capacità di previsione.

La realtà può essere quella che vediamo riflessa in uno specchio d’acqua, ma può anche essere quella che lo specchio d’acqua riflette quando la stessa viene mossa e confonde l’immagine.

Eppure è sempre la medesima realtà vista in due modi differenti.

Poiché noi siamo l’una e l’altra: lettere ordinate, ben composte, ma anche lettere storte che descrivono un racconto di vita diverso.

Leggiamo nell’acqua un volto, leggiamo un pezzo di cielo che la sovrasta, leggiamo un desiderio precluso (quello di Narciso che non seppe vedere il proprio rovesciamento) e ci appare distinto un progetto dove la luce colpisce, dove la luce rende tutto più chiaro.

La grazia fa da tramite per vedere le due realtà in cui vivere; tempo speso perché la vita resti quella di sempre scombinata nei suoi opposti.

Dicembre 2000

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RIFLESSIONE PERSONALE DI GIANCARLA RAFFAELI

SULLA POESIA “MONDO” DI FELICE SERINO

Mondo

(contro le guerre)

freddo incanaglito la tua iniquità

è specchio che deforma

la bellezza del creato

tu esperienza della ferita

col poco amore che ispiri

ci lascerai incastrati

tra questa e un’altra dimensione?

mondo: piaga e grido

dell’uomo incompiuto

vòlto al cielo

io ti detesto – mondo

*

Mi soffermo sui versi più “inediti”, su questo sguardo improvvisamente catturato, quasi sorpreso, dall’iniquità del mondo.

Pesa sul cuore del Poeta l’angoscia che l’uomo possa rimanere “incastrato” tra le due dimensioni (quella della innocenza e della colpa?) senza il riscatto della scelta. Nessuna lacerazione ha risparmiato il corpo del mondo, eppure il dolore non ne riscatta la colpa e il grido (senz’anima) non raggiunge il cielo.

Gian Carla Raffaeli

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COMMENTO ALLA POESIA DI FELICE SERINO

ANGELO DELLA POESIA

librarsi della tua ala azzurra nel mio sangue

io-non-io: in me ti trascendi e sei

d’ineffabili alfabeti s’imbeve il nascere delle mie aurore

Da La difficile luce, 2005

*

E’ una poesia ermetica sublime, da analizzare e scoprire; io la interpreto così:

librarsi della tua ala azzurra nel mio sangue

è il momento in cui l’ispirazione, come musica celestiale, fa sentire al poeta la sua voce e gli rimescola il sangue

io-non-io:

il poeta non è più se stesso, entra in trance trascinato dall’irresistibile richiamo dell’ispirazione

in me ti trascendi e sei

è il momento in cui l’ispirazione “si serve” del poeta ed elevandosi al di sopra di esso, diventa presenza reale, è, esiste; il poeta diventa strumento della musa

d’ineffabili alfabeti s’imbeve il nascere delle mie aurore

il momento in cui avviene il “parto” delle poesie (il nascere delle mie aurore) è una sensazione di liberazione tanto profonda e sublime, così ricca di vita e di gioia da non potersi descrivere a parole

(d’ineffabili alfabeti s’imbeve).

Antonino Magrì

.

FLASH SCATURITO DALLA LETTURA DEI VERSI DI POESIA

DI FELICE SERINO

POESIA

ti avviti

con lucido delirio

nella folla

di parole

(tra sprazzi di

di coscienza e sogno

insegui

gibigiane echi:

ecco sfrondarti

forbici di luce:

la pagina è tuo lenzuolo

quando in amplessi

cerebrali

muori rinasci)

la tua anima di carta

ricrea armonie

in seno a spirali

più alte

***

Le parole che si ammassano e si spingono tra la folla per mettersi in luce e voler rispondere a tutti.

Le parole che s’incasellano velocemente sul foglio come automatismi di una stampante a un tuo semplice cenno d’avvio.

O le parole che viaggiano lente su di un carretto guidato da un mulo che conduce te, padrone che dormi, a completare il percorso del tuo sogno fisico/verbale.

Tranquillo, c’è sempre chi conosce la strada!

Le parole infine ridotte all’essenziale e in quell’essenziale moltiplicate per 144.000 modi di interpretarle che le rendono costantemente vive.

Parole parole parole, magia della lingua che comunica con il suo bacio-poesia.

L’eccitazione spirituale che si fa carne.

E’ il “delirio” “in seno a spirali più alte”.

Una molla nel cervello che si genuflette al mistero per poi sobbalzare gioiosa e fuoriuscire da questo come canto di lode che si esterna.

Andrea Crostelli

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AION

1.

chi ti ha fatto sapere ch’eri nudo?

l’entrare della morte nel morso

della mela

(si erano creduti il Sole

scordando di essere riflessi)

1.a

il serpente mi diede dell’albero e…

eva la porta

di sangue

per dove passa la storia

2.

nell’incrocio dei legni

la conciliazione degli

opposti (lo scheletro del mondo)

2.a

è il Figlio che pende

dai chiodi

la risposta a giobbe

3.

ancora l’assordare dei martelli ancora

un giuda che fa il cappio abbraccia un albero di morte

-sulle labbra il fuoco del bacio

Felice Serino

Da La difficile luce, 2005

*

Critica di Luca Rossi. Luglio 2002

L’ identità, la conoscenza della morte, il riscatto tramite il dolore altrui, la scoperta di Dio, il ricordo: ecco gli elementi principali, i titoli attraverso i quali si snoda il componimento di Serino.

La presa di coscienza del peccato apre la prima strofa, dove la mela (simbolo del divieto divino, del non andare oltre, del sapere che la libertà offerta avrebbe potuto avere un limite per la salvezza stessa dell’essere) ora è stata consumata e ha riempito l’uomo di ogni tempo compreso quello del terzo millennio, della stessa onnipotenza di Adamo.

E’ forse cambiata la storia? No; Qohelet, il sapientissimo, ci dice che non c’è nulla di diverso sotto il sole che ancora oggi non accada.

L’uomo che è, già è stato.

L’umiltà è l’arma attraverso la quale riprendere coscienza del ricordo del Padre, della memoria della morte e dell’immagine di quella polvere che alla fine, se racchiusa nelle mani di Dio, per essere trasfigurata, riplasmata, tornerà ad essere semplicemente terra che alimenterà nuovamente le radici di quell’albero sul quale è maturata la mela, se non ci si lascerà trapassare da un Sole da cui piovono raggi di luce, che sono verità di un universo che non si espande secondo le leggi della fisica, ma dell’amore; di quell’amore che viene tentato dal serpente che scese dall’albero per allontanare da noi l’ idea della fine, la lontananza della morte attraverso l’inganno di una bellezza che ognuno vorrebbe possedere a qualsiasi costo.

Eva apre la via ad una libertà secondo la quale il valore dell’estetica e della provocazione nasconde il suo doppio senso, la perversione di volere fagocitare ogni cosa perché ogni cosa debba essere nostra, debba necessariamente appartenerci, coinvolgendoci in un delirio che oscura la vista per distogliere lo sguardo da ciò che risiede oltre le nebbie.

Da qui passa la storia che il poeta descrive, passa l’azione dell’uomo che cade prigioniero per non avere saputo riconoscere all’angolo delle vie quegli angeli perduti e mai redenti, che offrono immagini fantasmagoriche di un finto benessere e di una strada che non sembra avere alcuna via d’uscita.

Ma il poeta, dopo avere dichiarato con forza che l’idea della morte eterna è propria di chi sa di non svegliarsi dalla notte che ci investe, suggerisce attraverso le ultime righe un percorso che potrebbe essere il più giusto: quello della conciliazione con Dio, del sapere del dolore di chi si fece trafiggere perché l’uomo capisse che da solo non si sarebbe mai potuto salvare e del riconoscersi ancora una volta in fuga da quell’Eden che ogni epoca ripropone, perché la benevolenza di Dio è sempre presente, sempre attuale, sempre nuova.

Un Eden che mette in evidenza le regioni sconfinate del bene e dell’amore da cui, chi è ancora in grado di ascoltare, dopo i fragori del giorno, sente il battere del martello sul chiodo che penetra la carne ed il legno.

Davanti a noi sta la morte di sempre.

Più in là una morte che detiene invece un senso più ampio: l’uomo che prende coscienza dell’Eterno.

E la poesia di Serino vuole essere un monito, forse l’ultimo, di un uomo che ancora ascolta e ci induce a riflettere su quanto la storia ha avuto da dirci.

Visione

imbevuto del sangue della passione un cielo

di angeli folgora l’attesa vertiginosa

nella cattedrale del Sole dove ruotano

i mondi

è palpito bianco la colomba sacrificale

*

Lirica intensa, pregna di suggestione e pathos. In pochissimi versi ben ponderati ed equilibrati hai saputo farci rivivere con vigore e sapienza poetica l’attimo magico e sacrale dell’eucarestia.

Complimenti vivissimi e un grande benvenuto tra noi!

Antonino Magrì

***

Quel sorriso

a R.

oltre lei forse fra le stelle

dura quel sorriso che nell’aria

ti appare ora sospeso come fumo

lucido incanto il tuo

sperdutamente altrove –

l’ha disperso il vento

Pur nella sua semplicità, questa lirica è dolcissima e struggente. In essa si racchiude la consapevolezza dell’ oltre, la serenità della fede e la malinconia del distacco terreno. La chiusa è veramente poetica; ma devo ammettere che ogni singolo verso racchiude piena densità di immagini e sapiente musicalità. Tu sai dimostrare che nella poesia non è la lunghezza che conta, ma, anzi, è la capacità di condensare un pensiero in pochi artistici versi.

Complimenti, sei un poeta vero!

Antonino Magrì

http://www.artevizzari.italianoforum.it/

***

E’ in te nell’aria

è in te nell’aria

sottile la senti la mancanza

di vita piena

come applaudire con una mano sola

ma è regale regalo

questo rapido frullo

d’ali

atto d’amore

non affidarlo nelle mani del vento

sii àncora

gettata nel cielo

*

Felice, sono veramente incantato, la tua poesia è magica e, tecnicamente, risponde a tutti i canoni della poesia libera, dalla metafora all’allitterazione, dall’onomatopea a quello che oggi è il più raro: la musicalità del verso. Ha una forza lirica straordinaria che esplode dirompente nella splendida chiusa:

sii àncora

gettata nel cielo

Antonino Magrì

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Commento alla poesia “Maya”, di Felice Serino

Luca Rossi.

Marzo 2007-03-10

Mi riferisco a Maya. Stupende l’apertura e la chiusura che tendono a concentrare il significato dei versi in un indefinibile “status” dell’uomo. La figura geometrica, poliedrica, prismatica, antica, definisce il mondo riflesso che solamente l’asceta è in grado di distinguere. Siamo della terra, ma solo ora: non lo eravamo prima della nostra nascita, non lo saremo più dopo la nostra morte. Ma abbiamo vissuto l’azzurro, nel suo senso simbolico e “nell’azzurro”, nel suo senso materiale, come luogo di sogni e realtà. Di decadente esiste il corpo, effimero, ma non lo spirito racchiuso in esso: sottile fiamma.

Interessante aggettivo che apre a una visione pluridimensionale di significati.

Ognuno cercherà al proprio interno quello che più gli si addice quando dovrà ricercare il contrario di “sottile”.

Forse pochi lo troveranno, ma non sui dizionari.

Lo sapranno i Santi, lo diranno i Martiri. Lo diranno le vittime della guerra, della violenza senza senso, la gente che muore di fame, coloro che avevano una possibilità ed è stata loro negata.

Il poeta si fa interprete dell’asceta. Diviene per un momento esso stesso spirito comune di questi, per poi distaccarsene e ridiventare uomo comune. Per un momento entrambi racchiusi in quel prisma dove la luce si espande in ogni direzione fino a dove l’occhio riesce a distinguere orizzonti di esteriorità cosmica per poi penetrare e scaldarsi a lato di quell’anima che arde, dignità esistenziale dell’uomo vero.

*

Maya

il di qua dice l’asceta

non è che proiezione

nel prisma azzurro del giorno

sentenzia

che perfezione

è la carne che si fa spirito

non si terrà conto

del corpo che si nutre

che è già della terra

si è dunque

del cielo o anelito

d’infinito ancor prima

del primo respiro?

– certa è la fiamma che dentro

ci arde – sottile –

*

Considerazioni sulla poesia “Maya”

“Perfezione è la carne che si fa spirito” è qualcosa che ‘parla’ (e bene) solo in poesia, in quanto la carne è carne e lo spirito è spirito, e nessuno dei due può diventare l’altro. Possibile invece vivere più che si può di cose spirituali e “abbandonare” (a tratti) la carne. Cioè, essere così leggeri (elevati) di (in) spirito che l’anima fuoriesce dal corpo lasciandolo come un fantoccio fino al suo ritorno in esso, ovvero quando si è esaurita quell’energia soprannaturale.Il centro della poesia, che è la centralità in cui essa ruota, secondo me detta i dettami della riflessione (non a caso si trova in quel posto): “non si terrà conto / del corpo che si nutre / che è già della terra”. Cibarsi di ciò che offre la natura, tingersi della terra, della sabbia, dell’erba rotolandoci sopra per poi un giorno lasciarci le nostre spoglie [non come il cestino del computer nel quale puoi ripescare le cose vecchie, ma come un programma nel quale non puoi più accedere (solo Dio può farlo)]. Il corpo è la scatola, è la custodia temporanea del regalo che c’è dentro: il nostro spirito che a sua volta si rifà regalo al mittente.

Quella “fiamma che dentro ci arde sottile” e sale verso l’Alto, l’Altissimo.

Andrea Crostelli

.

Nota su -Paesi di mare-

Le ali, i pesci, il seno azzurro del mare, il mare come una madre: ecco la profondità trasognata che scaturisce dal mondo immaginativo di Crostelli, il quale ci invia messaggi dalla sua “dimora”, il mare, appunto.

Un “visionario” ma con il cuore che sempre spazia tra terra e cielo, abitato da una intensità di colori e luce, e da una ricchezza di felici intuizioni: *

“Gabbiano dalle ali spiegate / il libro mio che vola (pag. 18);

“Ali d’uccello che s’intrecciano / nel cielo mio affollato di sogni” (pag. 32);

“Lasciala scrivere al vento la tua poesia” (pag. 40).

Andrea, come già lo dimostra, e con maestria, la sua bellissima opera Nei Mari di Melville, è un amante del mare, nato per lasciarsi affascinare e rapire con un animo di fanciullo dalle sue creature e dai suoi abissi. Il mare, che nelle sue profondità insondabili custodisce il mistero della vita.

* Andrea Costelli, Paesi di mare (fine del viaggio), 2008.

Felice Serino

.

NELLA VALIGIA (NOTE DI VIAGGIO)

(a cura di Luca Rossi)

(il chi-siamo-dove-andiamo:

dove la mente

s’inlabirinta)

l’io

vestito di nebbia

promesso alla morte –

(nella valigia pronta la perdita

originaria la vita a

metà)

risucchiato come da un tunnel…

attraversato

da flutti di luce

destinazione: il Sé

[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell’Autore]

.

E’ proprio un lungo viaggio quello che viene descritto nella poesia; un viaggio che dura tutta una vita.

Un viaggio la cui destinazione ci viene rivelata solamente al termine dei versi: ultima stazione di un percorso obbligato che chi scrive sembra avere intrapreso da tempo.

Un interrogativo espresso in forma indiretta apre quest’opera, chiedendoci chi siamo e il motivo del nostro andare.

Ma è difficile credere che possa essere la ragione a guidare questo percorso che si rivelerà esplorazione, perché in una sorta di labirinto si perdono la nostra mente e i nostri pensieri.

Metaforicamente chi scrive ci dice che è la mente stessa il mezzo sul quale “dovremo salire” per potere viaggiare, come un treno che dobbiamo prendere, e ci saliremo già vestiti con il nostro Io ricoperto da una nebbia che non ci permette di guardare oltre, perché oltre c’è solo la morte quale limite di tutto ciò che siamo e a cui ognuno di noi, fin dall’inizio, è stato promesso.

La nostra valigia è pronta delle cose che perderemo, tra cui la vita stessa, ma che verranno meno solamente a metà, perché il resto sarà tutto da venire, risucchiato in quel tunnel che ora andremo ad attraversare, pieno di una luce chiarificatrice, che segna l’altra metà della vita, quella che rimane appunto, e l’altra metà del viaggio.

Solo giungendo a destinazione scopriremo la verità che ci avvolge.

Mentre scenderemo da questa specie di treno e ci guarderemo intorno, vedremo che sul marciapiede della stazione ci sarà solo il tempo ad attenderci, mentre lasceremo la nostra valigia nel deposito bagagli piena delle cose che sono oramai passate e che qualcuno sicuramente un giorno aprirà: coloro che ancora attendono di iniziare questo lungo viaggio.

Destinazione: il Sé.

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TRA ONIRICI LAMPI

(a cura di Luca Rossi)

tra onirici lampi

ride la tua immagine d’aria

intagliata nell’ombra del cuore

[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell’Autore]

C’è un luogo che la poesia propone come rifugio quando la notte porta con sé, attraverso i sogni, le luci abbaglianti di una vita vissuta a cavallo tra il ricordo e l’attimo presente: è un luogo ideale il cuore quando diviene riparo per conservare un’immagine, per trattenere un volto… un desiderio.

L’aria di cui è fatta la materia del ricordo ride, quasi a burlarsi di ciò che crediamo realtà, e vi passa attraverso come per ossigenare gli anfratti che la malattia del vivere riserva a chi è dimentico del tempo e che i lampi illuminano partendo dalle regioni remote di quegli anni che non esistono più.

C’è una zona d’ombra creata dalla luce del lampo dove nulla è visibile a chi sta fuori dai confini del cuore.

Il cuore come una casa, dove solo parte della luce vi penetra, per lasciare delle zone in penombra in cui riposare i ricordi, lontani dal domandare continuo del giorno, che bussa con insistenza alle finestre per richiamarci ad una realtà che talvolta non vogliamo.

La luce dei ricordi è luce che non proviene da alcuna stella, ma da un sogno.

Un sogno che scaturisce da una notte che neppure il sole riesce a illuminare, quando la mente pensa a tutte quelle cose che ancora sarebbero state.

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NEL PERDURARE LA LUCE

(a cura di Luca Rossi)

le ore arroventate: erano

estati lunghe a morire

le corse pazze le ginocchia

sbucciate nel perdurare la luce:

ancora un mordere

la sanguigna polpa del giorno – ricordi? –

Poesia del ricordo, forse di una nostalgia che non è mai trascorsa e mai passerà; una luce simbolo di una memoria che ha lasciato un segno doloroso (le lesioni provocate ogni qual volta si cadeva) ma tangibile, reale, sperimentato talvolta nell’incertezza stessa del momento, anche nell’incoscienza di una corsa dal fine rischioso (come la vita del resto).

Tutto è luce (come potrebbe non esserlo la giovinezza che vede con gli occhi trasparenti del giorno verso l’estate che non cessa di esistere?

E quelle ore che sanno di calore estremo che scotta la pelle se non si riescono a dominare le proprie passioni?).

“Ricordi?”, dice il poeta all’amico che gli fu accanto a quel tempo: immagine riflessa in uno specchio della propria persona, del proprio essere, in un soliloquio dove anche i compagni di allora più non esistono, se non nel vago di una mente che cerca solo il ricordo.

Ma tutto è luce, grido di liberazione di presente che si fa passato per volervi rimanere.

E intorno il vuoto dell’esistenza, forte, penetrante, palpabile, di cui ci si accorge solo quando si vede la notte che sta per venire; il mistero delle cose che non abbiamo mai capito, dei momenti che non siamo riusciti a imprigionare, ma che ritroviamo ogni qual volta uno spiraglio generato da uno spettro di luce attraversa il tempo e fa breccia nel cuore, terra dove abbiamo sepolto per sempre i ricordi, sommato il presente al passato.

Marzo 2003

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UN DIO CIBERNETICO ?

(a cura di Luca Rossi)

vita asettica: grado

zero del divino Onniforme

(ma la notte del sangue

conserva memoria di volo)

vita sovrapposta alla sfera

celeste regno d’immagini

epifaniche / emozioni

elettroniche

eclissi dell’occhio-pensiero

[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell’Autore]

In un mondo che è immagine, in un mondo dove l’uomo si è innalzato sopra tutto e tutti, come giudice che dà la vita o la toglie, come persona in grado di decidere se fare nascere o meno altri esseri, dove l’attesa del Redentore è diventata solo un lontano ricordo perché già vissuta e non più ripetibile, ecco definirsi l’immagine di un nuovo dio (questa volta con la lettera minuscola – lo dice il poeta) creato dall’uomo per l’uomo, forse senza saperlo, non appena il tempo è divenuto maturo, mentre tutto riparte da zero, a grado zero; dove zero è l’origine di un nuovo universo, di nuove emozioni perdute che devono essere ricostruite o recuperate, di immagini nuove che devono essere fissate nella memoria perché le vecchie appartengono a un mondo che non c’è più, che è andato distrutto.

Eppure, il nuovo dio cibernetico, figlio di un uomo che ha la sua stessa essenza, incontaminato dal passato, sembra conservare sotto le sue spoglie il ricordo di una notte di sangue e di volo, segno di un sacrificio e di una manifestazione di essenza divina di un dio che era Tutto, che era ogni cosa e in ogni cosa.

L’occhio è lo specchio di ciò che è la realtà:ultima terra di conquista di un mondo senza emozioni che hanno dell’umano, di una nascita che contiene nuovi semi di futuro solo cibernetico, di un dio-macchina.

L’occhio-pensiero così si chiude e smette di vedere con i sentimenti della storia e di pensare con l’identità della fede.

Niente più resurrezione della carne, niente più perdono di nuovi peccati verso quelli che commettono crimini di pirateria informatica, niente più reincarnazione in altre caste, ma solamente immagini costruite per un dio su misura in grado di fermare il tempo e i sogni non appena ci si sconnette dalla “rete”.

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NOTE DI ANDREA CROSTELLI A 3 POESIE

L’ INDICIBILE PARTE DI CIELO

indicibile la parte di cielo

ch’è in te e ignori – dice steiner

l’uomo in sé cela un altro

uomo: testimone che ti osserva e

sperimenti ogni ora:

basta che solo

un verso o poche note ti richiamino

a una strana forza interiore:

e cessi

di sentirti mortale

*

RIEMPIRE I VUOTI

riempire i tuoi vuoti di cielo

e un angelo che ti corre nelle vene

come sangue e il bianco grido

del vento che sfiora

i contorni del cuore a smussarne

gli angoli vivi il dono

di una parola (cara

e rara non di circostanza)

corredata dalla luce di un

sorriso ad hoc

*

AUNG SAN SUU KYI

(scritta il 22.5.09)

non violentate la primavera

del suo giovane sangue

non pugnalate la colomba

del suo cuore aperto

alla compassione

non schernite la disarmante

verità che proclama

aizzandole contro

i mastini della notte

dal suo sangue si leva alto

il grido d’innocenza

a confondere intrighi di potenti

Felice Serino

*

E’ vero, basta che qualcosa “svegli” l’animo – come un verso, qualche nota, una pittura – che improvvisamente saltiamo il guado che fa sentire il pensiero atemporale.

*

“L’angelo corre nelle vene” mi fa pensare a quando faccio difficoltà a gestire quello scoppio d’amore che m’ investe di tanto in tanto.

*

“I mastini della notte” non soffrono la sobrietà, il pacifico equilibrio che dà sapore alle cose, per questo vorrebbero azzannarti ma sbattono il muso con lo specchio che li fa vedere deformati al confronto.

Andrea Crostelli

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ONNIAMORE

accettare di farsi

trasparenza (libro aperto)

lasciarsi attraversare

dalla vita – da morte-vita (rosa

e croce) –

da Colui-che-è: l’ Onniamorevole

di fronte all’Assoluto

…immersi

nell’Assoluto –

quando il R a g g i o

assorbirà le ombre

Felice Serino

*

Commento di Luca Rossi. Maggio 2002

La vita come apertura all’Assoluto, a ciò che è disciolto dalle cose terrene, per confessare fin da subito la propria sincerità, quella sincerità che si fa trasparenza dell’anima, ma anche del corpo: libro aperto che può essere sfogliato da chiunque abbia volontà di leggerlo.

Ecco il senso dell’opera di chi scrive: rimettere la propria esistenza, il suo senso, la sua durata, nelle mani di chi ci lascia liberi di chiuderci in noi stessi senza confrontarci con il Mistero o di rapportarci con ciò che potrebbe dare senso a quello che siamo.

Periodo di transizione difficile da vivere è la riflessione, soprattutto quando si mette in gioco tutta una filosofia di vita, una morale che sentiamo appartenerci, ma che è, lì, subito pronta a sfuggirci di mano.

“Onniamore” è una poesia a carattere fortemente religioso, interessante nella forma, viva nel contenuto. “Viva” in senso di “sentita”, di portare cioè chi legge a porsi degli interrogativi, perché la fede in fondo non è che una continua domanda che non trova risposta, se non nell’accettazione, come dice il poeta, di lasciarci attraversare dalla vita e, subito dopo, dal ricordo inestinguibile della morte.

Di forte impatto è la chiusura con il riferimento a quel “Raggio che assorbirà le ombre”: noi, nient’altro che esseri inconsistenti che per un attimo proiettiamo la nostra figura sul suolo, quando il nostro corpo si interpone tra l’astro che brilla e la terra sulla quale viene a definirsi l’immagine sempre distorta di ciò che siamo.

Inconsistenti fino a quando ci libereremo del peso della nostra esistenza per essere attraversati dalla Verità che libererà l’ombra dal suo oscuro colore per essere luce, per essere consistenza di ciò che prima era solo labile fede.

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QUALE AMORE

(a cura di Luca Rossi)

nell’amore sai non c’è ricetta

che tenga: è buona regola giocare di

rimessa / vuoi

possedere l’oggetto d’amore e

resistere all’amore Quello-che-si

dona

tu cuore diviso tra cielo e

terra carne/amore non più che sparso

seme

[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell’Autore]

*

Il nostro incurabile istinto di possedere, di assimilare nel senso più crudo del termine, è il mezzo attraverso cui passa gran parte della nostra esperienza estetica.

Noi ci abbracciamo premendo un corpo contro l’altro, e così riduciamo a zero quella bellezza umana che è fisica solo nel senso che la superficie del corpo è animata da uno spirito che il nostro tatto in quanto senso non può raggiungere.

(Dag Hammerskjold – da DIARIO – Vagmarken: Piste)

*

La poesia sonda un territorio così vasto e profondo che potrebbe essere considerato la prima e l’ultima sfida dell’esistenza prima di giungere ai confini di una verità che renderà l’uomo finalmente libero dalle proprie passioni.

L’amore è confronto perché ci porta non solo a relazionarci con gli altri, ma anche a conoscere noi stessi, a metterci in gioco.

Quali comportamenti siano più indicati quando vogliamo che l’altra persona divenga per noi nessuno ce lo può dire, perché il cuore detta legge a un uomo nuovo che porta dentro di sé un sentimento forse mai sperimentato prima.

“Non c’è ricetta che tenga”, dice chi scrive.

Eppure ci può essere una sorta di “educazione”, capire che l’oggetto del nostro amore è dunque per noi e non nostro nel senso possessivo del termine.

C’è chi vorrebbe fagocitare, ingoiare questo amore perché non si dilegui e c’è invece chi mantiene le distanze per la paura di non essere corrisposti. Entrambi comportamenti sbagliati che la poesia non cerca di correggere ma solamente di sottolineare (vuoi / possedere l’oggetto d’amore e / resistere all’amore Quello-che-si- / dona).

Bisogna imparare a gestire le proprie passioni cercando una nuova linea d’orizzonte dove il cuore rimane libero di decidere (tu cuore diviso tra cielo e / terra carne/amore) sapendo che l’amore che vuole possedere è un amore che rende prigionieri, che soffoca, che non permette alcuna realizzazione, nessuna crescita.

Nutrire poi la terra con il proprio seme perché produca frutto, perché dia senso a questo bisogno di donarsi.

Liberi dall’incertezza che il cuore non sia una prigione dove rinchiudersi e dove rinchiudere, ma una terza terra di frontiera da esplorare in due, in ogni istante.

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CRITICA ALLA POESIA DI FELICE SERINO: “PARUSIA”

Di Luca Rossi

Settembre 2003

PARUSIA

(nell’ultimo giorno: scaduto il tempo osceno)

sporgersi sull’oltretempo ai bordi

della luce

presenze

evanescenti in chiarità

di cielo: farsi

corpi di luce

Da La difficile luce, 2005

*

Il tema di ciò che sarà dopo, di ciò che noi saremo dopo, e di come il tutto accadrà, sembra essere uno tra gli aspetti più ricorrenti e forse ossessivi del Poeta.

Serino intraprende ancora una volta, attraverso questi versi, un viaggio al centro della fede in modo del tutto impersonale (o forse a lato, per paura di fare troppo rumore con il suo raccontarsi).

“Perché?”, mi domando.

Probabilmente perché la fede pur legando le masse lascia comunque gli individui vincolati ad una propria identità, quella stessa che non è omologazione, ma che trova il suo spazio in una terra comune “sull’oltretempo”, come dice il Poeta, dove la luce rimane come unico elemento quale comune denominatore che confonde le anime, ma non le riduce ad un unico sistema di contatto.

Ai bordi della luce queste presenze evanescenti si rendono visibili solamente dove comincia il cielo mentre, come corpi, definiti, delimitati da un proprio involucro apparente, l’ultima luce riveste l’individuo di una nuova essenza prima dell’ultimo giorno, dove scaduto sarà il tempo osceno, dove scaduto sarà il tempo vissuto.

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Commento alla poesia Sospensione, di Felice Serino

Sospensione

un camminare nella morte dicevi

come su vetri non conti le ferite

aspettare di nascere uscire

da una vita-a-rovescio

riconoscersi enigma dicevi

di un Eterno nel suo pensarsi

*

In Sospensione vedo un saltimbanco che cammina ad occhi chiusi su un filo.

Cammina senza sapere quando il filo terminerà all’altro capo, al capo opposto da cui è partito. Sa che l’attende il vuoto, ma non ha paura. D’altronde camminare sulla terra ha provocato in lui tante ferite, ferite che lo tagliuzzano fino a spezzargli la vita.

Prima il saltimbanco faceva sul suo filo (per lo spettacolo) un breve tragitto e poi tornava all’ovile iniziale. Aveva provato ad aumentare le distanze di un pochino, mantenendosi però a misure di sicurezza, con occhi aperti che potevano inquadrare la scala che lo aveva fatto salire e l’avrebbe fatto scendere. Ora, invece, non cerca più gli applausi ma la libertà, e viaggia ad occhi chiusi senza più fermarsi affidandosi, affidandosi a uno sguardo eterno che non si distoglie da lui e lo rassicura.

Più va avanti e più in quello sguardo sente di riconoscersi e di confondersi fino a che non farà alcuna differenza tra i due e quell’unisono sarà l’eterno.

Secondo l’occhio dell’uomo la vita non materiale è una vita-a-rovescio, solo così può chiamarsi per lui una vita che inquadra come piena di privazioni; tutt’altro è per l’uomo spirituale: il rovescio è spendere la vita nelle cose che finiscono.

Riconoscersi enigma, mistero, eleva la nostra natura. L’indecifrabile, il non ancora decifrabile pienamente, in noi e in quello sguardo, è la vera attrattiva.

Il vero scopo di questa traversata è la caduta nel vuoto per affondare tra le mani del Pensiero eterno nel pensarsi in noi (così a Lui piace, anche).

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COMMENTO ALLA POESIA DI FELICE SERINO “RICORDA”

Ricorda

[ispirandomi a David Maria Turoldo]

sei granello di clessidra

grumo di sogni

peccato che cammina

ma

s e i a m a t o

immergiti

nella luminosa scia di chi

ti usa misericordia

ritorna a volare:

ti attende la madre al suo

nido

ricorda: sei parte

della sua infinita

Essenza

nato

per la terra

da uno sputo nella polvere

da La bellezza dell’essere, 2007

*

“Ricorda”, ispirata a David Maria Turoldo, alla sua schiettezza, alla sua decisione di dire le cose senza addolcirle (con tutta la loro drammaticità).

“Ricorda” ripercorre il cammino dell’uomo su questa terra nelle sue fasi essenziali (meno seccamente di Turoldo), fasi che confluiscono nella visione futura dell’Eternità.

Il peccatore, il sognatore non sa quanto sia stretto il buco nella clessidra che lo proietterà dall’altra parte, oltre il tempo, oltre quel tempo che non può calcolare perché è all’oscuro della fattezza di quel buco… Quel buco è la mano di Dio che dopo aver soffiato la vita e con la saliva impastato la terra per la nostra natura, decide che sia giunta l’ora che ritorni secca; come sabbia scivoli dal suo pugno. “Ma sei amato” e quindi ti riprenderà trasformato a sua immagine e questa volta senza parentesi.

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Considerazione sulla poesia “Lacera trasparenza”

Lacera trasparenza

insaziata parte

di cielo

vertigine della prima

immagine

e somiglianza

vita

lacera trasparenza

sostanza di luce e silenzio

sapore dell’origine

fuoco e sangue del nascere

da La bellezza dell’essere

*

“Lacera trasparenza” la vita. Quanto fa pensare da solo questo verso. La vita sporca le vesti pulite (trasparenti) del bambino che viene al mondo…

Andrea Crostelli

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Commento alla poesia di Felice Serino “La tua poesia”

Di Luca Rossi. Giugno 2003

LA TUA POESIA

quando un capriolare nel mare prenatale

ti avrà fatto ripercorrere a ritroso

la vita (tutta d’un fiato) azzerando l’Io spaziotempo –

allora leggerai la vera sola poesia aprendo

gli occhi sul Sogno infinito: la tua

Poesia cavalcherà in un’ albazzurra i marosi

del sangue fiorirà negli occhi di un’eterna giovinezza

Da La difficile luce, 2005

*

La poesia scritta da Serino è tutta un inno alla giovinezza, ma non alla giovinezza in generale, bensì a quella dell’anima, la quale non si consuma ma resta sempre uguale, e che il tempo non dissipa con il suo correre inarrestabile; è un’indicazione sul modo di come fare per riappropriarsene, quando ormai i giorni sembrano non averne più memoria ed è pure un canto alla verità su cui si basa l’esistenza.

Aprendo la prima strofa con un verbo “montaliano”*, il poeta immerge fin da subito il lettore nelle acque di un mare che è origine, inizio, ora zero, epifania della vita, cioè quello del grembo materno, in cui la madre è ricordata, in modo traslato, un po’ come la madre Terra, da cui tutto è generato. E non potrebbe essere altrimenti.

Per un attimo sembra che a un punto esatto dell’esistenza, facendo capriole, come è tipico dell’età infantile, colui che legge faccia ritorno a quel tempo originario, primordiale. E la vita rapidamente inverte il conteggio delle sue ore, dei suoi giorni, dei suoi anni fino a pochi istanti prima del suo nascere; un ritorno che è segnato dalla corsa rapida del pensiero che si fa viaggio, perché il “pensiero” è sinonimo per eccellenza di velocità che brucia lo “spaziotempo���, come lo definisce Serino, in cui l’essere vi si trova immerso.

Ed è in questo preciso punto che il poeta ci fornisce la chiave di lettura del testo; nel momento in cui dice (con parole che hanno un che di sapienziale e dal fascino indiscutibilmente bello, nel senso più ampio del termine) che solo allora “leggerai la sola vera poesia aprendo gli occhi sul Sogno infinito”.

Eleganza del verso e simbolismo indiscusso di tutta una rappresentazione di segni e concetti. E non è un caso se la parola poesia riportata nel procedere della lettura è scritta in carattere minuscolo la prima volta ed in maiuscolo la seconda; non si tratta di un errore, non è una distrazione di chi scrive e neppure una “licenza poetica”, in quanto la prima raccoglie la vita nel suo significato generale, quella sociale, magari vissuta superficialmente, banalmente, senza prestare attenzione ai segni criptati che ci provengono da un destino già scritto, mentre nel secondo si vuole fare esplicitamente riferimento alla vita del singolo, quella del lettore che diviene il vero protagonista del messaggio a cui il poeta vuole indirizzare il suo pensiero.

Meriterebbero questi primi due aggettivi e il sostantivo che ne segue alcuni approfondimenti, percepire il pensiero di chi scrive.

Il primo, vera, in quanto autentica, coerente con il proprio Io, con il proprio credo, che forse è andato perduto con l’avanzare degli anni. Ma è solo una percezione, un’intuizione a cui il poeta ci dice di porre attenzione.

Dopo tutta una vita spesa per “farci notare”, per non essere esclusi dal progresso nel quale se non si lascia un segno non si è nessuno, la riflessione stessa a cui siamo stati chiamati ci porta a fare un’analisi storica del nostro vissuto, interrogandoci sul fatto che sia stata proprio quella la via che volevamo percorrere, e che siamo stati costretti a calpestare, per fare “sentire” la nostra voce in mezzo alle voci di coloro che hanno voluto gridare di più per apparire, per sembrare, per affermarsi.

Ed è in quel momento che la verità si fa strada e si rivela per quella che è, nuda, scarna, senz’ombra, gettando quasi un alone di colpevolezza sulla propria coscienza che ci portava a credere di essere nella verità.

Sola, perché non ne esiste un’altra. Non esiste un’altra verità che può essere uguale alla nostra, confrontabile, similare, un io uguale all’altro col quale porre limiti e infiniti orizzonti da cui trascendono i progetti.

Non è confrontabile un vissuto con l’altro, per quanti errori o cose positive abbiamo compiuto all’interno della nostra vita.

Portiamo con noi una serie di prove da superare che forse non riusciremo a portare a termine, un’infinità di progetti che vedremo fallire, ma anche la speranza che forse qualcuno un giorno, fosse anche il fratello che proviene da lontano, il pellegrino per eccellenza (inteso in senso cosmopolita) possa comprenderle (nel senso etimologico del termine, prendere-con-sé).

Portiamo con noi anche le cose belle, compiute, quelle positive, costruttive, dalle quali però il più delle volte ci aspettiamo riconoscenza, e non dovremmo, perché la vera Poesia, e qui il sostantivo inevitabilmente viene riportato in caratteri maiuscoli, deve rimanere anonimo, noto solo agli occhi di Colui che tutto vede e di cui noi abbiamo conoscenza per fede e testimonianza teologica.

Qui il sostantivo acquista il suo vero significato, insindacabile, indiscutibile della creazione.

Difficoltà estrema quest’ultima (indicata dal poeta con riferimento ai marosi) dell’uomo, di cui la parola sangue ne rievoca chiaramente l’immagine e ne sottolinea l’unicità, quasi fosse una carta d’identità, e con la quale è chiamato a vivere senza mai perdere la sua vera bellezza, che il poeta recupera prima della chiusura, in direzione di un azzurro verso il quale cavalcare; colore di una giovinezza che fu, che continuò a essere e che sarà, ogni qual volta l’eternità ci chiamerà a volgere lo sguardo verso un mondo che adesso non è più, ma nel quale fino a un attimo prima eravamo vissuti.

* Capriolare.

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un pò ti cerchi un pò ti butti via…

GIOVINEZZA

Prati teneri, intenso verde,

caviglie agili, snelle

dal venticello gaio frustate…

palpiti e sussurri, risa;

acqua di ruscello

fresca, tersa

come i miei pensieri:

una tenera ansia da consumare.

Un altro Io era quello…

Lasciai lì le mie ceneri

sparse al vento.

_ _ _

Questa mia poesia è dell’anno 1967 e chiude una breve raccolta pubblicata sotto pseudonimo (da me ripudiata). Delle altre, è quella non da salvare ma che mi fa meno ‘sorridere’…

Ma devo confessare che della mia giovinezza ho poco da sorridere: rivedo un ragazzo piegato sulla solitudine, forse un po’ voluta (una vita incolore, un pò ti cerchi un pò ti butti via), preso nella spirale di una mania depressiva che mi spinse a un tentativo di suicidio.

Sono gli anni più belli? Dicono. Mah!; difficile la maturazione in quel periodo acerbo, età definita ‘ingrata’, quando non si hanno punti precisi di riferimento e manca l’ affetto familiare, manca l’amore, un amore vero e pulito per cui ti alzi la mattina e ringrazi Dio di essere vivo… Un’età avvolta di fragilità esistenziale mascherata di aggressività; – tiri fuori le unghie anche se spesso te le rivolti ad affondarle nell’anima…

Pensare di morire a quell’età! Sta di fatto che il mio pensiero fisso sulla morte si rispecchiava in quelle poesie giovanili.

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Sono un mistero a me stesso

da me una distanza mi separa:

attraversa un incendio

la carne: per farla d’aria – vitreo

sperimento

mistero a me stesso

e il mondo m’è fuoco dipinto ¹

Da Fuoco dipinto, 2002

¹ verso da Maria Luisa Spaziani

Felice Serino

*

Felice Serino con la sua sintetica poesia merita, certamente, una particolare attenzione perché con voce profonda sa esprimere le sue visioni, fatte e approfondite anche scientificamente. L’essere mistero a se stesso è una genuina necessità del recupero di tensioni interiori, che il poeta con i suoi versi brevi pare voglia esprimere sentimenti di fuoco per distruggere e disperdere nell’aria il suo essere. La poesia di Serino è esaltante proprio per le osservazioni attente che coinvolgono ogni lettore nel mistero.

[giudizio critico dalla pagina web “Poeta e pittori del terzo millennio”]

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AZZURRE PROFONDITA’

(a cura di Luca Rossi)

la testa affondata nel cielo (azzurre

profondità rivelano ombre

essere i corpi) – il foglio la mano un

vuoto –

mi levo dal sogno bagnato

di luce

[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell’Autore]

Felice Serino

*

Non c’è indugio nel chiederci se sia vero o meno ciò che questa poesia vuole esprimere.

Viviamo a lato di noi stessi senza conoscere la realtà che ci accompagna perché siamo solo ombre che non si levano al di sopra dell’oggetto di cui disegniamo l’immagine e non possediamo nulla che ci consenta di separarci da ciò da cui dipendiamo senza perdere la nostra identità, la nostra capacità di potere distinguere, di potere testimoniare una verità che è tutta un’esistenza, che ci consente di oggettivare il senso e la distanza che ci coinvolgono – senso come significato delle cose che il sogno racchiude e distanza come confine tra desiderio e realtà.

Ci leviamo dai sogni in cui siamo caduti bagnati ancora dai bagliori del giorno perché la notte ci creda solo figli della luce quando il sole rischiara l’oggetto da cui prendiamo forma.

Poi siamo pronti a scomparire per essere forse solo allora dei corpi la cui realtà non è altro che la notte in cui trovare rifugio.

Siamo il foglio sopra il quale scrivere una storia; siamo la mano che la descrive, ma siamo anche il vuoto, quel vuoto che ne seguirà non appena la nostra condizione muterà per rivelare quella diversità che ci portiamo dentro.

Siamo ombre che credono ai sogni da un lato (il corpo che vorremmo essere) e corpi che forse vivono solamente di illusioni dall’altro (l’ombra quale giustificazione dell’esistenza del corpo).

Corpi e ombre, ombre e corpi: due realtà per un’unica condizione che non chiede altro che di essere considerata per continuare a esistere.

Giorno di Pasqua 2001

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A RISALIRE VORTICI

(a cura di Luca Rossi)

a specchio di cielo

cuore

a risalire vortici

di vita dispersa

(d’ore

ubriache)

vorresti tuffarti

nell’azzurro fonderti

con la luce

[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell’Autore]

*

C’è un tempo durante il quale si svolge tutta l’azione che corre lungo i versi di questa poesia.

E’ un momento ben preciso che corrisponde a una parentesi (forse della vita, ma nello scritto a un chiarimento del contesto) che l’autore pone esattamente a metà del suo scritto.

Sono le “ore ubriache” che dividono l’azione faticosa della risalita tra vortici di vita e la probabile e rapida discesa del tuffo.

Tra la salita e la discesa una pausa, un momento in cui riflettere per decidere.

Una vita dispersa che passa rapida, vorticosamente, dove il cielo è solo specchio di una realtà che forse, pur ritmando i tempi del cuore, è troppo veloce.

Cuore: parola isolata, posta in risalto, dello stesso colore del cielo in cui si riflette e in cui trova il suo complemento.

Restano le ore ubriache come momento in cui rimanere.

Trovare, all’interno di queste, il coraggio del tuffo per gettarsi definitivamente nell’azzurro che è passato, che è presente, che sarà futuro.

Posizione di stallo per rivivere senza rimpianti la luce, unico scopo dell’esistenza e dell’azione.

Unico motivo per il quale vale la pena tentare.

Storditi dal tempo e confusi; lasciare la fatica della salita per cadere in un qualche cosa che si è sempre voluto.

Dicembre 2000

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Riflessioni sulla poesia di Felice Serino

SPAESANO LE ORE DEL CUORE

i primi turbamenti i morsi

dell’amore – luce

d’infanzia come sogno scolora

dove l’orizzonte taglia il cielo

spaesano le ore del cuore

nel giorno alto

Quando t’innamori le budella sembrano contorcersi o un vuoto pieno ti sorprende con i suoi prendi e lascia. Sono “i morsi dell’amore” quelli che mangiano al posto tuo e ti tolgono l’appetito.

Ricordi dell’infanzia, luci che a tratti ritornano. C’è ora però una consapevolezza del mondo, uno sguardo maturo che si staglia all’orizzonte dove il vissuto va ad abbracciare la linea immaginaria dell’infinito.

La chiarità delle distanze non può che farci pensare che un giorno quella linea che ci separa dal cielo (l’orizzonte) si cancellerà.

E andremo verso la consapevolezza piena. In questo mondo che si allarga a dismisura “nel giorno alto”, in questo mondo che i nostri occhi perplessi a volte non riconoscono – come se la sua creazione avvenisse in quell’istante che lo si fissa – sperduti ci troviamo: agnellini che belano timidamente in un campo con le sue ampie vallate, gli strapiombi e le vallate ancora, dimentichi di noi stessi, rimpiccioliti fino all’estremo e rimessi nelle mani di Qualcun Altro dall’umiltà che ci salva.

Oh l’amore, quello che ci fa provare l’amore, è un bocciolo profumato di rosa che (per quanto duri poco) torna sempre fresco. Torna, con la sua magnificente indistruttibile novità.

Andrea Crostelli

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Breve commento alla poesia di Felice Serino

Se questo mondo

se questo mondo ti ha forse

deluso è perché ho lasciato

che ti perdessi e dal tuo

vuoto mi tendessi le mani

su me che sono Altro

roveto che arde e non consuma

scommetti pure la tua vita

non vergognarti di me che sono il giorno

ho offerto il mio Essere

carne e dio

al supplizio del legno

mia rivincita d’amore

sono il mattino che ti coglie

-cuore di madre

Dio è ben diverso da noi, è ALTRO.

Si può scommettere pure la vita su di lui ché mai ci farà vergognare di averlo sposato. La notte ci disorienta, IL GIORNO parla con la luce e la chiarezza. La notte ti uccide, IL MATTINO ti coglie vivo.

Questo mi fa pensare a un fiore che strappato dalla terra continua a vivere.

Andrea Crostelli

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TEMPO MALATO / DOLORE DI TEMPO

Frasi sulla poesia “IL PECULIO DI LUCE” (a Simone Weil) di Felice Serino

IL PECULIO DI LUCE

(a Simone Weil)

1.

(occhi come laghi

abbracciano da eco

a eco fremiti di vita)

ha mani che sfondano muri

di solitudine – amore

2.

germoglia grido di luce

da nuovo dolore

Tornano a te, come in un lago al centro della sua valle, gli echi della tua voce-dolore-di-tempo, di quando pronunciasti frasi o pensieri appena ieri, o tornano a te gli echi di chi, in un tempo più remoto, ti assomigliava nel suo “sentire”. Perché l’eco è un sentire che può arrivare dalle orecchie al cuore. Queste sono le “mani che sfondano muri” (e anni), mani prolungate in gesti d’amore e alzate in inni di lode.

L’eco della “luce” sorge come un grido potente di vittoria che abbatte mura di Gerico (la preghiera “funziona” quando uno non dubita che otterrà quel che chiede, anzi sa già di averlo ottenuto prima che questo accada), che stronca le resistenze nemiche più volitive, che smaschera la “notte” con le sue abissali contrapposizioni del bene e con l’offerta lieta delle proprie pene.

E’ così che Felice Serino si specchia negli occhi di Simone Weil (intravede il suo sorriso come una mano tesa), è così che Felice Serino si specchia nella vita piena.

Andrea Crostelli

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ACCOSTAMENTI A “CREATURA” DI FELICE SERINO

(riflessioni, riferimenti personali ed altro)

CREATURA

mi godo la luce

come farfalla

sul palmo della tua mano

Signore non posso

che offrirti il mio niente –

fragile creatura

ti devo una morte

Quante morti, per non pensare a quella ultima, abbiamo reso a Dio?!… e, quindi, quante resurrezioni!

C’è un’intuizione strabiliante in questa poesia.

Ovvero la figura della farfalla abbinata alla morte.

Qualche anno fa ho avuto il privilegio di seguire da vicino un ragazzino dodicenne malato di tumore (uno dei cancri più rari e tremendi).

L’ultima volta che l’ ho potuto portare davanti casa, semi-seduto su una sdraio, ho assistito a questa scena. Aveva una piaga sul ginocchio sinistro e, mentre si stava meditando il rientro, un nuvolo di farfalle bianche (le cavolaie) andò a posarsi su di lui e a baciare quella ferita. Era coperto di farfalle, stettero in quel posto sacro, su quell’altare umano per minuti che sembravano eterni, prima di allontanarsi come uno sciame d’api venuto dal nulla.

Era il segno che stava per essere accolto, dopo la morte, da quella luce straripante che in quegli istanti particolari ci aveva invaso.

I giorni seguenti videro Samuele (così si chiamava) in coma. Un pomeriggio pensai che era il caso di portargli la comunione e pregare un po’ insieme. In effetti si svegliò dal coma e pregò profondamente insieme a tutti i presenti (familiari e amici). Il mattino dopo sullo stradello che porta a casa sua trovai una cavolaia morta. Piombò dentro me il dolore della perdita assieme alla certezza consolante di avere un santo, ora presente, “solo” in maniera spirituale.

Le morti interiori a causa del male commesso sono l’offerta del nostro niente a Dio. Offerta per il rifacimento totale del nostro essere che cerca la vita nuova nella grazia.

La morte può essere intesa pure come liberazione dai pesi terreni, la zavorra che si stacca dal nostro corpo che acquista leggerezza e sale nel cielo pari a una farfalla e, delicatamente, va a cercare la mano che l’ha generato e vi si posa [per sempre].

C’è un altro significato che mi preme venga messo in luce. Quello che sta a dire: la mano del Signore mi ha salvato ora gli devo la vita (o meglio, quella gliela dovevo anche prima, ora gli “devo una morte”.

Andrea Crostelli

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Commento alla poesia Stanze di Felice Serino

STANZE

[ispirata leggendo Il corponauta – appunti di viaggio di uno spirito libero, di Flavio Emer]

io pensiero dilatato

a spolverare le stanze dell’oblio

sulle pareti la memoria

ancestrale

metteva in luce emozioni dipinte

su volti che furono me

rifluiva dai bui corridoi

degli anni il vissuto

a imbuto

mi perdevo come in sogno

nell’abbraccio di quelle figure che

accendevano il mio sangue

STANZE DAI SOFFITTI ALTI

Ombre cinesi sulle pareti della stanza, sui piani alti del cielo sui nembi delle nubi: profili di un volto nelle dormite del tempo, il volto di Felice Serino ora ragazzino ora maturo, ora bambino ora maggiorenne.

La vita si stampa nei cieli e noi aguzziamo l’occhio per vederla e lasciamo crescere le penne per afferrarla nel volo.

Non ci si possiede e allora la nostra anima trasborda, si libera delle staffe, si fa risucchiare dai cieli come spirale nell’imbuto. La carne non ha più debolezze se quell’istinto cattivo lo muove l’anima che non c’è. Se la testa e il cuore se ne sono andati insieme…

E’ amaro e faticoso tornare da viaggio e rioccupare la cella del corpo, sappiamo però che sarà per poco perché il nostro indirizzo è andato oltre, il nostro sogno non è fermarsi mai.

Saper convivere, accettare e magari sorridere quando si pensa alla nostra “carne”, al nostro essere limite, devianza, beh, non è semplice. Ci vuole un allenamento costante, un equilibrio notevole.

Un’elasticità che passa la misura del nostro orgoglio, della nostra presunzione.

D’altronde è Dio che deve salvarci e non noi con le armi che non abbiamo. La volontà (unica arma) da abbinare alla fede, o il desiderio, chiamiamolo come ci pare, sono le nostre braccia tese che solo

.

IMPULSI CREATI DALLA LETTURA DELLA POESIA “L’OMBRA”

L’OMBRA

negativo di me mio vuoto

in proiezione mi copia con inediti

profili tagliati nella luce – se dal

di fuori la spiassi mi direi sono

io quello?

pulviscolare ha i contorni

del sogno e i suoi fòsfeni

si spezzetta se riflessa inafferrabile

fantoccio mi diventa

pure mio vuoto mia metà

che estinta con l’ultima luce

rientrerà nel corpo-contenitore

unificata con la terra – senza un grido

tutt’uno con la morte –

senza perché – solo ombra

Felice Serino

Da Il sentire celeste, 2006

*

Pure come invisibile radice

sorprende ai varchi un puro domandare

ove l’alieno allea forma che muta

oltre il noto che si infissa vorace

cibo a perpetuare la stessa fine

l’uguale fuggire il Logos vivace

(a Felice Serino su “L’ombra” – 11 luglio 2005)

Flavio Ballerini (Pesaro, 1951-2006)

*

L’ombra “morde” il corpo, i piedi dell’anima, si avvinghia e diventa viva come qualcosa di te in catalessi. L’ombra ti permette di guardarti in proiezione.

L’ombra è un dissolvente che a sua volta si dissolve con la morte. L’ombra è uguale alla fisicità dell’estasi, quando si stacca da terra. L’ombra è ciò che si camuffa, come il vino che scivola per le strade può essere confuso con il sangue della tua brocca rotta.

L’ombra è una stretta di mano a chi conosci già, una prolungata presentazione…

L’ombra è il silenzio che parla delle tue pene, le prolunga…ma non le stacca mai da te.

L’ombra è un giocattolo serio che ha la tua stessa meccanica, solo che non puoi prenderlo fra le mani se non quando saluterai il mondo con una “garbata prostrazione”.

L’ombra è un gemello senza peso che ha un suo peso, una sua energia (come quella elettrica) che scarica a terra.

Andrea Crostelli

*

[Segnalata al Premio “Paesepoesia”, Belvedere Ostrense (AN),2005.

Nella motivazione il Presidente della Giuria, nonché Presidente del Circolo “La Gioconda” di Ostra, Giancarla Raffaeli, così si esprime:

“L’ombra è un testo originale e personalissimo che, attraverso un ritmo spezzato e drammatico, evoca l’atmosfera contratta della sospensione della coscienza di sé e del proprio corpo, proiettati nell’inconsistenza estranea e divisa dell’ombra”.]

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Fragile foglia

e nel momento del distacco

l’io si farà fragile foglia

appoggiata ad una spalliera di vento

Felice Serino

_ _ _

Perfetta. Nella sua fragilità di foglia c’è la perfezione: quando l’io, abbandonandosi, si afferra al vento e si lascia danzare.

Riyueren

21 aprile, 2008

* * *

o forse ‘ “l’io” è la radice che si spoglia

di quella foglia al vento,

ma non si asciuga la vita tra i rami

e a primavera

nuovo verde vedrà la luce.

Bellissima davvero.

ParolaBuia

commenti rilevati su:

http://rossovenexiano.splinder.com/

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IN SOGNO RITORNANO

[ispirata nella notte del 25.3.07]

in sogno sovente ritornano

amari i momenti del vissuto

che non vorresti mai fossero stati

per cui accorato in segreto piangi

si affaccia nel tuo sogno bagnato

quel senso di perdizione

incarnato nel figlio

prodigo che fosti

emerge dai fondali

dell’inconscio dove naviga

il sangue e tu

disfartene non puoi

Felice Serino

*

BREVI CONSIDERAZIONI SULLA POESIA DI FELICE SERINO

“IN SOGNO RITORNANO”

Pure nei sogni ci può essere tormento perché la fatica dell’ uomo sta nella mente oltre che nel corpo.

E i ricordi e le cose brutte possono tornare ad “inquinare” il cervello inavvertitamente, a sorpresa, senza che noi ci mettiamo del nostro per provocarle. Ma anche su queste lo spirito ha il sopravvento, combatte, ed ha il sopravvento.

In questa dimensione si sta dentro una sospensione come un palloncino che si perde, fluttua nel cielo, fino a scomparire, fino a diventarne parte.

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IO-UN ALTRO

questo sentirmi diviso: e

non riconoscermi come

il fuori del mio dentro:

convivere con gli umori

di un corpo di morte

Felice Serino

*

CONSIDERAZIONI SULLA POESIA DI FELICE SERINO

“IO-UN ALTRO”

“Convivere con gli umori di un corpo di morte”, anche per un tempo breve – “dentro una sospensione” – non è cosa facile, è la prova a cui siamo sottoposti.

La salvezza è sorprenderci, continuare a sorprenderci in positivo pure quando attorno a te c’è più di un sole velato, magari uno strato addensante di nuvole nere che pesano come una crosta su un corpo ferito. Quella crosta sappiamo cadrà e lascerà una pelle nuova. Così le nostre situazioni di vita, superate le difficoltà si rinfresca, si riaccende un mondo da scoprire, creato per essere tastato, visitato, scoperto. Quel nero cielo che dà buio interiore, farà cadere una scrosciante pioggia e dopo il temporale porterà un fresco risveglio delle membra e con esse il riequilibrio della mente nella sua positività.

Lo spirito a volte è costretto a “convivere con gli umori di un corpo di morte” ma ha un alleato nella speranza che gli crea le situazioni per il sopravvento, per la rinascita continua, con una forza che scavalca ogni avversità che colpisce il fisico.

Andrea Crostelli

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Libro sacro

leggerne una pagina al giorno

perché la fede non sia acqua

Colui che te la dona

fallo uscire dal libro sacro

le righe nere diventino il tuo sangue

fa che sia pane

non polvere nel vento la Parola

da In una goccia di luce, 2008

_ _ _

Del Libro sacro il verso pungente, stimolante, rivelatore, e altamente poetico è: “fallo uscire dal libro sacro”. Contiene un imperativo, un’urgenza profetica alla quale non puoi voltare la faccia.

Andrea Crostelli

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IQBAL MASIH: STORIA DI UN’ INFANZIA RAPITA

A cura di Luca Rossi.

Novembre 2006

“Nessun bambino dovrebbe mai impugnare uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite”

I.M.,Stoccolma 1994

Il film di Cinzia Th. Torrini[1] (1998), inerente la vita di Iqbal Masih, non è altro che la storia di una vita riscattata da violenze e omertà su uno degli aspetti più inquietanti che legano le società ricche dell’occidente a quelle più povere, in un’asimmetria abissale dove all’interno delle prime i bambini portano con sé la dignità loro attribuita da leggi consapevoli del valore della vita, mentre le seconde utilizzano con il termine di “piccoli lavoratori” un eufemismo per celare un sostantivo ben più pesante, quello dell’essere schiavo.

Già, perché Iqbal Masih, insieme ai milioni di bambini schiavi sparsi per il mondo, concentrati soprattutto nelle zone del Bangladesh, del Pakistan, dell’India, del Nepal rappresenta la sofferenza di un’infanzia che segna i cuori di tutti coloro che si battono contro lo sfruttamento dei più deboli, in qualsiasi senso.

Venduto all’età di quattro anni dal padre, la regista ci narra la storia vera di un ragazzo pakistano, ceduto ad un fabbricante di tappeti senza scrupoli, al fine di pagare un debito contratto per il matrimonio della figlia. Mani distrutte per avere intessuto per dodici ore al giorno per sei lunghi anni tappeti raffinati, pronti per essere rivenduti nei paesi occidentali a prezzi elevatissimi. Piedi incatenati a un telaio per fare sì che nessuno dei piccoli lavoratori si allontanasse dal posto di lavoro, o rinchiusi da Hussain Kahn, titolare dell’azienda (se così la si potrebbe definire), nella “Tomba”, un pozzo privo di aria e di luce quando qualcuno disubbidiva o cercava la fuga. Le regole erano semplici, come ricorda uno dei ragazzi a Iqbal appena giunto alla fabbrica: 1) non è permesso parlare altrimenti verrai punito; 2) puoi fare una pausa di mezz’ora per mangiare ogni giorno. Se ci metti di più verrai punito; 3) se ti addormenti sul telaio verrai punito; 4) se sporchi la tua panca o perdi gli attrezzi di lavoro verrai punito; 5) se ti lamenti o parli con sconosciuti fuori dalla fabbrica verrai punito.

Iqbal fu l‘esempio vivente, ispirato da ideali di libertà, per tutti i bambini del mondo, ridotti in schiavitù, più che inserirsi nel lavoro nero. E più che di un film, quello della Torrini, è un vero e proprio reportage filmato che non ha fine, che non avrà mai fine, poiché lo sfruttamento minorile non è cessato di esistere.

Venduto per pochi dollari, Iqbal riuscirà con l’aiuto di un sindacalista, Eshan Kahn, presidente della lega contro il lavoro dei bambini -BLLF- (unica persona di cui fidarsi a dispetto della famiglia dove non avrebbe più trovato rifugio, perché sarebbe subito stato riportato al proprio aguzzino o della polizia locale corrotta essa stessa), a diffondere il suo pensiero e la sua voglia di vivere e difendere quanti hanno vissuto il suo dramma partecipando a varie manifestazioni, portandovi la voce di coloro che non avevano voce, in Svezia, negli Stati Uniti d’America, dove riceverà onorificenze e contributi, nonché una borsa di studio dalla Brandeis University, che gli consentiranno di progettare un sogno: quello di diventare un giorno avvocato per difendere i soprusi verso i minori, mentre nello scorrere delle immagini della Torrini, le telecamere inquadrano striscioni e cartelli di marce di bambini liberi inneggianti la scritta “Children are innocent!”.

Iqbal regalerà alla nonna non vedente, ma in grado di distinguere i colori dal calore che essi emanano, quasi un’energia vitale che attraversa l’anima, una semplice bambola di pezza che le aveva promesso anni prima, fino al giorno in cui, la domenica di Pasqua del 1995, all’età di tredici anni, il martirio segnò per sempre la sua vita.

Ucciso da un sicario che gli sparò in pieno petto (perché accusato con le sue pubbliche affermazioni di ridurre gli introiti attraverso lo sfruttamento minorile dell’economia illegale del Pakistan), sarà ritrovato su di una spiaggia, sulle lande di Chapa Kana Mill, nei pressi di Lahore, con legato ad una mano il filo di un aquilone volteggiante alto nel cielo, segno di quella fanciullezza che non poggia i propri piedi su di una terra corrotta, ma che si libera come ala nel blu del cosmo, tra nuvole bianche riflesse nel sole. Ma quel giorno il sole non doveva avere colore.

Mentre l’aquilone sale alto, la polizia scriverà a verbale: “L’assassinio è scaturito da una discussione tra un contadino ed Iqbal.”

Prima di essere ucciso, il piccolo uomo scrisse: “Non ho paura del mio padrone; ora è lui ad avere paura di me.”

Quello della Torrini lo si vorrebbe un film che appartenesse alla storia, come quelli girati nei campi di concentramento, ma non è così: resterà sempre attuale.

Accanto alle immagini della regista vi è però da aggiungere a mio giudizio ciò che ha da dirci la poesia in merito. Il poeta, come il cineasta, grida anch’egli il suo sdegno. Tra le figure contemporanee di poeti che hanno dato voce al dolore di Iqbal ne ricordiamo una per tutte: quella del poeta torinese Felice Serino[2], di cui riporto il suo dire in merito attraverso una delle più belle poesie di cui la prima stesura fu quella pubblicata su “Il Tizzone”[3]: “tuo padre ti vendette/ per pagare un debito/ inestinguibile// violarono la tua infanzia/ insieme all’innocenza di bambine/ costrette a prostituirsi// tra trame di tappeti e catene/ il tuo sangue ancora grida nei piccoli/ fratelli – sotto ogni latitudine// ma la tua ribellione ha creato/ un precedente: una forza/ dirompente a svegliare coscienze// per un più umano domani.”

Ripresa e rielaborata in chiave diversa la poesia apparve poi premiata in vari concorsi nel seguente modo: ”come un bosco devastato/ intristirono la tua infanzia/ di pochi sogni// tra trame di tappeti e catene/ ancora grida il tuo sangue nei piccoli/ fratelli – il tuo sangue che lavò la terra// quel mattino che nascesti in cielo – dimmi -/ chi fu a cogliere il tuo dolore adulto/ per appenderlo ad una stella?”

Entrambe le espressioni d’arte esprimono, ciascuna a modo loro, il pensiero cosmopolita di chi ha voluto testimoniare con i suoi verdi anni una fede universale.

[1] Cinzia Th. Torrini nasce a Firenze nel 1954 e si trasferirà a Monaco dove si diplomerà alla scuola di cinematografia. Dopo avere girato alcuni documentari e cortometraggi, esordirà con la pellicola “Giocare d’azzardo”, riscuotendo a Venezia nel 1982 un notevole successo da parte della critica. Seguirà nel 1986 la produzione del film “Hotel Colonial”, mentre nel 1996 parteciperà con altri quattordici registi alla produzione di “Esercizi di stile”.

Per la televisione Cinzia Th. Torrini ha partecipato alla realizzazione di “L’ombra della sera” (1984), “Dalla notte all’alba” (1991), “L’aquila della notte” (1993), “Morte di una strega” (1996), “Iqbal Masih” (1998) e “Ombre” (1999).

[2] Nato a Pozzuoli (NA), F. Serino vive a Torino da operaio metalmeccanico, oggi in pensione. Ha pubblicato i seguenti volumi: “Il Dio-Boomerang”; “Frammenti dell’immagine spezzata”; “Fuoco dipinto”; “La difficile luce”; “Di nuovo l’utopia”. In proprio ha editato: “Delta & Grido” e “Idolatria di un’assenza”. Ha collaborato in vario modo con il periodico “Il Tizzone”, “Omero” ed altri. Maurizio Cucchi dice di lui: “F. Serino dimostra notevole esperienza, destrezza e buone letture, non solo poetiche. Conserva residui avanguardistici ma cita anche Bartolo Cattafi e si ispira qua e là ad Andrea Zanzotto.”

[3] Poesia apparsa sulla rivista letteraria “Il Tizzone”; editore Alfio Arcifa – Rieti 1999.

Nota di lettura di Sospensioni di Felice Serino

Enrico Cerquiglini

Sospensioni di Felice Serino è una raccolta che affronta le grandi domande dell’esistenza, muovendosi tra i confini dell’umano e il mistero del trascendente. Fin dal titolo, emerge una poetica sospesa, tesa a cogliere quel momento in cui il pensiero si arresta e l’intuizione si fa parola. La scrittura di Serino si caratterizza per una tensione costante verso l’oltre, verso una dimensione che supera il quotidiano, ma che del quotidiano si nutre, in una continua dialettica tra ciò che è evidente e ciò che rimane insondabile. Il tema della fede, come nota magistralmente Mario Saccomanno nella Prefazione, attraversa molti dei testi come ricerca incessante di un senso nell’apparente caos dell’esistenza. La figura divina è un’eco lontana, mai definita con certezza, ma presente come tensione, come bisogno di risposta a un universo che sembra spesso muto. Questo slancio si intreccia con una profonda consapevolezza della fragilità umana, della caducità del corpo e della precarietà dell’anima, che combatte per trovare il suo posto in un mondo in continua trasformazione.

La raccolta è intrisa di simbolismo, con immagini che spaziano dalla natura (ulivi, girasoli, cieli plumbei) a frammenti di memoria personale. La natura diventa così un tramite per esprimere sentimenti universali: la luce e l’ombra, il radicamento e il movimento, la vita e la morte. Questo dualismo è reso con un linguaggio che unisce concretezza e astrazione, in un equilibrio che a volte raggiunge vertici di lirismo e altre volte si fa volutamente spigoloso, quasi a voler sottolineare l’impossibilità di afferrare del tutto il significato profondo dell’esistere.

Serino opta per dei versi liberi e talvolta frammentati, con una preferenza per frammenti brevi, che richiamano intuizione o visioni oniriche. Questo approccio stilistico amplifica la sensazione di sospensione, lasciando al lettore il compito di ricucire i fili tra un’immagine e l’altra, tra un pensiero e l’altro. Serino sembra voler catturare il movimento stesso del pensiero, il suo fluttuare tra i confini della materia e dello spirito.

Tra i temi ricorrenti si trovano la memoria e la colpa, elementi che legano il vissuto personale a un contesto universale. I ricordi, spesso evocati in modo frammentario, assumono una dimensione archetipica, diventando non solo testimonianza del passato, ma anche monito per il presente. Questo intreccio tra individuale e collettivo è una delle caratteristiche salienti della poetica di Serino, che riesce a parlare di sé senza mai chiudersi in un’autoreferenzialità sterile, ma anzi aprendo i suoi versi a una dimensione corale.

Non tutti i testi sono di immediata comprensione: l’autore non teme di sfidare il lettore, spingendolo a confrontarsi con immagini e concetti che non offrono risposte facili. In alcuni momenti, questa complessità può risultare spiazzante, ma è proprio in questa sfida che risiede la forza del libro. Serino ci invita a fermarci, a sospendere il giudizio, e a immergerci in un viaggio che non ha necessariamente una meta, ma che è intriso di significato in ogni passo.

Con Sospensioni, Felice Serino ci conduce lungo un percorso che è tanto spirituale quanto esistenziale, restituendo al lettore un senso di appartenenza a quel mistero che chiamiamo vita.

*

Felice Serino / Caffè Letterario

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Sprazzi di pace

spiove dal cielo una luce

di stelle gonfie di vento – quasi

provenisse dall’oltre

nel cuore un aprirsi

di sprazzi di pace: vedermi

in tutto col mio sognare –

il vissuto la vita

sognata

*

Creatura

mi godo la luce

come farfalla

sul palmo della tua mano

Signore non posso

che offrirti il mio niente –

fragile creatura

ti devo una morte

*

Ha memoria il mare

1.

la forma del vento disegnano

rami contorti

voli

di gabbiani ubriachi di luce

a pelo d’acqua decifrano tra

auree increspature le vene del mare

2.

interroghi sortilegi nella

vastità di te solo

ti aspetti giungano da un dove

messaggi in bottiglia un nome un grido

ha memoria il mare

scatole nere sepolte nel cuore

dove la storia

ha un sangue e una voce

*

Rosa d’amore

letificato d’amore angelicato fiore

si schiude la rosa

fra cristalli dell’inverno

*

Per speculum in aenigmate

chi sei: quale il tuo nome nel registro

della Luce quale la tua figura

inespressa

questo non aversi

come morire sognarsi

in seno a cieli di cui non è memoria

…caduto

il velo il tuo Sé faccia a faccia

un ri-trovarsi:

moltiplicato

*

A risalire le ore

non resteranno tracce

dei giorni solo parole

scritte sull’acqua

a risalire le ore

del sangue

il vortice del vuoto: solo le stimmate

parleranno

dell’amore che hai dato

*

Appoggiata ad una spalliera di vento

e nel momento del distacco

l’io si farà fragile foglia

appoggiata ad una spalliera di vento

(da Il sentire celeste, Poetilandia, 2006.)

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Felice Serino nasce a Pozzuoli nel 1941. Già negli anni Settanta i suoi versi sono presenti in rubriche e riviste letterarie. La raccolta poetica “Il Dio boomerang” (1978) inaugura una nutrita serie di pubblicazioni che gli attirano l’attenzione e il plauso della critica, fruttando alla sua opera premi e riconoscimenti.

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Fin dall’inizio, la poesia di Felice Serino si fa notare per l’originalità con cui riesce a rendere un mondo interiore quanto mai ricco e variegato che, pur nella sua ricerca – ora serena ora tormentata – dell’Essere-Uno-Dio, non cede alla tentazione di ripiegarsi in sé, ma si lascia toccare dagli echi del suo tempo, dalle forze della natura e dalla struggente inafferrabilità degli affetti.

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Caratterizzata da uno stile asciutto e al tempo stesso di grandissima intensità, nonché dal singolare incontro fra esistenzialismo e trascendenza, la poetica di Serino è la voce tutta umana di un’anima che si sa scintilla di Luce immutabile, e che perciò cerca, instancabilmente e talvolta dolorosamente, il divino che è dentro alla caducità della vita.

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La parola, monade finita ma dalle inesauribili possibilità: Serino la tratta come uno strumento musicale, la sceglie con cura, la fa vibrare, riversa all’esterno quell’armonia che può nascere solo dal lasciarsi risuonare.

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Nella sua lunga e proficua stagione letteraria, Felice Serino ha dato alle stampe (e negli ultimi decenni anche al web e al digitale) raccolte poetiche, articoli di storia e critica letteraria, poesie sciolte su blog, social e siti di associazioni culturali. Multiforme è la sua attività redazionale: gestisce personalmente diversi blog (come Assonanze) ed è presente su siti e piattaforme quali Academia.edu, La Recherche, Scrivere e Alessandria Today. E’ stato recensito da nomi celebri del panorama intellettuale italiano e tradotto in varie lingue. Da anni vive e scrive a Torino.

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Tra i suoi scritti poetici si ricordano ancora le raccolte Frammenti dell’immagine spezzata (1981), Di nuovo l’utopia (1984), Idolatria di un’assenza (1994), Fuoco dipinto (2002), La difficile luce (2005), Ad altezze segrete (2017), La vita nascosta (2017), Vita trasversale e altri versi (2019), Sospensioni (2024).

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Donatella Pezzino

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https://poesiaurbana.altervista.org/felice-serino-caffe-letterario/?fbclid=IwY2xjawIKyOtleHRuA2FlbQIxMQABHSdtCtcvwj10WEwV32v-5cycmIo2g7Px82HGOl3JI_nDfsoVjlVumyOE5w_aem_kaloRYvf1rgNmoffGOZx-A

 

Iniziare

Interviste

‍Intervista di Raffaella Amoruso su Plauso

Plauso è lieta di ospitare: FELICE SERINO


FELICE SERINO è nato a Pozzuoli nel 1941. Autodidatta. Vive a Torino. Ha pubblicato varie raccolte: "Il dio-boomerang" (1978), "D'un trasognato dove" (2014).Ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici.

E' stato tradotto in sette lingue. Intensa anche la sua attività redazionale.


PUBBLICAZIONI

 Il dio-boomerang (1978), Frammenti dell'immagine spezzata (1981), Di nuovo l'utopia (1984), Delta & grido (1988), Idolatria di un'assenza (1994), Fuoco dipinto (2002), La difficile luce (2005, anche in e-book), Il sentire celeste (2006, in e-book), Dentro una sospensione (2007, anche in e-book), In una goccia di luce (2008), Cieli interiori (2010, in e-book, raccolta di riflessioni e articoli), Poesie (2010, in e-book), Lacere trasparenze (2010), Cospirazioni di Altrove (2011), Casa di mare aperto (2012), Magnetici occhi ha la notte (2012, in e-book).La luce grida (2012), In sospeso divenire (2013, in e-book), Un lembo di cielo (2013, in ebook), Gli anni ci diranno (2013), Frammenti di luce indivisa (2014, in e-book), D'un trasognato dove -poesie scelte- (di prossima pubblicazione).


Che cosa fai?

Sono in pensione dal 2001 (ex operaio metalmeccanico)

Come ti definisci?

Una persona semplice, modesta.

Qual è il tuo messaggio?

Il mio messaggio vuole comunicare solidarietà con chi soffre, tramite volontariato.

Come nasce un'idea?

Un'idea può nascere da qualsiasi cosa o situazione, che sorprende e ti sorprende.

Che cos'è per te l'ispirazione?

L'ispirazione è uno stato di grazia.

Che cos'è l'arte?

L'arte per me è la bellezza, comunicazione ed espressione che avvicina al divino.

In che circostanze ti vengono le migliori idee?

Le migliori idee mi sorprendono il mattino presto, qualche volta anche in dormiveglia.

Come si deve valutare un'opera artistica?

Un'opera la si deve valutare dal suo pregio di creatività ed originalità. 

L'artista deve reinventarsi ogni giorno?

Certamente, reinventarsi per reinventare la vita nella sua arte di scrittura.

Che artisti ammiri e in che modo hanno influenzato le tue opere?

Artisti che mi hanno influenzato per il fatto che i loro scritti concordano col mio sentire: Jorge Luis Borges, Fernando Pessoa, Tahar Ben Jelloun, Alberto Bevilacqua.

Quanto conta per te pubblicare?

Pubblicare certamente conta e molto, per il fatto che puoi far conoscere ed apprezzare la tua opera tenuta nel cassetto, ed espanderti in campo culturale.

Quanto conta la copertina in un libro?

La copertina di un tuo libro è il tuo biglietto da visita, e certamente è apprezzabile se si presenta bene artisticamente.

Parlaci della tua ultima creazione.

La mia più recente creazione consta in una scelta di una novantina di poesie tratte dalla mia intera produzione quarantennale, che vedrà la luce in una imminente pubblicazione.

Programmi per il futuro?

Per un prossimo futuro conto di bissare con una altrettanto nutrita scelta di poesie per una nuova pubblicazione.

Grazie Raffaella per questa opportunità.


https://plausodiraffaellaamoruso.blogspot.it/.


MICHELA ZANARELLA (intervistata da Felice Serino)

November 12, 2022 by Felice Serino.

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A che età hai scritto la prima poesia?

Mi sono avvicinata alla scrittura poetica non molto tempo fa, infatti la mia prima poesia risale al 2004, all'età di 24 anni. Ho sempre letto molto sin dall'infanzia, ma non avrei mai pensato di riuscire ad esprimermi in versi. Quest'esigenza è nata quasi per gioco, dopo un tragico episodio, un incidente stradale, che mi ha letteralmente cambiato e stravolto la vita. E' stata una sorta di riscatto alla mia voglia di vivere.

Da allora il mio amore per questa forma di scrittura non è mai cambiato, anzi si è radicato in me, diventando sempre più concreto.

Scrivere è una necessità dell'anima e della mente.

Scrivi di getto o per ispirazione?

La maggior parte delle mie poesie nasce d'istinto, non c'è uno studio particolare del linguaggio e della forma, lascio andare le emozioni in modo spontaneo.

Le immagini e le metafore che vedo, sono un ciclo di sensazioni che si integrano tra di loro, fino ad assumere la struttura di versi e parole.

Ogni simbolo si nutre di me, della mia personalità, della quotidianità che vivo.

Quali poeti preferisci e a chi di essi ti ispiri?

Il mio poeta preferito in assoluto è Salvatore Quasimodo.

Sono affascinata dall'essenzialità estrema del suo scrivere. Mi sono avvicinata alla sua poesia dopo aver ricevuto da un amico un libro con tutte le sue opere.

Tant'è vero che passo passo ho iniziato ad approfondire con attenzione la sua tecnica e lo studio sulla parola.

L' ermetismo che lo caratterizza, il modo uniforme e perfetto di fare versi, mi ha così coinvolto, da generare in me una sorta di "dipendenza" al suo stile.

Quasimodo rappresenta una guida necessaria per continuare a rinnovarmi ed aprire nuovi orizzonti

discorsivi.

Non dimentico certo la mia passione per il Decadentismo, movimento letterario sorto nell'ambiente parigino con un preciso programma culturale, in cui il poeta diventa "veggente", raggiunge dimensioni nuove, vaghe, misteriose.

E Paul Verlaine è il poeta che mi ha fatto scoprire la "poesia pura", la poesia svincolata da ogni logica.

Da dove nasce la tua passione per lo scrivere?

La passione per lo scrivere nasce da un desiderio di esprimere in libertà il mio amore per la vita. Bisognosa di lasciare una traccia del mio esistere tra i ricordi del passato, gli attimi del presente, i sogni del futuro.

Un cambiamento interiore mi ha portato a raccontarmi in versi per superare le debolezze e le difficoltà di ogni giorno.

Cos'è che ti ispira nelle tue poesie? ad esempio, la natura o il trascendente?

La natura ed i sentimenti accompagnano fedelmente la maggior parte dei miei componimenti. Le radici venete, i luoghi dove ho trascorso l'adolescenza, i paesaggi provinciali, alimentano costantemente i testi stabilendo un'intesa particolare tra lessico e ambiente.

E l'amore, l'amore fa sempre da protagonista…

Cosa pensi dei concorsi di poesia? E di quelli a pagamento? E delle recensioni?

I concorsi di poesia sono una buona opportunità per mettersi in gioco con se stessi e con gli altri, un modo per affrontare una "prova" sulle proprie capacità di scrittura.

Non sempre dietro ad ogni concorso letterario, c'è la serietà giusta.

Di concorsi a pagamento ce ne sono in quantità, sta al poeta decidere se è giusto o meno dare una quota per la partecipazione.

Personalmente sono più propensa a fare i concorsi gratuiti.

Le recensioni sono un compito abbastanza impegnativo, chi si accinge a farle, deve cercare di esprimersi in modo completo e critico, analizzando in modo esaustivo e soddisfacente il libro.

E degli e-book che ne pensi?

Non sono una grande lettrice di e-book, e forse questo è un limite, perché comunque credo sia un modo pratico ed efficace per avvicinare le persone alla lettura.

L'e-book è un veicolo moderno espressivo che consente al lettore una visione "futurista" della cultura.

Leggi più su cartaceo o in rete?

Io sono ancora la classica lettrice in cartaceo, che ama andare in libreria a scegliere con calma, per me è fondamentale annusare la carta dei libri e toccare con mano la consistenza delle copertine.

Pensi che internet sia un buon veicolo per la poesia?

Internet è un ottimo veicolo per la poesia, e non solo per la poesia.

Dà spazio e voce a chi vuole proporsi e farsi conoscere in tutti i campi.

Ha un meccanismo veloce di spiegare e illustrare con chiarezza ogni argomento, per questo penso che al giorno d'oggi Internet sia indispensabile.

Ti fa piacere che ti leggano o scrivi più per te stessa?

Mi fa piacere che mi leggano, anche se scrivo principalmente per me stessa, per sentirmi una persona libera e autentica.

Non voglio prevalere o oscurare gli altri.

Cosa ti senti di consigliare a un esordiente nel campo della scrittura?

A chi vuole avvicinarsi a questo mondo direi soltanto di scrivere con passione, dimostrando la propria umiltà e la voglia di crescita interiore, senza troppe pretese.

Stai preparando qualcosa? Hai opere nel cassetto?

Vorrei fare qualche altro libro di poesia, e perché no, più avanti provare a cimentarmi in qualcosa di diverso, un romanzo è tra i miei sogni nel cassetto.

Quali pubblicazioni hai al tuo attivo?

Al mio attivo ho quattro pubblicazioni, tre raccolte poetiche ed un libro di racconti. Il primo libro "Credo", ed. MeEdusa, edito nel 2006, il secondo libro "Risvegli", ed. Nuovi Poeti, edito nel 2008, il terzo "Vita, infinito, paradisi", edizioni Stravagario, edito nel 2009 e l'ultimo, la raccolta di racconti "Convivendo con le nuvole", edizioni GDS, pubblicato sempre nel 2009, distribuito solo recentemente.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Per il futuro mi auguro di riuscire a realizzare altri libri di poesia e di evolvermi in altri generi di scrittura.

Grazie per la tua disponibilità!

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FELICE SERINO (intervistato da Gioia Lomasti)

November 5, 2022 .

A che età' hai cominciato a scrivere?

Scrivo da autodidatta dall'età di 24 anni, su internet solo dal 2001, quando, andato in pensione, imparai ad usare il computer.

Come scrivi le tue opere? Di getto?

No, solo qualche rara volta mi riescono di getto; l'elaborazione di un testo può durare dai due tre giorni fino a due tre settimane; qualche poesia in particolare la posso riprendere e rielaborare anche dopo anni.

Qual è la tua atmosfera ideale per la scrittura?

La mia atmosfera ideale è generalmente la mattina presto, o anche appena semi-sveglio, quando qualcosa mi ispira quasi inconsciamente, come fosse il proseguimento di un sogno.

In una parola, cos'è per te la scrittura?

Per me la scrittura è come l'aria che respiro; non potrei farne senza; è esprimere ma mai appieno il mio io interiore.

Cosa traspare dalle tue poesie?

Dalle mie poesie lascio trasparire sentimenti di amore, di scavo interiore, di ricerca dell'uomo e del trascendente.

Perché, secondo te, la poesia ha minor pubblico rispetto alla narrativa, tanto da esser considerata di nicchia?

La poesia, in linea di massima, è per gli addetti ai lavori, i poeti leggono i poeti, è quindi un circolo vizioso, senza sbocchi per la commercializzazione; ma in alcuni paesi non è così, godendo della giusta considerazione.

Forse rispetto alla narrativa è meno "accessibile", perché a volte un po' ostica o ermetica.

A tuo parere, cosa occorre per diventare un bravo scrittore?

Per essere un bravo scrittore bisogna innanzitutto leggere molto, come consigliano sempre "i grandi", e poi avere quel quid del dire non dire, un pizzico di mistero che rapisce tenendo in sospeso il fruitore.

Hai nuovi progetti in cantiere? Puoi svelarci in esclusiva delle news?

I miei progetti? Pubblicare sillogi senza pretese, anche poche copie. La prossima uscirà a breve per Vitale Editore, Sanremo, e s'intitola "Lacere trasparenze". E continuare a espandermi in rete.

Ritieni che internet sia un buon strumento di visibilità' ?

Internet offre moltissime possibilità per farsi conoscere; si, è un ottimo veicolo di diffusione, oggi che i media indiscutibilmente risultano essere il deus ex machina.

Tra poesia e narrativa, cosa scegli e perché?

Tra poesia e narrativa scelgo naturalmente la prima, ce l'ho nel mio dna.

Cosa pensi delle pubblicazioni indipendenti che non fanno capo ovviamente ad una casa editrice ma all'autopubblicazione?

Ho scelto l'autopubblicazione per tre mie sillogi, un bel po' di anni fa. Credo che sia un mezzo ugualmente efficace se ricevi gratificazioni e buone recensioni.

Hai un sogno nel cassetto?

Un sogno nel cassetto? In particolare direi nessuno; spero solo di vivere ancora un po' di anni per affermarmi di più e perfezionarmi.

Grazie per avermi concesso quest'intervista!

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Intervista a Felice Serino (flymoon)

24/02/2012

Felice Serino, alias flymoon, è nato a Pozzuoli nel 1941. Attalmente vive a Torino. Copiosa e interessante la sua produzione letteraria, ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti.

E' stato tradotto in sei lingue.

Intensa e prolifera la sua attività redazionale visibile anche on-line.

Scrive su vari blog, fra cui su My Space, sul trascorso Splinder e su WordPress al presente indirizzo

https://sestosensopoesia.wordpress.com/

Alcune opere sono state pubblicate nel blog de La Mente e Il Cuore, prima che si trasferisse nella rosa degli autori del nostro Salotto di Poesia e Letteratura La Mente e il Cuore

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PREMI PRINCIPALI DI POESIA:

2° Premio Arno d'argento 92, Firenze, Entel Mcl

I° Premio Un Poeta per l'Europa 96, Firenze, Entel Mcl

I° Premio assoluto al Premio per la Pace 01, Cultura e Società, Torino

2° Premio al Concorso Omero-magna graecia 03, Napoli

3° Premio Santo Gringeri 03 – I luoghi del cuore, Pellegrino-Me

2° Premio al Concorso Artenuova 2004, Propata-GE

2° Premio Santo Gringeri 04 – I luoghi del cuore, Pellegrino-Me

I° Premio al Concorso Naz.le Ibiskos 2006, Empoli

2° premio a pari merito al "Premio Renato Milleri (Remil) – Poeta dell'anno" 2007, per merito acquisito nel campo artistico-letterario

2° classificato ex aequo del gruppo dei finalisti al IV Premio "Per non dimenticare Enrico Del Freo" – Centro ENTeL M.C.L. Massa – Carrara 2009

3° Premio Il Golfo 2010, Napoli

I° classificato "Il Golfo", Napoli, febbraio 2011

Tra i vari critici hanno scritto di lui:

Isabella Michela Affinito, Giorgio Bárberi Squarotti, Enrico Besso, Nunzia Binetti, Reno Bromuro, Antonio Catalfamo, Maurizio Cucchi, Ezio Falcomer, MarieChristine Fournier, Silvia Denti, Fabio Greco, Stefano Jacomucci, Maria Lampa, Antonino Magri, Marco Merlin, Carlo Molinaro, Sandro Montalto, Vincenzo Muscarella, Antonio Pugiotto, GianCarla Raffaeli, Filippo Solìto Margani, Luciano Somma, Michela Zanarella, Teresio Zaninetti.

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Dopo aver letto alcune sue opere, ho desiderato conoscere meglio la sua personalità.

Gli ho scritto, invitandolo a concedermi un po' del suo prezioso tempo, ha accettato con mia grande soddisfazione e gioia.

Fra poco sarà qui tra noi e nell'attesa rileggo qualche sua poesia.

Proletari

distinzioni di classi

niente di nuovo la storia si ripete

noi pendolari voi vampiri

dell'industria che evadete il fisco

(imboscando capitali sindona insegna)

ed esponete le chiappe al solleone

sulla costa azzurra o smeralda

(lontani dal nostro morire –

in città-vortice sangue solare

innalziamo piramidi umane

per l'alba di mammona)

dopo aver fatto il bello e il cattivo tempo

(burattinai per vocazione

di questa babele tecnocratica)

averci diseredati crocifissi

con bulloni a catene di montaggio

Da: IL CALENDARIO DEL POPOLO – Poeti operai

[numero monografico n. 730, maggio 2008]

Un'opera che, sebbene risalga al 2008, è sempre attuale per la forte denuncia e la profonda sofferenza espressa, oggi più che mai sentita dai lavoratori.

Nonostante sia rapita e assorta dalle mie riflessioni, odo suonare alla porta de La Mente e il Cuore, vado ad aprire.

Ciao Felice, aspettavo la tua gradita visita, prego accomodati, conosci già la strada.

Sono onorato della gentile accoglienza.

Il camino è acceso, fuori si gela ma qui il calore ammanta il nostro salotto come le nostre anime, è davvero piacevole e confortevole quest'atmosfera, non trovi?

Mi ci trovo veramente a mio agio. E' un calore particolare, tra amici di penna.

Sei una persona e uno scrittore molto conosciuto e stimato, immagino che la mia intervista non ti sorprenda…

Sinceramente un po' sì.

Allora cominciamo, ti confesso che provo una certa emozione. Cosa ti ha indotto a scrivere la tua prima poesia?

Volevo provarlo a me stesso; ma i primi tentativi sono iniziati un po' tardi, verso i 28 anni.

Quali sono stati i sentimenti e le emozioni che hai provato in quel momento e per chi?

Ero mosso da una strana spinta interiore, mai provata prima. I sentimenti che sentivo di esprimere erano dettati da un momento triste della mia vita: la perdita di mio padre.

Puoi citarla?

Veramente non ricordo un solo verso di quella poesia (se vogliamo chiamarla poesia).

Ho letto alcune tue opere ed ho notato che spesso il soggetto è l'amore, definisci questo sentimento e cosa rappresenta per te.

Vorrei definirlo con questi versi; amore come dono di sé, ma anche sacrificio e senso di giustizia.

come un bosco devastato

intristirono la tua infanzia

di pochi sogni

tra trame di tappeti e catene

ancora grida il tuo sangue nei piccoli

fratelli – il tuo sangue che lavò la terra

quel mattino che nascesti in cielo – dimmi –

chi fu a cogliere il tuo dolore adulto

per appenderlo ad una stella?

Questa splendida poesia, dal titolo Iqbal, dimostra una profonda attenzione verso i temi sociali, è un interessamento che ti rende onore.

Cosa potremmo fare, secondo te, perché il mondo sia migliore e non dimentichi nessuno?

Potremmo, e non solo a parole, immedesimarci negli altri, gli abbandonati, i derelitti, i senza tetto, i senza lavoro…preoccuparci di più di essi con opere benefiche e di volontariato, anche se le soluzioni ai problemi mondiali dovrebbero partire dall'alto…

Può la poesia rappresentare un messaggio per il nostro prossimo?

ti so dolce presenza

-tu che visitavi i giardini

del cielo- ti so

dentro di me come

un amico o un figlio

( dal brano A Carlo Acutis)

Una magnifica dedica che ci fa comprendere il tuo credo, quindi hai fede in Dio?

Il messaggio, in qualsiasi modo lo trasmetti, e specialmente nell'arte della scrittura, si può riassumere nella parola amore, come condivisione con l'altro, come fede nella vita e nella creazione, nell'essere spirituale, in Dio.

Hai mai incontrato un angelo su questa terra? In chi l'hai visto?

Un angelo non l' ho mai incontrato, ma l' ho visto nello sguardo di un mendicante all'angolo della strada, con ali invisibili e con un cane a fargli compagnia.

A quale personaggio femminile della storia o della letteratura scriveresti d'amore?

A Simone Weil, che ammiro moltissimo e la cui figura mi ha ispirato più di una poesia.

La vita è poesia, sei d'accordo?

Certamente, meravigliosa e drammatica insieme.

Ed è anche un insieme di momenti di luce ed ombra, qual è il tuo attimo impresso nella mente e nel cuore in modo particolare?

Non saprei. Ma un attimo particolare impresso nel cuore resta senz'altro il momento (tardivo) in cui ho conosciuto mia moglie, e la mia vita ha avuto una svolta.

Hai scritto una poesia a riguardo? Vuoi condividerla?

Certo. Eccola:

MOMENTO

ad Angela

[ispirata in dormiveglia il 28.10.2007, a 48 ore dal mio 66° genetliaco]

torpore:

velo di tenebra sugli occhi

mano che ti muore nella mano

ed è bellezza anche questa:

minimo ritaglio dell'eterno

Attribuisci un aggettivo o una sensazione ai quattro elementi, fuoco, terra, aria, acqua.

Mi sono interessato un po' di astrologia, anni fa. Gli elementi, in sintesi, sono la vita, l'universo: il fuoco è ardore, la terra concretezza, l'aria dispersione, l'acqua introspezione e sensibilità.

Quale di questi elementi paragoneresti a te stesso, al tuo poetare e perché?

Senza dubbio all'elemento acqua (appartengo al segno dello scorpione, acqua come elemento): sensibilità e profonda introspezione sono peculiarità del mio poetare.

Se dovessi rivolgerti ai tuoi lettori, a cuore aperto, cosa gli diresti?

Mi sento gratificato della vostra attenzione e dei vostri elogi, che non sento di meritare.

E ai giovani?

La cultura è un elemento basilare nella vita; non si finisce mai di imparare, di conoscere. Leggere sempre, non disperdersi in cose futili che lasciano il tempo che trovano.

Quanto ti ha dato la poesia?

Tanto. Da oltre quarant'anni mi dedico alla poesia, dalle prime stroncature di giudizi ad alcune affermazioni in concorsi, che mi hanno dato lo sprone dopo periodi di delusioni. Devo dire che sono stato ripagato abbondantemente. La poesia mi ha sollevato anche da alcuni periodi di depressione, quindi sono io che devo molto a lei.

A quale scrittore ti senti più vicino e perché?

Mi sento vicino, con le debite distanze, al grande Jorge Luis Borges. Un poeta surreale e visionario, i cui temi riconducono all'Enigma, all'Infinito, al chi-siamo-dove-andiamo ("… presto saprò chi sono" è un suo verso che mi affascina).

La MC ti gratifica?

Si, mi gratifica molto perché ho incontrato persone speciali con cui confrontarmi.

Cosa vorresti esprimere alla nostra redazione?

Un semplice ma grande grazie insieme a molta riconoscenza a tutto lo staff!

Felice, secondo te cosa è preferibile, amare e soffrire o non amare per non penare?

Certamente amare anche soffrendo, altrimenti la vita non avrebbe finalità né senso.

C'è davvero una netta differenza fra sogno e realtà?

No, secondo il mio sentire, non esiste una netta differenza, dal momento che ritengo la realtà nient'altro che un'apparenza ("la scena del mondo", come dicono i Vangeli), una rappresentazione, come il sogno, appunto.

Immagina di dover partire improvvisamente, cosa porteresti con te?

La Bibbia.

Ed ora donaci un pensiero…

Ecco un pensiero di "lettura/scrittura" di un po' di tempo fa:

Capita, a volte, leggendo un brano di trovarti specchiato nella profondità di quel pensiero espresso dall'autore e di riconoscervi quanto si era agitato nella tua anima attendendo di adagiarsi sul bianco della pagina: proprio perché quel pensiero, collimando col tuo, ha reso più chiara e più forte la profondità di quella intuizione che hai colto dal tuo inconscio, esplorando gli anfratti della tua memoria sensoriale, ed affermandola nel portarla alla luce.

E' però significativo (ed è più che naturale) che ciò avviene dopo, in una verifica a posteriori, e non prima quando potresti lasciartene influenzare, col risultato di una cosa artefatta, mancante di originalità.

E' una sorta di transfert – comunicazione misteriosa e inconscia della creatività.

Traspare chiaramente dalle tue risposte, una grande personalità, pregna d'amore, d'attenzione verso il prossimo e alle problematiche sociali, arricchita da una profonda sensibilità verso la vita, i sentimenti e i valori che associ a ogni sua singola espressione.

Riconosci l'essenza del sentimento puro negli occhi di un mendicante, di chi soffre ai confini della società, per questa ragione ami la natura nella sua variegata complessità, sapendone cogliere l'attimo e il senso.

Sei un uomo saggio, raccogli nella tua anima, come gemme preziose, le esperienze altrui e ne fai frutto intrecciandole umilmente alla tue.

Hai la capacità di alleviare il dolore attraverso la poesia, sempre guidato dalla fede che ti fa corazza.

Posso affermare, con certezza, che sei un uomo e un poeta d'Amore, ed è sicuramente per questo che sei riuscito a esprimere ciò che di più bello palpita nel tuo cuore, perfettamente compreso e ammirato da coloro che hanno inteso premiare più volte, e in diverse occasioni, le tue opere, tutte d'elevato spessore emozionale, artistico e lessicale.

Come un irradiarsi di cieli

chiedere a Dio quella protezione

che il mondo non può dare

rifugiarti a quel nido dove

Egli attende come una madre

il suo piccolo perduto

nuda allo scoperto

sei creatura nata per la terra

-ma del cielo dove

sempiterna dimora

Compassione

Ringrazio di cuore Felice Serino per avermi concesso l'onore di approfondire la conoscenza del suo sconfinato spirito di uomo e poeta, astro d'un cosmo tutto da scoprire e contemplare.

Gelsomina Shayra Smaldone

….

Eccellente intervista ed eccellente Shayra! Voglio esprimere la mia riconoscenza a MC per aver permesso di farmi conoscere un po' più a fondo.

Un grande abbraccio!

Felice

Intervista splendida questa tua Shayra, che mi permette di scoprire un autore a me conosciuto solo attraverso i suoi profondi quanto interessanti e bellissimi versi e che invece ora posso "vedere" anche come persona dalle mille sfumature e prospettive di poeta. Un graze ad entrambi e complimenti!

NellAnimaMia

,

Molto bella questa intervista, che sembra fatta davanti ad un camino dove scoppietta allegramente la legna che arde. Più che un'intervista una vera chiacchierata confidenziale dove Felice si apre con tanta semplicità e ci da modo di conoscere la sua persona in maniera più approfondita, visto che fino ad ora era celata dietro al suo nick ed alle sue splendide poesie. L'ho letta con moltissimo piacere e grande interesse.

Complimenti ad entrambi

Patrizia

Cara Shayra, è una bellissima intervista quella che ti ha concesso Felice. E mi fa piacere conoscere meglio la persona che si cela dietro il suo nick flymoon, perché finora il tutto era limitato ai suoi, seppur splendidi, versi.

Complimenti ad entrambi.

Dany

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LA MENTE E IL CUORE (BLOG)


 

 

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Saggi brevi

FELICE SERINO

PROFILI

Questi Profili (opera segnalata al Concorso Il Convivio 2018), di personaggi noti e meno noti bagnati dal crisma della bellezza, hanno un filo spirituale che li lega, ed è l’amore nel campo della poesia e dell’arte.

*

DINO CAMPANA, IL DEMONE CREATIVO E LA NOTTE

A Dino Campana

Ritorna, che cantar canzone di voto

dentro l’acqua del Naviglio io voglio

perché tu sia riesumato dal vento.

Ritorna a splendere selvaggio

e giusto ed equo come una campana,

riscuoti questa mente innamorata

dal suo dolore, seme della gioia,

mia apertura di vento e mio devoto

ragazzo

che amasti la maestra poesia.

Alda Merini

La voce poetica che si apre verso le esperienze liriche che caratterizzano il dopoguerra è, senza dubbio, quella di Dino Campana. Egli rappresenta un caso a sé in tutta la letteratura italiana. Giudizi e accuse hanno accompagnato questo “alchimista” di versi del primo Novecento anche dopo la morte. “Alzai la testa e ricercai la stella / Avvelenata sotto cui sono nato”: questi due versi rivelatori sono la terribile sentenza che suggellò il suo destino. La vicenda stessa di quest’uomo appare come una lunghissima stagione di follia indomabile. Lo stesso Campana può riassumere la sua biografia in poche righe, in una nota trovata tra le sue carte dopo la morte: “Dino Campana nacque il 20 agosto 1885 in Marradi […].All’età di 15 anni, colpito da confusione di spirito, commise in seguito ogni sorta di errori ciascuno dei quali egli dovette scontare con grandi sofferenze”. Il padre era maestro elementare; la madre, Fanny, casalinga. Il fratello di Fanny, affetto da pazzia, viveva sotto lo stesso tetto quando già era nato Dino. Tutto il paese darà valore alla “ereditarietà”, stabilendo una connessione tra zio e nipote. Nel 1888 nasce il fratellino Manlio. A seguito di tale evento Fanny, per evitare ulteriori gravidanze, rifiuta ogni rapporto coniugale. Il marito, nel giro di qualche mese cade in depressione e deve essere temporaneamente internato nel manicomio di Imola. Fanny riversa tutte le sue cure al neonato, ignorando deliberatamente Dino. Il ragazzo si chiude in se stesso, scoprendo la gelosia fraterna e un odio aperto per la madre. Segue i corsi ginnasiali a Faenza, presso il Convitto Salesiano ma con scarso profitto.Nel 1897 si iscrive al Ginnasio-Liceo “E. Torricelli”. Colto da disturbi nervosi,deve tornare a Marradi, dove continua privatamente gli studi. Ricominciano gli scontri con la madre. Oltre al disadattamento ambientale, ora è oggetto di scherno da parte dei coetanei. Dino resta fuori casa quanto più può, si apparta, si rifugia nei boschi a contatto con la natura, legge, si nasconde nei fienili per interi giorni senza toccar cibo. Ogni volta che discende in paese, lo scherniscono, e allora il ragazzo s’identifica, perversamente, nel personaggio del pazzo. Nel 1903 s’iscrive a chimica pura a Bologna, ma passa subito a chimica farmaceutica presso l’Istituto di Studi Superiori a Firenze, per poi tornare a Bologna. La difficoltà di adattamento alimenta le turbe nervose che rendono necessario, nel 1906, un primo ricovero in manicomio, ove resta però pochi mesi soltanto, per intervento del padre. A 19 anni, Dino prende il primo treno per il nord. Sarà a Milano, poi in Svizzera, infine a Parigi, ove acquisisce conoscenze di pittura moderna che affioreranno nella sua opera letteraria. I viaggi disperati sono quelli di un eterno fanciullo, rapito nell’anima dal demone della poesia: “Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta un’ansia del segreto delle stelle, tutto un chinarsi sull’abisso. Ero bello di tormento, inquieto, pallido assetato errante dietro le larve del mistero…”.

Campana conosce in terra francese i poeti “maledetti” Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. Più volte lo fermano per vagabondaggio. Per sbarcare il lunario fa i più svariati mestieri. Infine torna a Marradi, ma per poco. Ama troppo la vita da nomade, l’aria aperta, la vastità delle valli coi suoi echi e i suoi silenzi rispecchianti i paesaggi segreti dell’anima, e che gli aprono il cuore sull’infinito. Ha compiuto 22 anni. Compone le poesie che formeranno i Canti orfici. La raccolta sarà ultimata nell’autunno 1913. Nella sua poesia visionaria sembra trasparire un rapporto spirituale con quella di Rimbaud. Si è molto insistito, all’inizio, sull’influenza del poeta francese, ma essa è stata giustamente rimessa in discussione dalla critica più recente. Nella poesia di Campana, la Notte è il suo simbolo visivo. E in essa appaiono lampeggiamenti, immagini frantumate… Egli cerca il risarcimento della sua fame di vita in una poetica dilacerata, sia come simbolo di bellezza ideale, sia come incarnazione di una condizione umana che fa di lui uno sradicato, un anarchico. Scrive Galimberti che Campana fu poeta “nel segno della poesia come vita”. Emilio Cecchi parla di “un esempio di eroica fedeltà alla poesia: un esempio di poesia davvero col sangue”. E il critico Angelo R. Pupino (1): “Lo stravolgimento allucinato della parola e trasformazione di questa in oggetto, avviene nel raggio di un non cospicuo numero di immagini-simboli (erotiche, soprattutto) che subiscono alcune variazioni e molte reiterazioni. Alla fine, l’impressione è di una forte componente letteraria, anzi intenzionalmente e sacerdotalmente poetica “. In Argentina, dove resta per poco, Campana svolge vari lavori per vivere. E’ in Olanda, Belgio, attraversa a piedi intere regioni. Viene arrestato per vagabondaggio e trascorre due settimane nel manicomio di Tournay. Torna a Marradi ancora una volta, per poco tempo, nel 1908. Vaga ancora, spirito inquieto e tormentato. Questa sua ansia di muoversi, di cambiare luogo corrisponde a un motivo profondo della sua poesia: il viaggio (soprattutto interiore), il senso di evasione dalla condizione presente, l’inseguire qualcosa (una Chimera) che non potrà mai essere raggiunto. Dino si reca a Firenze nel dicembre 1913, con in tasca il manoscritto dei Canti Orfici, e si presenta alla redazione di “Lacerba”, dove incontra Papini e Soffici che dirigono la Rivista.Frequenta intanto il gruppo di artisti e letterati che si riuniscono al caffè delle “Giubbe Rosse” e alla birreria “Paszkowski”. Tempo dopo scrive a Soffici per avere indietro il manoscritto, ma l’artista lo ha perduto durante un trasloco. L’episodio penoso sconvolge Campana, il quale, prossimo al collasso nervoso, ne ricompone a memoria la seconda stesura, deciso pubblicarlo. Gli editori a cui lo invia, lo ignorano, così egli in estate si decide a stamparlo a spese proprie, presso il tipografo Bruno Ravagli. Torna a Firenze dove vende personalmente il libretto nei caffè e nei luoghi pubblici, firmando il volume o strappando qualche pagina a seconda che l’acquirente gli sia “simpatico” o “antipatico”. Estimatore, con alcuni altri, della novità della poesia di Campana, è lo stesso Soffici. Silenzio, al contrario, da parte della critica. Deluso, Dino parte per la Svizzera, in cerca di lavoro. Intanto l’Italia entra in guerra (1915). Dino pensa di arruolarsi ma viene riformato. La delusione si trasforma in mania di persecuzione.

Si ammala di nefrite, reni infiammati. Mentre si trova a Genova, colto da una paralisi al lato destro. In settembre, viene curato in ospedale, a Marradi, per la nefrite e l’infezione luetica. Guarisce ma rimane preda di deliri e acute cefalee. Sviluppa un delirio persecutorio nei riguardi dei letterati fiorentini. La famiglia Campana si trasferisce intanto a Signa, presso Firenze. Dino si sente finito; il destino lo sovrasta come una spada di Damocle. Ha dato tutto al demone creativo; ora erra senza pace, l’anima lacerata… Ed ecco che quel destino (“stella avvelenata”) contro il quale egli impreca, deve riservargli un’ultima esperienza consistente in una felicità effimera che però si tramuterà in struggente dolore: il fatale incontro con Sibilla Aleramo (2). E’ l’estate del 1916. Nasce un amore disperato e divorante, ma anche trasfigurato in un alone di magia lirica: “Vi amai nella città dove per sole / Strade si posa il passo illanguidito / Dove una pace tenera che piove / A sera il cuor non sazio e non pentito / Volge a un’ambigua primavera in viole / Lontane sopra il cielo impallidito”. Un amore passionale che lo travolge; è come un incendio dei sensi, una fiammata. Infatti dura poco, meno di un anno. Per lui è il colpo definitivo; cade in delirio, si dà al bere, va spesso in escandescenze. Durante un episodio persecutorio, è fermato in stato di etilismo e trasferito al manicomio di San Salvi di Firenze. Da lì, il 18 marzo è inviato in internamento al manicomio di Castel Pulci. Ormai in questi posti si può dire che “è di casa”. E’ preda di visioni e di violenti deliri.

Ma non è da escludere che a condurlo in quello stato abbiano contribuito i rudimentali elettroshock n uso allora, che portano allo sfacelo della psiche. Dino è interrogato e “tormentato”, per tre anni consecutivi, dallo psichiatra Carlo Pariani (poi suo medico e futuro biografo). Finalmente nell’autunno 1930 viene ritenuto guarito.Ma ecco il cerchio si chiude: Campana muore il I° marzo 1932, per “setticemia primitiva acuta”. Almeno, questa la diagnosi; ma la verità, nei suoi riguardi, sembra ancora una volta negata: si dice che in realtà egli fosse morto per una ferita procuratasi scavalcando un recinto di filo spinato. Persino le sue spoglie devono peregrinare, fino a quando, nel 1946 saranno traslate nella chiesa di Badia. Dopo la morte, 43 composizioni vengono trovate per caso, trascritte su un quaderno. Saranno poi pubblicate in Canti Orfici e altri scritti (Vallecchi 1952), a cura di Enrico Falqui.

Chiudiamo questo breve excursus sulla vita e l’opera di Campana con le parole di Carlo Bo, che nell’introduzione ai Canti Orfici scrive: “La poesia ha continuato per altre vie, ha avuto illustri pretendenti ma non ha più coinciso con il destino di un uomo, così come era accaduto con Campana. Ecco perché va ripetuto che Campana resta l’ultimo poeta, il poeta toccato e divorato dal fuoco, il poeta che è entrato per sempre nel cuore stesso della notte e non ne è più uscito”.

NOTE (1) Letteratura mondiale del 900, 3 voll., Edizioni Paoline 1980. (2) Della scrittrice (18761960) s’innamorarono anche, a quanto ci risulta, Giovanni Papini, Vincenzo Cardarelli e Salvatore Quasimodo.

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DYLAN THOMAS: VIAGGIO ALLA FINE DELLA PROPRIA FERITA

Venere giace nella sua ferita,

colpita da un astro e le rovine sensuali creano

stagioni sopra il liquido universo.

Il bianco spunta nelle tenebre.

Il suo vero nome era Dylan Marlais. Dylan starebbe a significare: “Figlio marino dell’onda”. Il Nostro nasce a Swansea (Galles) il 27 ottobre 1914. La sola educazione formale che Dylan riceve è alla Swansea Grammar School che frequenta tra il 1925 e il 1931. Il padre, poeta egli stesso, è insegnante presso questa scuola. Il ragazzo non s’iscriverà all’università.Durante un breve periodo lavora come cronista presso un giornale locale, il “South Wales Daily Post”, e in questo stesso periodo pubblica le prime poesie. Presto si reca a Londra, ove entra a far parte di un circolo letterario che si raduna nella Charlotte Street a Bloomsbury. Tra le poesie pubblicate, e premiate, dal periodico “Sunday Referee” – a cui egli collabora – vi sono quelle della poetessa e narratrice Pamela Hamsford Johnson, con cui a partire dal 1933 Dylan inizia una fitta corrispondenza che sembra sfociare, dopo il primo incontro nel febbraio dell’anno seguente, in un legame sentimentale. Conosce in quello stesso anno il poeta gallese Vernon Watkins, che resterà uno dei più sinceri e disinteressati amici della sua vita. Già prima dei vent’anni Dylan comincia a bere smodatamente, asciandosi dominare letteralmente dall’alcool.A Penzance, in Cornovaglia, nel luglio 1937, egli sposa l’irlandese Caitlin Macnamara, modella del pittore August John, che l’ha presentata al poeta alcuni mesi prima. Dylan racconterà poi che appena dieci minuti dopo le presentazioni, sono già a letto insieme. Nell’agosto 1938, Thomas si stabilisce con la moglie a Laugharne, nel Carmarthenshire, in una casa di campagna vicino al mare, luogo denominato “Sea View” in cui sarà ambientato il “Dramma per voci” (Under Milk Wood, 1954). Dal 1941, egli lavora saltuariamente presso l’industria cinematografica e successivamente per la BBC con una serie di letture radiofoniche.Le sue opere poetiche Eighteen Poems 1934, TwentyFive Poems 1936, e alcune poesie di The Map of Love 1939, contribuiscono a dar vita al movimento denominato “The New Apocalypse”. Tali poesie, molte delle quali surrealisticamente oscure, visionarie, presentano un indubbio talento nel trattamento del ritmo e nel sapiente uso delle metafore. Dove maggiore è la capacità di controllare l’impeto creativo, è tuttavia da rilevare in Deaths and Entrances, del 1946. “Nell’inevitabile contrasto di immagini”, dichiara Thomas, “io cerco di ricreare quella pace che dura un attimo e che è una poesia”.Detto per inciso, la pubblicazione, ultima, dei Collected Poems 19341952 ( del 1952), raggiungerà la tiratura di 10 mila copie. Egli nasce predestinato a un successo duraturo, soprattutto post-mortem. Nella primavera del 1947, Dylan Thomas si ferma per qualche settimana in Italia, a Villa Beccaro, Scandicci (Firenze), dove tuttavia non si trova a proprio agio. Qui sostituisce l’enorme quantità di birra a cui è abituato, al vino italiano, con una conseguente ebbrezza che lo coglie molto prima, e la cui causa è un immaginabile squilibrio psichico.Conosce poeti di fama come Mario Luzi, Ottone Rosai, Piero Bigongiari, Eugenio Montale. Giovanni Papini definisce la poesia di Thomas come “l’opera di un ubriaco irresponsabile”. Nel marzo 1949, il Nostro torna a Laugharne, dove si trova a dover affrontare il problema di enormi rretrati di tasse da pagare. Nell’autunno 1953 riceve il premio Etna-Taormina.

In ottobre si reca per l’ultima volta in America (vi era già stato per brevi periodi negli anni 1937 e 1952), dove lo coglie la morte per delirium tremens, a New York, nel Saint Vincent Hospital, il 9 novembre. La diagnosi è: intossicazione alcolica delle cellule cerebrali. Il 24 novembre le spoglie di Dylan Thomas vengono sepolte nel cimitero di St. Martin a Laugharne. Da rilevare, che nell’anno 1982 è stata collocata una lapide in suo onore nell’ Angolo dei poeti dell’Abazia di Westminster, a Londra.

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L’opera thomasiana è definita caotica e ineguale. A volte la poesia sbocca nelle forme della preghiera o dell’inno; si vedano i “canti d’innocenza” o quelli del gruppo comprendente 12 frammenti di “Visione e preghiera “, che inizia con questi versi: “Chi / Sei tu / Che nasci / Nella stanza accanto / Alla mia con tanto clamore / Che io posso udire l’aprirsi / Del ventre e il buio trascorrere / Sopra lo spirito e il tonfo del figlio / Dietro il muro sottile come un osso di scricciolo? / Nella stanza sanguinante della nascita / Ignoto al bruciare e al girare del tempo / E all’impronta del cuore dell’uomo / Nessun battesimo si curva, / Ma il buio solamente / A benedire / Il barbaro / Bimbo”. (L’intero poemetto è diviso in due parti; i primi sei frammenti sono a forma di losanga, i secondi a calice). Sovente nella sua opera poetica pare che l’autore giochi sul caos e sul filo dell’ambiguo “per invogliare la critica ad arrendersi o a una condanna o a una accettazione incondizionata” (Gabriele Baldini nell’introduzione a “Poesie”, 1974). Ma di tutto si può accusare questo “alchimista” della parola, tranne che di faciloneria e di improvvisazione. Il tema di fondo è quello della recherche di un tempo infantile, d’innocenza, e l’ossessione è quella dello scavare in profondità nell’alveo primordiale della nascita, come viaggio doloroso verso l’altra “nascita” che è implicita nella morte. (“Dopo la prima morte non ce ne sono altre”: è l’ultimo verso di “A Refusal”). Si contano vari traduttori della sua opera poetica e in prosa che si sono cimentati nel difficile compito di interpretarla. Fra questi vogliamo citare, nel chiudere questo breve excursus, Eugenio Montale: “La forza che urgendo nel verde calamo guida il fiore, / Guida la mia verde età; quell’impeto che squassa la radice degli alberi // E’ per me distruzione. / E muto non so dire alla rosa avvizzita / Che questa febbre invernale piega anche la mia giovinezza. // La forza che guida l’acqua fra le rocce, / Guida il mio rosso sangue; quella stessa che asciuga le sorgenti che gridano, // Le mie raggruma / (…). La lirica [di Thomas] non ha un linguaggio da comunicare”, scrive Alfredo Giuliani, “è essa stessa il più alto e comprensivo messaggio possibile, informazione magica faticosamente raccolta dall’autore (…) la poesia sta ferma, romba dentro se stessa come una pietra cava, tutte le lacerazioni si rimarginano nel tessuto sonoro, sono soltanto figure del disegno elegiaco e celebrativo”.

Nota – Per la vasta bibliografia si veda “Dylan Thomas – Poesie”, Oscar Mondadori 1974, o anche “Letteratura mondiale del 900”, Edizioni Paoline 1980.

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VINCENZO CARDARELLI, IL POETA DELLA SOLITUDINE

Il I° maggio 1887, a Carneto Tarquinia, zona maremmana, in provincia di Viterbo, nasceva Vincenzo Cardarelli, all’anagrafe registrato col cognome materno, Caldarelli (poi modificato) e col nome di Nazzareno. Il padre, che non appare nell’atto di nascita, teneva in casa Giovanna Caldarelli, la quale si guadagnava da vivere con la raccolta e la vendita di frutta e ortaggi. Dopo la nascita del piccolo, la donna fu messa alla porta e il figlio non venne riconosciuto. Un marchio che segnò a fuoco la vita di Vincenzo: “Io nacqui forestiero in maremma…e crebbi come un esiliato. Non ricordo la mia famiglia né la casa dove sono nato”. Più tardi il padre si risposò e il ragazzo conservò negli anni un buon ricordo della matrigna.Tuttavia la sua fu un’infanzia triste e inquieta: “Io avevo un vasto tesoro di sensazioni e di sentimenti; la mia infanzia. Fu come se una libecciata furiosa l’avesse dispersa. Io vissi in arida solitudine…Nascita, indole, educazione, tutto contribuì a fare di me un uomo amato da pochi, ingiuriato dai più, e compreso veramente da nessuno”. (Solitario in Arcadia, 1947). Il giovane cresce plasmando un carattere guardingo e permaloso, cinico e avvelenato. E’ tuttavia dotato di una sensibilità e un’intelligenza vivissime. Si sente subito perduto quando, concluse le elementari, il padre non gli consente più di continuare gli studi. A 17 anni scappa da casa, giunge a Roma con 7 lire in tasca. “Cercai la scuola nella vita, nel mondo”. Si adatta, per vivere, alle più umili occupazioni. In tali condizioni di vita, dove non v’è posto per studi regolari, la sua cultura è il frutto di un accanito impegno di autodidatta. La sua natura poetica emerge sicura. Nel frattempo conduce una vita precaria ed errabonda, di isolamento e solitudine. Nel 1908 entra, grazie ad aiuti, nella redazione dell’Avanti! come articolista. E’ un periodo di fertilità ed entusiasmo; scrive anche due articoli al giorno. E’ instancabile. “Le mie giornate sono / frantumi di vari universi / che non riescono a combaciare. / La mia fatica è mortale”. Rimarrà in redazione fino all’ottobre 1911 allorché la sede viene trasferita a Milano. Fra gli anni 1910-1911 collabora a riviste e quotidiani quali Il Marzocco, La Voce, Il resto del Carlino, e frequenta il caffè Paszkowski insieme ad artisti e letterati emergenti. Ma il suo fisico è minato ed è necessario il ricovero al Policlinico. Soffre di turbe gastriche, dolori renali, e spesso è preda di crisi depressive con irascibilità o prostrazione. Si tuffa nelle letture di Nietzsche, Leopardi, Pascal, formandosi culturalmente nel periodo di tempo necessario per rimettersi in salute. Se si vuole cercare una presenza femminile, l’ “amore” – l’unico – nella vita solitaria di Cardarelli, questa è Sibilla Aleramo. Egli se ne innamora subito, subendone tutto il fascino. Segue un periodo di convivenza con lei, a Firenze. Questa tormentosa passione amorosa che lo lascia quasi stravolto, non è altro che una fiammata: presto i due amanti si rivelano l’uno l’antitesi dell’altra: lei tutto istinto e passione, lui dalla naturale introversione che finisce per trincerarlo in difese e razionalizzazioni nevrotiche. Egli considera la “donna” come mistero adorabile, inafferrabile. “Io non crederò mai nella donna. Questa è la mia dannazione”. Il problema donna per Cardarelli diviene sinonimo di nevrosi, ed egli si lascia afferrare dalla misantropia, risucchiare dal vuoto esistenziale: “queste ombre troppo lunghe / del nostro breve corpo, / questo strascico di morte / che noi lasciamo vivendo/…/; mi sono sempre alzato da una disfatta…il segreto delle mie conoscenze è l’insoddisfazione”.Ha inizio un lungo vagabondare di luogo in luogo. Egli vive in camere d’affitto o ospite di amici. Dalla sua sensibilità e il suo spirito nomade, nasce una poesia autobiografica ed elegiaca: Profughi, Viaggi nel tempo, dove è rappresentato il bisogno di interrogarsi sul perché dell’esistenza. Frequente è la dedica ai suoi luoghi natali: “Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, con gli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille, il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso. Ma rimase seppellito, il solitario orgiasta, nella propria favola luminosa.

Benché la gran madre ne custodisca un ricordo così soave che, dove l’Etruria dorme, la terra non fiorisce più che asfodeli”. Collabora a La Voce e a Lirica; infine torna a Roma, dove fonda la rivista La Ronda che vede la luce nell’aprile 1919 (e vivrà fino a novembre 1922). La sua vena lirica, altissima, rievoca l’infanzia, l’amore per la campagna, le figure femminili, le stagioni nel loro mutare, il senso del tempo; il suo pessimismo di matrice leopardiana si nutre del tema della morte: “lasciatemi rivedere la mia terra, lasciatemi andare una notte a dormire con i morti”. Nascono le prose di Il sole a picco, premio Bagutta (1929), Il cielo sulle città, I Viaggi. Un altro tema caro alla sua sensibilità di poeta è quello del viaggio (reale o metaforico). Egli è “esule ovunque”. Ha scritto giustamente Luzi: “Noi sapremmo interpretare il nomadismo e le fughe del Cardarelli se non destinate dalla qualità della sua stessa sintassi spirituale (…) la sua vita psicologica assume una rapidità ed una gravità drammatiche: ogni incontro diviene un avvenimento fatale, ogni separazione un addio per l’eternità”. “Sento la poesia come sostanza, idee, concetti, situazioni poetiche, piuttosto che come puro linguaggio”, scrive il Nostro in Giorni in piena (1934). “A quella sua idea di poesia”, leggiamo da Alberto Frattini, “Cardarelli rimarrà sempre fedele: dalle sue più famose liriche – come Adolescente o Estiva, Liguria o Alla morte – ove nel linguaggio vigile e teso il tono pacatamente familiare trascolora e s’impenna su punte di misurata aulicità e la musica si sostiene a filo di un’acre intelligenza, di una macerata inquietudine, alle poesie d’amore – tra le più belle del nostro Novecento – ove il tessuto autobiografico è decantato e redento in rara levità di movenze, ariose e malinconiche, sino alle poesie del ’47, nel cui tono medio, “pianissimo e intenso” il De Robertis indicava la vera scoperta dell’ultimo Cardarelli”. Nel 1949 gli viene affidata La Fiera Letteraria, che dirige fino al 1955 (ma specialmente negli ultimi anni, solo nominalmente): una strana malattia ai centri nervosi condizionanti lo stato termico del corpo, non gli consente quasi più di lavorare. Lo si vede in piena estate, seduto al caffè Strega, in via Veneto, ancora col cappotto e cappello. E’ il poeta che ha già affermato: “Ora la mia giornata non è più / che uno sterile avvicendarsi / di rovinose abitudini / e vorrei evadere dal nero cerchio…/ E sogno partenze assurde, / liberazioni impossibili…/ Io annego nel tempo”. E’ il 1959 e la salute gli ha voltato le spalle: isolato in una pensione romana, quasi non può più fare movimenti fisici. Il 15 giugno, dopo la degenza di un mese, assistito dalla sorella, muore al Policlinico di Roma. A testimonianza del suo animo perennemente inquieto e sradicato, ci lascia questi versi memorabili: “Non so dove i gabbiani abbiano il nido / ove trovino pace. / Io son come loro / in perpetuo volo. / La vita la sfioro / com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. / E come forse anch’essi amo la quiete, / la gran quiete marina, / ma il mio destino è vivere / balenando in burrasca”

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SIMONE WEIL, IL FUOCO DELLA VERITA’

Personalità dal carattere forte e volitivo, che per la sua fede nella verità fu spesso pietra d’inciampo e che eccelse in coerenza fino al limite dell’estremismo più radicale, Simone Weil nacque il 3 febbraio 1909 a Parigi. A 14 anni attraversa una crisi di sconforto adolescenziale (“ho seriamente pensato a morire a causa della mediocrità delle mie facoltà naturali”). A 21 le si manifestano quelle cefalee che la faranno soffrire atrocemente sino alla fine della sua vita. (“Il mio impulso, nelle crisi di mal di testa” – confessa – “è colpire qualcuno alla testa��). Un estremo sforzo di attenzione le permette di lasciar soffrire la carne ” per conto suo, rannicchiata in un angolo”. All’inizio degli anni ’30, quando milita nei ranghi del sindacalismo rivoluzionario, la Weil professa un antimilitarismo radicale. “Il patriottismo (…) non tende ad altro che a trasformare gli uomini in carne da cannone” (1). Professoressa al liceo di Auxerre, Simone nel dicembre ’34 non disdegna di sperimentare il lavoro manuale, prestando opera come manovale presso Alsthom (società di costruzioni meccaniche) a Parigi (“lavoro durissimo, calore insopportabile, fiamme che lambivano le braccia…”). L’anno seguente la Weil lavora come fresatrice alla Renault. A settembre, in Portogallo, nel villaggio Pavoa do Varzim, a 80 chilometri circa a nord di Porto, ella percepisce l’affinità tra Cristo e i più poveri, scoprendo il cristianesimo nella sua dimensione più vera e straziante. Quella data, 15 settembre, è la festa patronale di Nostra Signora dei 7 Dolori. Nell’agosto ’36, Simone Weil s’impegna nella guerra civile in Spagna nelle file degli anarcosindacalisti. Partita per prendere parte a una rivoluzione, ella si rende conto di non far altro che partecipare a una guerra. L’anno seguente, Assisi è la prima delle tre tappe della sua conversione. “Fu una volta che ero intenta a recitare la poesia Love” [di George Herbert, n.d.a.] – scrive – “che Cristo stesso è disceso e mi ha presa”. Da allora la poesia diventa preghiera. La sua conversione assume contorni più netti durante il soggiorno all’abbazia di Solesmes, nella settimana santa. Ha allora 29 anni. Nella primavera del ’40, Simone conoscerà le Bhagavad Gìta, dalla cui lettura riceverà, per sua ammissione, un’impronta permanente. Su consiglio di René Daumal ella si avvierà allo studio del sanscrito, lingua originale del testo sacro. Dopo aver lasciato Parigi, il 13.6.1940, giorno in cui la capitale francese viene dichiarata “città aperta”, Simone in settembre s’installa a Marsiglia e prende contatti con gli ambienti della Resistenza. La rete alla quale appartiene viene scoperta, e nella primavera del ’41 ella viene interrogata per quattro volte dalla polizia. Ogni volta si aspetta di venir arrestata e prepara la valigia con alcuni vestiti… Resterà fino al marzo ’42 alla base dell’organizzazione e della diffusione dei quaderni clandestini della Resistenza, i Cahiers du Témoignage chétien per i sei dipartimenti del Sud-Est. Nel giugno ’41, Simone va a trovare padre Joseph-Marie Perrin presso il convento domenicano a Marsiglia, dietro richiesta di questi di conoscerla; lei gli chiede di voler fare l’operaia agricola, e il frate la indirizza da Gustave Thibon a Saint Marcel d’Ardeche. La Nostra si appassiona al Tao Te Ching e studia le Upanishads. Impara a memoria il Pater in greco; inoltre s’interessa molto di Platone e riconosce in lui un mistico, vero testimone di Dio. L’incontro con Lanza Del Vasto, avvenuto lo stesso anno, a Marsiglia, permetterà a Simone di percepire meglio il reale significato della “non-violenza alla Gandhi”. Come la Weil, anche Del Vasto si meraviglia delle compromissioni della Chiesa col potere e con l’impero della violenza.

Egli ricorda Simone in un suo libro, e ad un certo punto aggiunge che, ascoltandola parlare, “nel giro di dieci minuti non si vedeva più il suo viso; si percepiva soltanto l’anima, in cui risplende il fuoco della giustizia” (2). Il 6 luglio ’42, Simone Weil parte per New York. Qui conosce, fra gli altri, Jacques Maritain. Il 14 dicembre si stabilisce a Londra, dove viene assegnata come redattrice alla Direction de l’interieur de la France Libre (commissariat à l’action sur la France).

IL PENSIERO, L’OPERA, L’ESPERIENZA SPIRITUALE

Nel ’34 Simone Weil scrisse Rèflexions sur les causes de l’oppression sociale et de la liberté, considerato dal suo maestro Alain opera di prima grandezza, e che lei non pubblicò mai soprattutto per le critiche di un amico. La Weil si ricollega volentieri alle analisi proposte da Marx sull’oppressione dei lavoratori da parte del sistema produttivo della grande industria e sull’asservimento dei cittadini da parte del sistema di governo dello stato. Ecco come si esprime in uno dei suoi pensieri dal profondo spessore filosofico: “Il padrone è schiavo dello schiavo nel senso che lo schiavo fabbrica il padrone”. La Weil sarà anche tra i primi a denunciare le deviazioni della rivoluzione sovietica. Autrice di numerosi articoli su questioni sociali ( in L’ Effort, La Tribune, ecc.), ebbe anche varie conversazioni con Leon Trotsky, incontrato nel ’33 quando fu ospite dei suoi genitori per qualche giorno. Con lui nutriva divergenze di idee non tanto sul proletariato, quanto sulla difesa della “persona”. Una prossimità spirituale e politica tra la Weil e Georges Bernanos è davvero inconcepibile. Tuttavia, Bernanos denuncia “l’impero della forza” allo stesso modo di Simone. Egli teme che ben presto i giovani facciano “della crudeltà una virtù virile”, sicché la “misericordia” appaia loro segno di debolezza e stupidità. Ciò che ferisce più profondamente Bernanos è che i crimini della crociata franchista vengano commessi in nome del cristianesimo e con la benedizione della Chiesa. Il poeta Joe Bousquet, che Simone aveva conosciuto a Carcasonne nel marzo ’42, riconobbe immediatamente la poetica autentica dalle poche pagine che ella gli aveva mostrato. “Si direbbe che il ritmo dei versi è per voi quello della coscienza”, le scriverà in una lettera (3). (Nel 1918, a 21 anni, Bousquet era un corpo che viveva solo a metà, colpito da un proiettile alla spina dorsale). La Weil aveva scritto una decina di poesie e le aveva sottoposte al giudizio di Paul Valèry e dello stesso Bousquet. Ella compose anche Venise sauvée, tragedia in tre atti, durante l’esilio a Londra, e che rimase incompiuta. “Sono convinta”, scrisse in una lettera all’amico Bousquet, “che la sventura da una parte, e dall’altra la gioia come adesione totale e pura alla perfetta bellezza, implicanti entrambe la perdita dell’esistenza personale, sono le due sole chiavi per mezzo delle quali si entra nel paese puro, il paese respirabile, il paese del reale” (4). “A me fa impressione, nella vicenda di Simone Weil, la sua situazione di apolide”, scrive Giovanni Pizzutto. “In realtà Simone Weil è ebrea ma è contro il semitismo; è marxista ma rifiuta il totalitarismo; è europea ed innamorata della cultura greca e della religione indù; è vicina alla Chiesa (…) però non si sente di entrare nella Chiesa” (5). Il futuro papa Paolo VI diceva a Thibon che era cosa molto spiacevole che Simone non avesse spinto fino al battesimo la sua conversione al cristianesimo, perché meritava di essere fatta santa. Simone Weil apparteneva alla categoria dei predestinati che vivono “come se essi vedessero l’invisibile”. Per lei il vertice del cristianesimo era che l’amore e la verità si uniscono soltanto sulla croce. Perché la verità è terribile. Padre Perrin precisò i limiti entro cui Simone Weil rifiutava la formula agostiniana Fuori dalla Chiesa nessuna salvezza.

Tale formulazione del mistero cristiano è diametralmente opposta alla sua apertura universale. Simone riduceva la Chiesa, istintivamente, al grande animale sociologico, secondo l’espressione usata da Platone. La prova crocifiggente dell’amicizia con Joseph M. Perrin fu proprio il rifiuto di Simone per il battesimo. Ella era trattenuta sulla soglia della Chiesa da difficoltà insormontabili, come lei asseriva, di ordine filosofico. Ma pare acquisito che Simone sia stata battezzata dalle mani di un’amica, Simone Deitz, probabilmente alla fine di giugno ’43, all’epoca del soggiorno presso l’ospedale Middlesex di Londra, dove ella era stata ricoverata il 15 aprile, perché ammalata di tubercolosi. Quale significato bisogna dare a questo tardivo battesimo, sul quale ella preferì mantenere il silenzio? Riguardo il suo ineffabile desiderio di annientarsi in Dio, ecco dai Cahiers (17 quaderni di “pensieri” scritti dall’inizio del ’41, a Marsiglia, alla fine del ’42, in America) una breve preghiera, da far venire i brividi: “Padre, poiché tu sei il Bene e io sono il mediocre, strappa da me questo corpo e questa anima e fanne cose tue, e di me non lasciar sussistere, in eterno, altro che lo strappo stesso, oppure il nulla”. Desiderare d’essere nient’altro che lo strappo: sentimento inconcepibile per un comune mortale che non sia dotato di una “mente” superiore! Trasferita al sanatorio di Ashford, nella contea di Kent, il 17 agosto, Simone Weil muore dopo una settimana, nel sonno. Viene sepolta il giorno 30 nel “New Cemetery” di Ashford. Molte delle opere della Weil sono state pubblicate postume. Alcune fra le più importanti: Attente de Dieu, La Colombe, Paris 1950; La connaissance surnaturelle, Gallimard, Paris 1950; Cahiers I, II, III, Plon, Paris, rispettivamente negli anni ’51, ’53, ’56.

Bibliografia e fonti – (1) Simone Weil, Oeuvres complètes. Ecrits historiques et politiques, Gallimard, Paris 1960 ; (2) Lanza Del Vasto, L’arca aveva una vigna per vela, Jaka Book, Milano 1980; (3) Joe Bousquet, Cahiers du Sud, Rivage, Marseille 1981 (rèedition) ; (4) Simone Weil, Pensée sans ordre concernant l’amour de Dieu, Gallimard, Paris 1962 ; Canciani, Fiori, Gaeta, Marchetti, Simone Weil, la passione della verità, Morcelliana, Brescia 1984.

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LA POESIA DI NIL

Nedda Falzolgher, detta Nil, nasce il 26 febbraio 1906 a Trento, quando quella parte del territorio è ancora sotto il dominio austriaco. Il padre era un bancario e la madre di ricca famiglia. Primogenita, sensibile, intelligente, vive nei primi anni una vita serena e gioiosa. La bimba cresce bene fino all’età di cinque anni, quando inattesa la disgrazia viene a stravolgere il suo destino: è colpita da paralisi infantile, o più comunemente detta, poliomielite. Ella si sente attratta per vocazione naturale verso la scrittura e la poesia; vocazione che rappresenta per il suo spirito sofferto una specie di resurrezione. “Nil non poteva andare verso le cose, ma le cose venivano a lei a cimentare la sua forza e la sua gioia, e tutto la investiva e subito l’abbandonava, lasciando segni di grazia sulla sua anima con il moto dell’onda marina che scrive parole di vita su tutta la riva” (da Il libro di Nil). I genitori cercano di renderle la vita meno disagevole possibile. La mamma la incoraggia in quella sua insaziabile sete di cultura che la indirizza verso la scrittura alimentando il suo mondo interiore. Nedda apprenderà ad uscire da quel mondo circoscritto dalle pareti di casa per conoscere il mondo esterno, perseguendo il raggiungimento di un ideale superiore. Dall’età di 27 anni, ella riceve in casa amici poeti e artisti, e la sua dimora diviene presto un punto d’incontro culturale. Fra i giovani frequentatori c’è un ragazzo, Franco Bertoldi, che resterà per lei un amore impossibile.

“Non ti darò contro il petto dolore

più che il rigoglio delle fronde sciolte.

Dammi tu spazio allora per questa morte:

io non ho solco per vivere

e non ho paradiso per morire;

e sento in me stormire

quest’agonia d’amore,

bionda, contro la zolla che la ignora…”.

Nella sua opera Il libro di Nil, pubblicato postumo dal padre, c’è una sezione di poesie intitolata Ritmi dell’infinito, dove si leggono versi scritti durante la guerra.

“Stasera io sono stanca

delle tue mani lontane;

stanca di grandi stelle disumane,

com’è sazia l’agnella di erbe amare…”.

Il 2 settembre 1943 Trento fu bombardata e Nedda fu salvata dalle macerie, insieme ai genitori. In seguito, la ragazza inizierà una corrispondenza con Domenico, suo salvatore e amico, facente parte di un servizio di volontariato. Lo spirito altruistico e la bontà di Domenico fanno sì che Nedda si avvicini ad una dimensione spirituale personale intensa.

“Ma una luce è posata sulle cose,

come la carità senza parola;

e ogni vita attende sola

che la raccolga con gesto d’amore”.

La guerra termina e la ragazza può tornare a casa. Intanto la madre da tempo malata, viene a mancare nel settembre del ’50.

“T’amo, Signore, per la muta passione delle rose.

T’amo per le cose della vita leggere,

le cose che sognano i morti la sera

dentro la terra calda,

sotto il limpido brivido degli astri.

Ma più t’amo, Signore per la misericordia

delle tue grandi campane

che portano nel vento verso

l’anima della sera

la nostra povera preghiera”.

Nedda ha sempre continuato a scrivere nel trascorrere degli anni. Ora, sente la vita sfuggirle e soffre per quel che non ha vissuto.

“Ora tu vedi queste mie canzoni

simili tanto alle foglie che sperdi,

amaro Iddio del silenzio.

E sai che non hanno feste di sole

perché di tutto il sole tu inondi

la Terra dove cammina l’amore”.

“Ascolta ancora, Dio,

le sorgenti, e perdona,

e nella mano portaci, col seme

delle stagioni innocenti”.

Nil rende lo spirito il 2 marzo ’56, a 50 anni. Chiudiamo questo breve excursus con dei versi stupendi, nati da quest’anima candida:

“…Che ansia, allodola pura,

questo palpito d’angelo sommerso

che ha smarrito la vena dei venti;

sul respiro del mondo senti

ancora tutte le stelle

mutar la tua voce in chiarore…”.

[Notizie liberamente tratte da: Nedda Falzolgher – la poesia, la vita, Isa Zanni, Linguaggio Astrale n. 136/04]

Bibliografia Nedda Falzolgher: poesia e spiritualità, edizione Comune di Trento 1990 Nedda Falzolgher: il cuore, la poesia, edizione Comune di Trento 1990

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DALI’ GENIO E SREGOLATEZZA

Eccessivo, eccentrico, paradossale, contraddittorio. Non ci sono appellativi che non siano stati usati per esprimere le caratteristiche di questo personaggio eclettico e dissacrante, nato per eccellere e stupire agli inizi del XX secolo. Salvador Dalì è nato due volte. La prima, a Figueras, il 21 ottobre 1901, ma il bimbo morì a 21 mesi di vita. Il Nostro nascerà nove mesi e dieci giorni dopo la sua morte, l’11 maggio 1904. Egli si trascinerà dietro tutta la vita il peso di dover reincarnare il fratello maggiore di cui porta il nome: “una sorta di complesso di colpa del sosia, trasformato in fissazione paranoica, estetica” (Marco Vallora). “Tutte le mie eccentricità, tutte le mie esibizioni incoerenti sono la tragica costante della mia vita”, si legge in Conversazione con Dalì (1969), di Alain Bosquet. “Devo provare a me stesso che non sono il fratello morto ma quello vivo. Come nel mito di Castore e Polluce, uccidendo mio fratello ho conquistato l’immortalità per me stesso”. Come dire che la morte del primo Salvador è la molla, l’arco teso che lo lancerà molto lontano…nel firmamento della pittura. “Lo si voglia o no, sono stato chiamato a realizzare prodigi”, ha dichiarato. Nella sua biografia si legge che ha una relazione ambigua col poeta Garcia Lorca, ma si dice che Dalì abbia sempre rifiutato le ripetute avances di Federico. “Canto le tue ansie d’eterno illimitato”, scriverà il poeta in una sua ode dedicata all’amico.Dalì è stato uno dei maggiori esponenti del Surrealismo (nuovo spirito dell’arte battezzato da Apollinaire col nome di Superrealismo, al debutto del balletto Parade di Cocteau, 1917); costituito fra gli altri dai poeti Paul Eluard e Andrè Breton, dal cineasta Bunuel, dagli artisti figurativi Manritte, Ernst, Mirò, Man Ray; e ancora, Edward James, Hans Arp, Arpo Marx (solo per citare quelli che diverranno famosi). Sposò dopo una convivenza di molti anni, Gala Diakonoff di dieci anni più grande, moglie del poeta Eluard (da cui poi divorziò), ed ex compagna di De Chirico; una donna-manager avida di potere, la quale impostò da subito la relazione col ruolo di “protettrice”, o meglio di impresario, relegando a Dal�� quello di “dipendenza”, e desiderosa di organizzargli la vita. In amore prediligeva il triangolo; ma grandi furono le sue sfuriate di gelosia quando nel periodo precedente la seconda guerra mondiale Dalì divenne amante di Edward James.Egli non era per lei che una semplice “macchina per far soldi”. “I Dalì sono due, uno appartenente al suo mondo di vivida, geniale e avvincente paranoia, in cui vive più della metà della sua vita; l’altro è l’accorto affarista, creato dalla moglie Gala” (Edward James a Dalì, marzo 1941). (Fu Andrè Breton a coniare l’anagramma Avida Dollars dal nome Salvador Dalì – cosa che divertì molto l’interessato). Il miele è più dolce del sangue (1927) fu il suo primo dipinto surrealista. Famosa la serie dei suoi orologi molli. Molti i disegni e i dipinti raffiguranti la moglie Gala. Soggetti della sua arte, anche i ritratti di Eluard, Lenin, Freud. Dal 1927 al 1929 fu il periodo per lui più prolifico e rappresentativo. Famoso resta il suo ritratto a una vedette del cinema, Mae West.

La sua potenza espressiva, l’intensità cromatica delle forme nello spazio e nella luce, davano voce e sangue alla tela. Alcuni dei suoi quadri, unici e dalla stesura raffinata, restano l’espressione dell’inconscio collettivo del XX secolo. Egli, il genio, ne è l’archetipo. Vogliamo qui aprire una parentesi per dire che nell’immaginazione popolare il genio è sempre dotato di poteri magici; è sempre considerato come agente di una forza esterna. Questo potere può risultare misterioso anche al genio stesso. Egli obbedisce a una sorta di desiderio istintivo, a una necessità interiore. L’arte visionaria di Dalì passa alla storia anche per i titoli bizzarri e improponibili quali, per citarne qualcuno: “Burocrate medio atmosferocefalico nell’atto di mungere un’arpa cranica”, “Teschio atmosferico che sodomizza un pianoforte a coda”, “Autoritratto molle con pancetta fritta”, “Lo svezzamento del nutrimento dei mobili”, “Acido Galacidalacide sossiribonucleico (Omaggio a Crick e Watson)”. Nella storia dell’arte, in modo specifico egli è il Surrealismo, in una rappresentazione personalissima, spesso dal contenuto delirante, definita “metodo paranoicocritico”.La sua opera apre le porte verso universi paralleli, in una visione allucinatoria; ma Dalì è ben consapevole del confine che separa il mondo reale dall’immaginario. Nel 1944 Alfred Hitchcock lo volle per la realizzazione delle sequenze oniriche per il film Io ti salverò, con Gregory Peck e Ingrid Bergman. Si trattava di illustrare i sogni del protagonista in preda ad amnesia. Egli era originale ad ogni costo e viveva di un protagonismo insaziabile. Sempre in equilibrio sulla corda tesa delle sue assurde trovate, ad una conferenza alla Sorbona del 1955, si presentò in una RollsRoyce bianca, stipata di cavolfiori. Nelle sue performances, ogni cosa che toccava si trasformava in oro. Scrive nel suo Diario di un genio: “in uno stato di permanente erezione intellettuale ogni mio desiderio è esaudito”. Un sempre crescente numero di psichiatri vedevano in lui un caso allettante dal punto di vista di uno studio ravvicinato. Egli è noto agli studiosi della psiche come un “perverso polimorfo”. Nell’opera daliniana gli istinti sessuali appaiono cerebralizzati e sublimati dall’arte. Dalì era sempre eccessivo e le sue manie grandiose e strampalate spesso infastidivano. Fu molto criticato dalla stampa e dall’opinione pubblica, e anche minacciato, per aver dichiarato di simpatizzare per il generale Franco. Fino alla fine, ebbe il culto paradossale della propria immagine. Negli ultimi tempi, fra gli alti e bassi della malattia che lo aveva colpito (morbo di Parkinson), si lamentava dicendo com’era difficile morire. (Gli era già mancata Gala da alcuni anni). Fantasma di se stesso, morì a 87 anni, il 23 gennaio 1989, nella clinica dove era stato ricoverato per collasso cardiaco.

Fonte: Meredith Etherington-Smith, Dalì, Garzanti 1994.

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MAETERLINCK, CUSTODE DEI SOGNI

Poeta e drammaturgo dal talento molto versatile, nacque a Gand, nella Fiandra, il 29 agosto 1862. Nel 1911 gli fu conferito il Premio Nobel per la Letteratura. Già fin dal 1903 come candidato al Nobel il nome di Maeterlinck era stato fatto da Anatole France, al terzo posto dopo Tolstoi e Brandes. Secondo Maurice Maeterlinck, la scienza non ci insegna nulla, per il momento, sull’origine e sul fine della vita, e non è in fondo che “una espressione rassicurante e conciliante della nostra ignoranza”. Tuttavia, l’inconoscibile ci avvolge, e si manifesta a noi con presentimenti, sogni. “Lascerò senza rimpianto questo mondo assurdo del quale non ho capito nulla”, egli scriverà pochi giorni prima della morte, avvenuta il 7 maggio 1949. Maeterlinck è sempre vissuto vicino alla morte allo stesso modo in cui si piegava sui misteri della vita, senza separare l’una dall’altra: “Sarebbe mostruoso e inesplicabile che fossimo soltanto ciò che sembriamo essere”, affermava. Tra le sue opere memorabili molti drammi, tra cui si ricordano: La Princesse Maleine,1890; Pelléas et Mélisande, 1892; Aglavaine et Sélysette, 1896; Monna Vanna, 1902. Nella fiaba teatrale L’Oisseau Bleu (1909), ciò che rappresenta l’Uccello Azzurro è il segreto delle cose e della felicità. Vi si legge: “l’Uccellino Azzurro, il vero, il solo che possa vivere alla luce del giorno, si nasconde qua, fra gli uccelli azzurri del sogno che si nutrono di raggi di luna e muoiono appena sorge il sole…”. In essa sono rappresentati sotto forma di creature di sogno vari elementi o simboli archetipici quali La Notte, Le Stelle, La Luce, Il Fuoco, L’Acqua, Il Pane, Lo Zucchero, Il Latte, Il Cane, La Gatta, gli Alberi e gli Animali della foresta, L’Amor Materno, I Bambini Azzurri (che aspettano l’ora della nascita), Il Tempo. La fiaba è intessuta di immagini sognanti, di rara poesia: “I bambini fuggono dai giardini, le mani piene di uccelli che si dibattono, attraverso la sala tra svolìo di ali azzurrine…”. La morale che si legge tra le righe è lampante: quelli che hanno il cuore puro non cercheranno mai invano l’uccello azzurro anche se non esiste che al di là dei limiti del mondo. In Aglavaine et Sélysette, puro gioiello della letteratura, egli fa dire ad Aglavaine parole molto significative : “Se qualcuno deve soffrire, questi dobbiamo essere noi. Ci sono mille doveri, ma io credo che ci si sbagli raramente quando si cerca prima di tutto di togliere una sofferenza al più debole per addossarsela”. Per Maurice Maeterlinck ogni realtà porta sempre un velo di mistero e di sogno. Sotto questo velo, come bene asserisce in chiusura del discorso in occasione del conferimento del Premio Nobel C. D. Af Wirsen, “si nasconde la verità profonda dell’esistenza e, quando un giorno il velo sarà sollevato, si scoprirà l’essenza delle cose”.

Fonte: Francois Albert Buisson, La vita e l’opera di Maurice Maeterlinck, 1965, Milano

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LA “STELLA” KAHLIL GIBRAN

Si può a buon diritto ritenere che Kahlil Gibran sia stato uno dei fondatori della New Age. Era nato a Bisharri (Libano) il 6 gennaio 1883. Diceva all’amico Nu’ayma che egli era un “falso allarme”; perché chiunque ignora la propria vera natura è destinato a restare un falso allarme. Gibran sentiva di non avere il diritto di impersonare il ruolo che si era scelto. Questo perché si rendeva conto di non mettere in pratica ciò che andava predicando. Era il 1921 quando stava lavorando alla stesura di The Prophet, e in seguito a letture pubbliche cominciava a essere identificato con quel ruolo. Nel 1895 la famiglia emigra a Boston, nel periodo in cui vi è un’emigrazione di massa di siriani in America. Gibran frequenta un gruppo di giovani poeti e artisti decadenti il cui leader è Fred Holland Day, fotografo ritrattista. Lo stesso Day favorisce la trasformazione di Kahlil in una sorta di rivoluzionario. Gibran ebbe rapporti di amicizia con famosi e influenti personaggi di Boston e New York, eppure si sentì sempre fratello dei poveri del mondo. Ai versetti della Bibbia e ai versi di Walt Whitman si ispirò per trasmettere il suo messaggio alle future generazioni – per le quali resta un punto di riferimento quale stella che rifulge per sempre. Dal giornale Al-Muhàgar su cui egli scriveva regolarmente, vogliamo citare un breve estratto, riguardante una sua monografia sulla musica:”Oh tu, vino del cuore, che sollevi colui che beve alle vette del mondo dell’immaginazione; onde eteree che sostenete i fantasmi dell’anima; mare di sensibilità e tenerezza; alle tue onde prestiamo le nostre anime e alle tue insondabili profondità affidiamo i nostri cuori. Conduci quei cuori oltre il mondo della natura e mostraci ciò che si cela negli abissi del regno dell’ignoto”. Gibran scrisse opere di poesia e narrativa (Le ali spezzate, Le ninfee della valle, Spirito ribelle). Fra i suoi autori preferiti si possono citare Whitman e Blake, Tolstoi e D’Annunzio, Ibsen, Strindberg, Nietzsche. Già a 19 anni i suoi scritti erano stati paragonati a quelli di D’Annunzio, ma egli stesso si rendeva conto che il paragone era esagerato. Per completare la sua istruzione, nel 1898 i suoi lo mandarono a Beirut. Da una dichiarazione rilasciata a Mary Haskell, sua corrispondente, si viene a conoscenza che “il ragazzo senza alcun motivo apparente rinuncia all’imbarco prenotato e cambia il biglietto con un altro sul piroscafo successivo. Quello sul quale sarebbe dovuto partire affonda con tutte le 800 persone circa che sono a bordo, poche ore dopo aver lasciato New York”. Gibran aveva carisma. Intorno alla sua straordinaria figura ruotano molti episodi, esposti dai suoi biografi, per la maggior parte da ritenersi fantasiosi o leggendari perché privi di verifiche. Ebbe una fitta corrispondenza epistolare con Josephine Peabody, affermata poetessa. La relazionasi approfondì a partire dal compimento del 20° anno di età di Kahlil. Lei aveva otto anni più di lui e il suo sentimento si può tradurre in un desiderio di dare protezione. Lo riteneva un “genio”, un “angelo” e un “profeta”. (Egli lascia una vasta produzione di disegni e dipinti; le immagini sono imperniate su una dimensione soprannaturale e di regni trascendentali, chiaramente ispirati a William Blake). Alla lunga, la sua relazione con Josephine finì per incrinarsi; a seguito di un litigio lei strappò tutte le lettere. Kahlil la riteneva la “donna fatale”, e forse questa fu la sua vera colpa. Nell’estate del 1904, a una mostra di suoi lavori, egli conobbe Mary Haskell, che avrebbe avuto una duratura influenza nella sua vita. Aveva 30 anni ed era attivista nel movimento operaio femminile. (Varie altre presenze femminili giocarono un ruolo importante nella vita di Gibran, alcune esclusivamente di natura erotica. Esse spesso posavano per i suoi ritratti). Nel 1908, dopo un breve periodo trascorso a Parigi, egli riprese la relazione con Mary, anche se lei gli fece chiaramente capire che non l’amava ma che voleva restarle amico. Aggiunse che l’accettare la richiesta di lui di sposarlo si sarebbe rivelato un grossolano errore. Nel 1911 Gibran, sempre più convinto che il suo futuro era New York, vi si trasferì. Infatti se non fosse stato così, egli non sarebbe mai arrivato all’attenzione del grande pubblico. Fu un periodo felice; la vita a New York gli faceva bene. Le sue lettere a Mary traboccavano di entusiasmo: “osservo con mille occhi e ascolto con mille orecchie per tutto il giorno”. Iniziò a tenere delle conferenze. Il suo mondo ora si stava rapidamente allargando e la sua stella cominciava a rifulgere. Può sembrare assurdo che un giovane di 28 anni faccia testamento, eppure Kahlil ne redasse uno a favore di Mary, lasciandole tutti i suoi quadri e le sue sostanze in denaro, poiché sentiva che sarebbe vissuto – profezia che doveva rivelarsi esatta – ancora per altri 15 o 20 anni. Negli anni successivi il rapporto di Kahlil con Mary si consolidava sempre di più. Lei nelle lettere aveva per lui espressioni di idolatria e venerazione. Lo andava a trovare spesso a New York. Non si rendeva ancora conto di venir usata. L’adorazione che nutriva per lui le impediva di vedere i difetti del suo carattere. Oltretutto, lei era per lui anche un grosso aiuto economico. Da parte sua Kahlil, affetto da narcisismo, sentiva di avere le stimmate del messia e viveva momenti di autentica esaltazione. Sosteneva di avere una “capacità di introspezione superiore a quella di Buddha e di aver fuso la sua consapevolezza con quella del pianeta e dell’universo”. Nonostante lo desiderasse ardentemente, la coppia rinunciò ai rapporti sessuali ritenendo di avere già un’unione perfetta, una specie di sesso spirituale; o forse la ragione stava anche nel fatto che i due “amanti” erano consapevoli che il sesso “spicciolo”, temporaneo, avrebbe finito per abbreviare la loro relazione, sopravvenendo la sazietà della ripetitività. Kahlil – si legge nei quaderni di Mary afferma di aver lottato per questo obiettivo e di esserci riuscito, per conservare “altri centri di energia superiore”. Nei 10 anni che seguirono essi si scrissero regolarmente ma i loro contatti andavano man mano diradandosi. Nell’aprile del 1920 fu costituita l’Associazione della Penna. Gibran fu eletto presidente e Nu’ayma segretario. L’associazione ebbe vita fino al 1931, anno della morte di Gibran. Ormai Kahlil non scriveva più in arabo ma in inglese. In un poemetto intitolato Il poeta (dall’antologia The Vision), egli scriveva: Un anello tra questo mondo e l’aldilà; una fonte di limpida acqua per gli assetati; un albero cresciuto sulle rive del fiume della bellezza, carico di frutti maturi per i cuori affamati… Un angelo mandato dagli dèi per insegnare agli uomini le vie degli dèi. Una lampada risplendente che il buio non vince poiché non sta sotto il moggio. Ad aggiornare l’immagine che avevamo di Gibran, ecco venirci presentata l’altra faccia, quella che non s’immaginava: la diagnosi (siamo nel 1929) parlava di ingrossamento del fegato, causa della sua dipendenza dall’alcool risalente presumibilmente ad almeno tre anni addietro. Nel novembre 1930 iniziava il processo degenerativo che doveva portarlo alla morte. Forse – è un’ipotesi – la difficoltà d’identificarsi col suo ruolo può essere stata la molla scatenante… Il suo capolavoro Il Profeta fu pubblicato da Knopf nel settembre del 1923 (ma era rimasto in gestazione per almeno 4 o 5 anni per essere perfezionato, sebbene l’idea del suo libro risalisse già al 1912, quando alcuni frammenti cominciavano ad apparire sui suoi quaderni o diari). Negli anni della depressione se ne vendevano in media 13 mila copie all’anno. Nel 1957 era stato superato il milione di copie. Attualmente solo nel Nord America le copie vendute raggiungono la strabiliante cifra di 9 milioni. Oggi The Prophet è anche disponibile su Internet. Da molti critici il libro venne sottovalutato perché ritenuto monotono; al contrario, l’Evening Post di Chicago lo ritiene tuttora una “piccola Bibbia”. “E’ il mio primo vero libro” – dice Gibran della sua creatura – “il mio frutto maturo”. Negli anni 60 correva voce che ogni hippy avesse nello zaino una copia del Profeta. Andando a sbirciare nei quaderni di Mary, si possono trovare molte descrizioni di sogni fatti da Gibran su Cristo – più che sogni vere apparizioni, rivelatrici del fascino che la figura di Gesù esercitava su di lui. “Visse come un capo” si legge in Il Crocifisso – “morì con un eroismo che spaventò i suoi assassini e i suoi torturatori […] “. Il suo libro ‘Gesù, figlio dell’uomo’ può essere letto quasi come un nuovo Vangelo apocrifo. Riguardo il successo di vendita, esso è secondo dopo Il Profeta. Gli dèi della terra, l’ultima sua opera, fu pubblicato appena dopo la sua morte. Gibran non seppe mai chi fosse veramente. Diviso tra oriente e occidente, simile a un crocifisso le cui braccia sono distese tra queste due polarità; immagine che richiama un fatto avvenuto quando egli aveva dieci anni: si dice che a causa di una spalla fratturata in una caduta, fosse rimasto per 40 giorni legato ad una croce. Kahlil Gibran morì di cirrosi epatica, dopo uno stato comatoso, il venerdì 10 aprile 1931, alle ore 22.55. Boston lo ricorda con una statua in marmo rosa, all’ingresso della Public Library. La targa con l’incisione: ” Kahlil Gibran 1883 – 1931, poeta, pittore”, è opera di Kahlil Gibran il Giovane, scultore di Boston. Chiudiamo questo breve lavoro con alcuni suoi versi, tratti da La processione:

E sulla terra la morte, per il figlio della terra,

è finale, ma per colui che

è etereo, è solo l’inizio

del trionfo che egli sente già suo.

Fonte: Robin Waterfield, Profeta – vita di Kahlil Gibran, Guanda 2000.

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RIMBAUD, IL MITO

Angelo o demone? Di Arthur Rimbaud si è detto tutto e il contrario di tutto. La sua vita nasconde misteri che il tempo moltiplica. Anima randagia, da poeta “maudit” muore quasi del tutto sconosciuto – prima che la sua fama si convertisse in mito attingendo alla immortalità. Un’infanzia la sua, triste e infelice – caratteristica che distingue molte grandi anime passate alla storia. La violenza dei gesti, gli oggetti branditi accompagnati da urla sono le immagini che Arthur conserva dell’unione tra i genitori. Lui, Frédéric Rimbaud, capitano del 47° reggimento di fanteria, per il ragazzo rimasto come genitore un’ombra inafferrabile; lei, Marie Catherine, figlia di agrari, legata al figlio da complice pietà. Nel 1864 il padre abbandona definitivamente la famiglia. Arthur ha 10 anni. Frequenta la scuola presso il collegio di Charleville, suo luogo natale (egli vi nasce il 20 ottobre 1854), si dimostra un allievo modello, è il più delle volte premiato, e la sua precocità si rivela anche nei risultati poetici. Ma il ragazzo è anche ruvido, maleducato, insofferente soprattutto nei confronti dell’ambiente familiare e della madre, con la sua rigidità cattolica e l’inflessibilità degli atteggiamenti. La tendenza a scandalizzare è la sua maniera di comunicare; accompagna con “merde, merde” la lettura pubblica di versi. E’ anticonformista ed eccentrico ed ha un magnetismo ambiguo, un fascino particolare,oscuro. Tra i 16 e i 18 anni ha una relazione burrascosa con Paul Verlaine; i due vivono insieme, da bohémiens. La relazione, che si vocifera abbia un indirizzo omosessuale, balza agli onori della cronaca quando Paul un giorno,e precisamente il 10 luglio 1873,al colmo di una violentissima lite ferisce l’amico al polso con una pistola. Nello stesso anno, a Bruxelles, Rimbaud ritira le prime copie di Une saison en enfer.Nel 1884, ad Harar, in Abissinia, organizza spedizioni commerciali nell’Ogaden, ma lascia presto questa attività per dedicarsi in proprio al traffico di armi per conto di Menelik. Mentre Rimbaud si trova in Cairo compaiono dolori lancinanti alla coscia e al ginocchio, primi sintomi del male che lo porterà alla tomba. Nel 1890 viene rintracciato in Abissinia da un gruppo di letterati parigini; in una lettera gli viene annunciato il suo nascente mito poetico. L’anno seguente il male si aggrava ed egli s’imbarca per Marsiglia, dove subisce l’amputazione della gamba; operazione alla quale la madre presta una fredda e frettolosa assistenza. Il cancro presto gli divorerà le altre parti del corpo, paralizzandolo. Tra allucinazioni e grandi sofferenze, la morte lo coglie il 10 novembre 1891 a Marsiglia. La vera vita è altrove”; “Io è un altro”: enigmatiche e memorabili queste sue “sentenze”. Suo compito è distruggere ogni tipo di convenzione sociale cercando la rivelazione dell’ignoto e dell’inconscio e adeguando i propri mezzi espressivi al carattere innovatore di tale operazione. Scrisse Verlaine nel 1872: “E noi l’abbiamo nel ricordo e lui viaggia. Sappiamo, sotto le maree e al sommo dei deserti di neve, seguire il suo sguardo, il suo alito, il suo corpo, la sua luce”. “Me ne andavo” – dicono alcuni versi di Rimbaud – “coi pugni nelle tasche sfondate, / anche il mio paltò diventava ideale: / andavo sotto il cielo, Musa, ed ero il tuo fedele; / perbacco! Quanti amori splendidi ho sognato”. Solo e trasognato, con un amore ideale a invadergli lo spirito, si sentirà felice andando “loin, bien loin, comme un bohémien par la nature”.

“Non può essere che la fine del mondo, più in là”: è il divorante desiderio di conoscenza, di infinito; esplorare l’inconnu. E’ l’Ideale del suo spirito a cui fanno da cornice l’immensità e il silenzio del deserto, il vento, il sole rutilante, un tempo senza tempo… Il deserto: “luogo ideale dell’esilio ma anche del regno, poiché l’esilio interiore permette di riconquistare il regno di sé” (1). Innumerevoli quanto inverosimili risultano gli amori attribuitigli. Si dice che durante il soggiorno in Africa, ad Harar, una notte di passione nel tentativo di possedere una fanciulla abissina infibulata, egli abbia usato un coltello… (il sangue, le urla, i parenti accorsi per vendicare l’oltraggio subito). Ebbe amori in vari altri paesi, Inghilterra, Italia (Milano, Napoli). “E’ il nostro sole nero”, scrive Renato Minore, “con disagio si entra in sintonia con l’intransigenza netta, ombrosa, irripetibile di quell’età. Quel prendere di petto il mondo per una sfida senza superstiti. E oggi siamo tutti superstiti: della rabbia come della pietà. Siamo ossessionati dalla leggenda di Rimbaud, dal suo fantasma e dalle sue scorribande di confine”.

Nota (1) Majid El Houssi, dall’introduzione a Moha il folle Moha il saggio, di Tahar Ben Jelloun, Edizioni Lavoro 1988. Bibliografia – Renato Minore, Rimbaud, Mondatori Editore 1991 Arthur Rimbaud, Poesie, Garzanti 1977.

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PIER GIORGIO, IL BEATO DEI GIOVANI

Il 20 maggio del 1990 Giovanni Paolo II lo ha beatificato. Il suo esempio di carità è vivo in tutto il mondo. Sconosciuto in vita, egli ha acquistato fama dopo la morte. Due giorni dopo la sua “trasfigurazione” – come ebbe a definirla don Antonio Cojazzi – apparve sulla Rivista dei Giovani un articolo dello stesso Cojazzi, dove fu profetizzato: “Pier Giorgio Frassati imprimerà un nuovo giro al sangue della gioventù, e non solo torinese”. La sua figura affascina soprattutto i giovani: moderno, allegro, sportivo, pieno di gioia di vivere e amante della montagna – Mario Soldati ricorda “l’occhio nero ma scintillante, luminosissimo, le labbra aperte sempre al sorriso” -, esibiva la sua normalità con una fanciullesca gioia di scherzare. Suo padre, Alfredo, era proprietario e direttore della Stampa, senatore del regno e ambasciatore d’Italia a Berlino. Pier Giorgio nasce il 6 aprile 1901. Giovane liceale, frequenta l’Istituto sociale dei gesuiti dopo essere stato bocciato due volte al D’Azeglio. In seguito entra al Politecnico per diventare ingegnere minerario. Si iscrive alla “Fuci”, la federazione degli universitari cattolici. E’ tesserato al partito popolare di Luigi Sturzo. L’avvento del fascismo segna l’inizio di un trauma storico di cui anche Pier Giorgio è il cosciente testimone. Ha un amore segreto, Laura Hidalgo, segretaria della goliardica “Società dei Tipi Loschi”, l’allegra compagnia dei suoi amici di cordata, di cui egli è cofondatore; (si firma col nome di Robespierre). Dovrà in seguito rinunciare a questo amore a causa della necessità della sua presenza presso i genitori; una prova crudele, dolorosissima, a cui egli non si sottrae. La sua adesione al Vangelo si traduce in attenzione verso i bisognosi. Per il volontariato egli offre se stesso disdegnando il suo stato di agiatezza; di più, tutta la sua giovane e breve vita è offerta ai poveri e ai malati; vive vicino agli umili, ai dimenticati, vero “imitatore di Cristo”, come lo definisce Papini. Con i soldi che risparmia in segreto, acquista medicine per chi non può comprarne, dà una mano ai derelitti che va a trovare nelle soffitte o sotto i ponti; appena libero si reca al Cottolengo, quasi una corsa verso l’umanità miserabile. Uno spirito molto speciale, di una santità concreta, che si offre fino a giungere ad un abuso delle proprie forze. Pier Giorgio visse intensamente i suoi 24 anni prima che lo colpisse una poliomielite fulminante, il 4 luglio del ’25. Gli mancavano due esami per la laurea.Fino alla vigilia dell’agonia, fu quasi per tutti un segreto la sua malattia repentina e inesorabile. Morì in sei giorni, solo; soltanto Mariscia, la domestica tedesca, gli fu vicina fin dall’inizio. La madre (la pittrice Ametis) era al capezzale di sua madre morente; la sorella Luciana, sposata da poco, era appena tornata; gli amici – s’era d’estate – erano fuori Torino. Gli ultimi giorni Pier Giorgio stava sempre peggio, ma nessuno, fino all’ultimo, sembrava rendersene conto. D’altra parte, durante il calvario, egli non pensava nemmeno ad accusare la loro indifferenza, quasi fosse naturale. E poi lui, fino all’ultimo, cercava di minimizzare il suo male di una gravità sempre più evidente. Il giornalista Luigi Ambrosini, due ore dopo la sua morte, scrisse un articolo per La Stampa in cui, tra l’altro, diceva: “Le sue mani non erano fatte per raccogliere, ma per distribuire”. Il giornale uscì listato a lutto. Non era mai accaduto prima. Alle ore 19 del 4 luglio, di sabato, Pier Giorgio rese lo spirito. Fu sepolto a Pollone, in provincia di Vercelli – gli scorreva nelle vene sangue biellese. Pier Giorgio amava la vita: era innamorato della montagna, sciava, andava a cavallo, in bici, a nuoto, aveva una vera passione per Dante.

In un passo del suo diario si legge: “Ho lasciato il mio cuore tra questi monti con la speranza di ritrovarlo quando ritornerò”. L’alpinismo era per lui una scuola di coraggio, ma anche un mezzo per avvicinarsi a Dio. Raggiunta la vetta, recitava il Magnificat. “Io” diceva estasiato, “ho questo desiderio di sole, ho questa voglia di salire in alto, di andare a trovare Dio in vetta”. Aderì a vari gruppi cattolici, fra cui la conferenza di San Vincenzo. Spesso si raccoglieva per ore in preghiera. Era innato in lui il ferreo impegno di piacere a Dio, rinunciando alle agiatezze del mondo e a se stesso. Per rafforzare lo spirito contro le tentazioni, si concentrava per lunghe ore nella lettura di Sant’Agostino, di San Paolo, di San Tommaso, di Santa Caterina. A chi gli chiedeva se si sentisse chiamato al sacerdozio, rispondeva con la grande coerenza che lo distingueva: “Io voglio in ogni modo aiutare la mia gente e questo posso farlo meglio da laico che da prete”. “Gesù mi visita con la comunione ogni mattina”, confidò ad un amico, “e io gliela restituisco nel modo misero che posso: Visitando i suoi poveri”. Dice il filosofo Gianni Vattimo: “A rendere preziosa e simpatica la sua figura è la costante capacità di ‘abitare il tempo’. E poi i giovani hanno bisogno di incontrare testimoni, non solo maestri”.

Desideriamo chiudere questo breve lavoro (anche quale omaggio alla sua alta figura carismatica) con dei versi dell’autore, quasi un’epigrafe: Indiafanata da un vento di luce / -verso l’alto!- / ride la tua immagine d’aria

* Verso l’alto: una frase annotata da Pier Giorgio sulla foto che lo ritrae mentre s’inerpica sulle Lunelle, nelle valli di Lanzo, il 7 giugno 1925.

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RUDOLF STEINER E LA SCIENZA DELLO SPIRITO

Le anime umane vivono come nel fango, come nella palude, finché non sono iniziate nei sacri misteri. Platone, Fedone, cap. XIII

Uomo di profonda cultura spirituale, Rudolf Steiner è un personaggio ancora in buona misura da scoprire. Forse il più difficile da afferrare di tutti i pensatori del XX secolo. Antimaterialista convinto, il suo stile è esageratamente astratto. Con i suoi racconti sorprendenti su continenti scomparsi come Mu, Lemuria e Atlantide, a volte si è portati a sospettare che si tratti di un imbroglio spudorato. Ma Steiner non era di sicuro un ciarlatano. Figlio di un capostazione austriaco, era nato a Kraljevec (impero austro-ungarico) il 25 febbraio 1861. Per Steiner, la lotta per ottenere credito riguardo la sua concezione spirituale in un ambiente dichiaratamente non spiritualistico, è durissima. Egli parte chiaramente sfavorito. Ma il fuoco interiore che lo anima, il suo daimon, gli destina una luminosa carriera riservandogli alte cariche in cui si evidenziano proprietà di linguaggio e grande generosità. Steiner fin da piccolo divenne consapevole dell’esistenza di un mondo parallelo a quello terreno. Nella geometria egli trovava la giustificazione alla sua fede nel “mondo che non si vede”. “Devo aggiungere”, si legge nella sua autobiografia non ultimata, “che in quel mondo vivevo volentieri, perché avrei sentito come tenebra tutto il mondo sensibile circostante se questo non avesse ricevuto la luce da quello”. E in una sua conferenza possiamo leggere: “Tutti i patimenti che vengono sofferti al presente sul piano fisico, nel complessivo progresso dell’ umanità, sono solo un lato di un insieme il cui altro lato è soprasensibile”. Steiner fece le prime esperienze pedagogiche riuscendo a recuperare un ragazzo idrocefalo e a inserirlo poi all’università, dove divenne medico.Studiando le idee scientifiche di Goethe sotto la guida di Shrorer, egli inziò a sviluppare la propria filosofia spirituale. La figura di Cristo vi gioca un ruolo centrale. E’ importante non confondere la “percezione extrasensoriale” di Steiner con lo spiritismo. Egli era estremamente sospettoso verso quest’ultimo. Viaggiando in treno, conobbe un contadino di mezza età, Felix Koguzki, che esprimeva le sue profonde convinzioni religiose con un linguaggio oscuro.Steiner poté parlare apertamente delle sue esperienze (tra cui i contatti con i trapassati) senza timore del ridicolo.Il suo amico Schuré parlò più tardi di quest’uomo misterioso, Koguzki, come del “maestro”, e disse che era “una delle forti personalità che sono sulla terra per compiere una missione sotto la maschera di un’occupazione modesta”, cioè di un “Iniziato”.Koguzki indicò a Steiner certi passaggi di Fichte che lo aiutarono a vedere chiaramente il modo di confutare il materialismo scientifico dilagante. Le sottigliezze argomentative saranno un’arma per vincere i suoi antagonisti e gli scettici. Steiner frequentò il circolo di teosofia, dottrina che gli pareva essere concorde con il suo spirito. Conobbe ed entro lo stesso anno 1899, sposò Anna Ennincke, vedova con cinque figli, di otto anni più grande. Ma il matrimonio durò poco.

L’incontro con Maria Von Sivers segnò la fine definitiva del suo breve matrimonio e l’inizio della sua carriera di personalità pubblica. Steiner iniziò a tenere conferenze, e la gente, ora, cominciava a esserne affascinata. La sua prima opera fondamentale, “La filosofia della libertà”, indica il suo concetto base: l’uomo è in grado attraverso il proprio pensiero puro, di conoscere le leggi che governano l’Universo. Riconoscendo ed accettando queste leggi, egli diviene libero interiormente, e agendo in armonia con esse, è libero anche nel proprio agire. Nel 1902 Rudolf Steiner e Maria Von Siver fondarono la rivista “Lucifer-Gnosis”. Qui Steiner pubblicò le sue numerosissime conferenze, che furono in seguito raccolte in libri. Lo stesso anno egli ebbe la nomina a segretario generale della sezione tedesca della Società Teosofica, con approvazione di Annie Besant, succeduta a Madame Blavatsky. Ma quando la Besant giunse a parlare del quattordicenne Jiddu Krishnamurti, futuro maestro spirituale, come del nuovo Messia, la cosa suscitò sconcerto e non fu accolta bene neppure da Steiner, che diede le dimissioni da segretario. Era il 1913. (Si ricorda, en passant, che Krishnamurti rifiutò da adulto il ruolo messianico). Bisogna chiarire che mentre la Società Teosofica si richiama all’Oriente, Steiner si sentiva intimamente legato alle tradizioni occidentali, ai Rosacroce, a Goethe e soprattutto alla figura di Cristo. Nello stesso anno fu fondata da Steiner la Società Antroposofica. Antroposofia: dal greco anthropos (uomo) e sophia (saggezza) = scienza dell’uomo. Fra il 1913 e il 1915 fu costruito tutto in legno il primo tempio, il Goetheanum, a Dornach, presso Basilea. Era un centro di attività scientifiche e artistiche fondate sulla scienza antroposofica e capace di attirare le folle. Rudolf Steiner aveva grande magnetismo ed era suscettibile alle adulazioni. Sapeva esprimersi con un’autorevolezza e un’efficacia che impressionavano. Egli preparò migliaia di conferenze, in gran parte pubblicate. Molte di esse furono tenute anche in altri paesi. Steiner era instancabile e, soggetto a surmenage, recuperava facilmente. L’antroposofia ha trovato applicazione in molteplici campi: pedagogia, medicina, sociologia, architettura, agricoltura, biodinamica, arte, recitazione, danza (euritmia), e altro ancora. Tra le sue numerose opere, Steiner ha lasciato quattro libri fondamentali: La filosofia della libertà,1894,Teosofia,1904, L’iniziazione, 1904-1905, La scienza occulta, 1910. Maeterlinck ha detto di Steiner che i suoi metodi intuitivi sono una specie di psicometria trascendentale, per ricostruire la storia degli Atlanti e rivelarci quello che succede in altri mondi. Che egli fosse un profeta non ci sono dubbi. Maeterlinck lo aveva descritto come “uno dei più eruditi, ma anche dei più confusionari tra gli occultisti contemporanei”.Un biografo parla delle code di persone che aspettavano fuori della porta dello studio di Steiner da mattina a sera, per sottoporgli i propri problemi. Steiner soffrì anche un’altra delle conseguenze della celebrità: la maldicenza. La notte di San Silvestro 1922-23 avvenne un incendio e il Goetheanum fu distrutto. Fu per Steiner una prova dolorosa, che mostrò come l’Antroposofia avesse dei nemici. La rappresentazione del dramma inprogramma ebbe luogo ugualmente. Rudolf Steiner lasciò le sue spoglie mortali il 30 marzo 1925, a Dornach, a 64 anni da poco compiuti, mentre gli operai stavano costruendo, già da oltre un anno, il nuovo Goetheanum, interamente in cemento armato. Esso sarebbe stato inaugurato nel 1927. La malattia che avrebbe portato Steiner alla morte si era manifestata il Capodanno del 1924. Nonostante il progressivo indebolimento, egli tenne in vari paesi quasi 400 conferenze, organizzò convegni, ricevette centinaia di persone.

Infine il 28 settembre, privo di energie, dovette mettersi a letto. Steiner inviava i capitoli della sua autobiografia in tipografia man mano che li scriveva, con la scritta “segue”. L’ultimo inviato a fine marzo, non riportava la solita scritta. “La grande avventura è quella interiore”; “L’uomo è una creatura della mente”: questo il messaggio che egli ci lascia. “Il vero domicilio dell’uomo è il mondo dentro di sé. Basta solo che un odore o un sapore, un verso o poche note musicali ci richiamano verso il mondo interiore, per provare uno strano flusso di calore e di forza dentro di noi, quella sensazione che faceva scrivere a Proust: Ho cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale”. Ci limitiamo a riportare un breve stralcio tra i più significativi, da una sua conferenza tenuta nel 1916 a Liestal, in Svizzera: “Nella nostra volontà vive qualcosa che interiormente di continuo ci osserva. Attraverso questo spettatore interno, si penetra in un mondo spirituale che si può sperimentare come si sperimenta con i sensi il mondo sensibile. In tal modo si trova nell’uomo un altro uomo. Quando si arriva a conoscere questa entità dentro l’uomo, si conosce ciò che dell’uomo sussiste oltre la morte. Quella entità che non opera per mezzo del corpo fisico, che è spiritualeanimica, sussisterà dopo la morte e già esisteva prima della nascita”. Attualmente la Germania conta una sessantina di scuole steineriane. Inoltre, la medicina steineriana è oggi coltivata da medici di tutto il mondo. Le opere di Steiner constano di ben 354 volumi, pubblicati dalla casa editrice tedesca Rudolf Steiner Verlag. Vi sono ancora inediti.In italiano, tra le varie case editrici che hanno pubblicato le sue opere, è da menzionare la Editrice Antroposofica di Milano. I “Misteri” drammatici di Steiner (La porta dell’Iniziazione 1910, La prova dell’anima 1911, Il guardiano della soglia 1912, Il risveglio delle anime 1913), vengono rappresentati al Goetheanum ogni anno inseme al Faust di Goethe. Nelle rappresentazioni è compresa anche l’euritmia, un’arte nuova, danza e movimento armonioso insieme, definita “parole e canto visibili”, la quale ebbe applicazioni pedagogiche e terapeutiche, oltre che artistiche.

Bibliografia – Paola Giovetti, La vita e l’opera,Edizioni Mediterranee, Roma 1922; Colin Wilson, Rudolf Steiner, Longanesi, Milano 1986.

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JAKOB LORBER, LO SCRIVANO DI DIO (1800 – 1864)

Per 29 anni scrisse ciò che la voce di Dio gli dettava. In casa aveva solo la Bibbia, eppure stupiva che scrivesse con tanta acutezza di materie di cui non s’era mai occupato (la sua preparazione scolastica era modesta). Secondo i suoi scritti, la materia nel senso materiale del termine, non esiste. Tutto è energia, ovvero forza spirituale e divina suddivisa in particelle infinitesimali (scintille di vita primigenia): affermazioni che concordano con le più recenti scoperte della fisica nucleare! L’intero universo è costituito da queste particelle originarie (elettroni o quanti), che altro non sono che “pensieri divini resi autonomi”. Lo spirito divino emana da una sorta di sole spirituale, e ad esso ritorna. Vediamo ora un brano fondamentale da Il grande Vangelo di Giovanni: la storia di Lucifero e della sua caduta, da cui dipese tutta la creazione materiale, che liberamente e volontariamente deve ritrovare la strada verso Dio. “Soltanto nelle opere la Divinità può conoscere la propria potenza e se ne rallegra, proprio come ogni artista capisce soltanto delle proprie creazioni ciò che è dentro di lui e ne trae gran gioia. Provvisto della Mia piena potenza, Lucifero, primo spirito creato, chiamò in vita altri esseri, in tutto simili a lui; essi furono parimenti autocreativi. Lucifero, sapendo di dover rappresentare il polo opposto di Dio, credette di essere in grado di assorbire in sé la Divinità. Credette nella sua follia di poter tenere prigioniera la Divinità. Ma il finito non potrà mai comprendere l’infinito. In questo modo si allontanò dal centro del Mio cuore e fu preso sempre più dal desiderio di riunire intorno a sé le creature sorte da Me per opera sua. Sorse una separazione delle parti, che fece sì che il potere da Me conferito a Lucifero fosse ritirato, ed egli rimase coi suoi seguaci privo di potenza e forza creativa. C’erano due vie: annientare Lucifero col suo seguito, per crearne un secondo, che però avrebbe compiuto lo stesso errore. Ma la via della libertà, seguita fino ad allora, era l’unica. Dove sarebbe il Mio amore, se esso non avesse rinunciato alla distruzione, trovando anzi nella saggezza un mezzo per ricondurre gli esseri perduti alla luce della conoscenza? Non restava che la seconda via, quella realizzata nella creazione materiale. Nell’uomo, a seconda del grado di malvagità, gli spiriti furono rivestiti di materia, esposti a lotte e dolori e tentazioni, per condurli gradualmente alla comprensione dei loro errori, e per dar luogo anche al loro volontario ritorno. Tutta la creazione visibile consiste soltanto di particole del grande spirito di Lucifero e del suo seguito caduto e bandito nella materia… Vedete dunque che cosa Io faccio a causa di un unico angelo superbo? Pensate che praticamente tutta l’umanità non è costituita da altro che da membra di quest’unico “figlio perduto”, e più esattamente degli uomini derivanti dalla sventurata discendenza di Adamo. Con il “figlio perduto” si intende dunque ogni singolo uomo in sé, e in ogni uomo che vive secondo la Mia parola, Io ritrovo il figlio perduto (cioè una parte essenziale di lui), che ritorna alla grande casa paterna… Per amore di un solo figlio Io sono pronto a sacrificare miliardi di mondi di ogni genere, se egli non potesse in altro modo ritornare di nuovo a Me. Se fosse necessario, Io preferirei privarmi di quest’unica eterna vita, piuttosto che perdere uno solo dei Miei figli. Comprendi tu questo amore? Con le sofferenze Io rendo miti i popoli. Li strappo alla follia di credere che i desideri mondani siano la prima cosa che l’uomo deve cercare. A tutti mostro che sopra di loro c’è Qualcuno che lascia sì fare loro quello che vogliono, ma che svolgere al bene ogni cosa – anche la più cattiva – che l’uomo compie…”

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UN SOLE SOTTERRANEO

Nel 1918 Joe Bosquet, ventun anni, viene colpito da un proiettile che gli spezza la spina dorsale; da allora fino alla morte, è un corpo che vive solo a metà. Bousquet si riferisce all’incidente come a una seconda data di nascita. Per lui, affondare nel buio vuol dire “attendere l’altra faccia del giorno”. Il sole sotterraneo è il sole mitico che, scomparso dallo sguardo oltre l’orizzonte, continua in segreto il suo corso fino alle “Radici della notte”. Bousquet riconosce in se stesso un essere sotterraneo, quell’abitatore del sottosuolo di dostoevkijana memoria. (“Scrivo le vene del buio”, 1967). “Proprio nei momenti in cui si sentirebbe maggiormente di odiare la vita tutto l’amore si china per poterci raccogliere”.”Porto in me un essere irrivelato. Mi conosce, ma non so nulla di lui, tranne che la mia persona è la sua ombra con i suoi appetiti inconfessabili e il suo bisogno di segreto” (1982). “Trascina intorno alla vita il tuo grido, il tuo immenso grido di bestia ferita. Spingi nella notte il lamento immenso in cui tutto il tuo spirito si ottenebra. Questo accecamento verità. […] L’anima non si sveglia che a pezzi” (ibid.). (L’anima sorgerà, ma come un sole sotterraneo). “Vorrei squarciare, come lo potrebbe un vomere, la profondità della mia anima per forzare ad entrarvi questa bellezza troppo pura per abitare in me. Vedo chiaramente in che modo la sua nudità, luminosa come un frutto, entrerebbe, a vele spiegate, nelle tenebre del mio essere, vi mescolerà il sogno della mia carne con quello della mia anima, espanderà in me i flutti della sua luce anonima come un cammino di luna dove la mia carne segreta si risveglierà alla sua presenza”. Bousquet deve partorire una verità più alta del suo dolore. Egli riuscirà, attraverso il potere della visione interiore, a creare un mondo trasversale che, pur non coincidendo con la realtà cruda, ne sarà il soffio vitale.

Tratto da I sotterranei dell’anima, Aldo Carotenuto, Bompiani 1993. Opere di Joe Bousquet: 1941, Tradotto dal silenzio; 1980, Papillon de neige; 1982, Da uno sguardo un altro; 1988, Lettere della guerra (J. Bousquet – S. Weil); 1989, Le cahier noir.

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ODISSEA DI UN INTELLETTUALE

“Rivoluzionario” non violento in perenne conflitto col potere e le istituzioni, potremmo definirlo uno spirito ginsberghiano, nonché di majakovskiana memoria. Teresio Zaninetti, che con Pier Paolo Pasolini ebbe una corrispondenza epistolare (vedi: Pasolini, Lettere 1955-1975, Einaudi 1988), è autore di un gesto clamoroso e provocatorio – come d’altronde nel suo stile anticonvenzionale. Ha chiesto al sindaco di Gozzano (Novara), 300 miliardi di risarcimento danni, morali e materiali, per l’assassinio del grande poeta, ritenendo lo Stato italiano e (quale suo rappresentante) il sindaco, responsabile della morte di Pier Paolo (!?). Dalla scomparsa di Pasolini, Zaninetti lamenta – come tanti – la disperazione di non poter più dialogare con una persona disinteressata come Pier Paolo. Teresio è un convinto marxista e un anticonsumista; non possiede un’auto né un televisore. Ha diretto tra gli anni 1982-’90 la rivista Logos, il cui percorso gli è stato reso irto e tormentato. Ha scritto, ultimo in ordine di tempo, il romanzo-testimonianza Le lacrime di Sisifo, Rosso & Nero Edizioni ’95; è critico teatrale e cinematografico e autore e regista di film. Scrive e dipinge anche con vari nomi d’arte, è poeta pluripremiato (ma più che poeta egli si reputa un giornalista serio e un intellettuale militante). Nato a Gozzano nel 1947, Zaninetti è stato uno degli organizzatori dei “percorsi” multimediali Aspettando Pasolini, con performances in varie città. Lasciamo che a presentarlo siano alcuni dei suoi versi: “Mi aprirò in due / come guscio di ramarro alla frontiera / nel rigonfio del vento, parentesi graffiata / nel prepuzio dei miei sogni rapaci / che già morte pregustano indolore / Mi aprirò in due e sarò in un libro nudo / (…)”. E da La finestra si apre: “La finestra si apre su uno specchio nato / sotto le menzogne di un calvario e dunque / di tanto più umano è l’orizzonte / e siamo qui per questo, / perché si veda, / perché si dica / perché sia orizzonte per altri orizzonti / e nessuno rimanga nella culla troppo a lungo / senza incontrare spazi concimati / dal lungo morire quotidiano / dei piccoli uomini che furono midollo e seme”. Versi, questi ultimi, che – insieme a quelli di tanti altri poeti – dovevano apparire incisi nella pietra lungo la strada che da Badolato marina porta a Badolato superiore, splendido paese medioevale lungo la costa jonica (ma gli amministratori che avevano garantito il finanziamento della Regione per permettere il lavoro, hanno finora risposto col silenzio). Luigi Bianco, che dirige il foglio I Medicanti, nel primo numero del ’96 definisce Zaninetti “un grande poeta e un grande pensatore ingombrante, che tutte le istituzioni stanno lasciando morire di fame e di disperazione”. Zaninetti conta fino ad ora ben cinque tentativi di suicidio; ultimo il 10 gennaio ’97. Ogni volta si è fatto i suoi venti giorni d’ospedale ed è tornato nella sua casa-carcere a Gozzano. Ha inoltre subito due infarti. “Ho visto lo strazio”, scrive Bianco, “di un uomo costretto a prendere una ventina di pastiglie al giorno per sopravvivere n qualche modo. Oggi non può fare nulla. Nemmeno vedere le sue bambine: alle quali è nocivo per le sue nevrosi e per le implacabili leggi dello Stato”. Teresio è separato dal ’79 – anno del suo primo tentativo anticonservativo. Riceve la ridicola somma di 300 mila lire al mese quale sussidio per il suo “stato psichico”. Ha scritto Marcel Camus: “Non avviene molto spesso che un uomo si senta il cuore puro. Ma almeno in quel momento, suo dovere è di chiamare verità ciò che l’ha singolarmente purificato, anche se questa verità può ad altri sembrare bestemmia…”. Evidente il candore d’animo del Nostro, nonché il suo amore sviscerato per la verità, appunto. Sentite con quale spirito e veemenza di sentimenti si esprime in una pagina di Logos: “Ci vogliono armi, fucilate di verità. Questo è soprattutto amore. L’amore che spinge anche quella ‘barca’ infranta di Majakovskij che, nonostante tutto, continua a navigare attraverso oceani e bufere portando, indistruttibile, la propria luce che perfora i secoli. Un amore che, sì, è anche violenza (…). Scrive di lui Roberto Roversi: “(…) con la scrittura Zaninetti gioca duro. Ma aggiungerei, che con intera la sua vita, di cui la scrittura è il mezzo estremo di comunicare con gli altri, Zaninetti è inesorabile, costante; irretito in una implacabilità tanto generosa quanto, direi, disarmata”. La sua poesia, è scritto da qualche parte, è materia incandescente; strappa un velo della mistificata realtà. La Rusconi Editore, presso la cui Redazione Teresio ha prestato la sua opera dal 1973 all’85, lo invitò a sottoporsi – in seguito al tentato suicidio del novembre ’79 – a una “visita di idoneità” presso la Clinica del Lavoro G. Devoto di Milano; l’esame psicodiagnostico diede il seguente risultato: “Nevrosi d’ansia da cattivo inserimento in ambiente lavorativo”. La risposta della Rusconi fu quella di costringerlo a triplicare, quadruplicare le dosi di tensiolitici, antidepressivi e ipnoinduttori del sonno…Il secondo tentativo di suicidio (1984) avvenne in concomitanza con una situazione di contrasto, avente per oggetto il periodico Logos, fra lui e l’azienda. La Rusconi gli revocava l’autorizzazione a “collaborare” (?) a Logos, attendendo una risposta di adempimento dei suoi impegni contrattuali; al che Zaninetti li richiamava all’art. 8 del contratto di lavoro giornalistico, là dove si afferma che il giornalista potrà manifestare le proprie opinioni attraverso pubblicazioni di carattere culturale, religioso, politico o sindacale, e facendo presente che nel “suo” periodico non erano ravvisabili lesioni degli “interessi morali e materiali” dell’azienda. Oggetto del dissenso era appunto un articolo apparso su Logos a loro parere “lesivo”.A seguito di una ulteriore missiva di Zaninetti – non avendo ottenuto riscontro alla prima – si faceva vivo per telefono un rappresentante del Comitato di Redazione della Rusconi, il quale, incavolatissimo, gli riferiva che dopo che il C. di R. aveva ottenuto dall’azienda di “mettere una pietra sopra” alla sua “licenza poetica”, egli aveva riattizzato il fuoco nel vespaio…Si giunge così fino al periodo di calvario di Teresio, consistente nell’essere messo “in prova”, dopo 11 anni di lavoro, presso la redazione di Eva-Express. “E’ preferibile morire di fame piuttosto che mangiare merda”,scrisse Teresio dando le dimissioni. Per lui, come per Sartre (uno tra i suoi “maestri”) nella vita “vince chi perde”; o per dirla con F. Scott Fitzgerald: “il vincitore appartiene ai vinti”. Nell’esporre su Logos le sue amare vicissitudini, Zaninetti ha preso spunto da un celebre verso di Luis Aragon: “Io non sono di quelli che barano con l’universo”. E c’è da concedergli piena fiducia. All’inizio del ’97 si istituisce un Comitato di solidarietà per Teresio, ed esce, ciclostilato, il fascicolo “Perché Zaninetti viva”; sottotitolo: “Se questo non è un lager – Una legge Bacchelli per T. Z.”, che consta in una “raccolta di frammenti di un vivere quotidiano incuneato tra coerenza visionaria e miseria reale”. Vi sono riprodotte lettere di Teresio che danno i brividi (ripetuti appelli ora di aiuto, ora di feroce accusa), sempre senza risposta, inviate a giornali quale Tribuna Stampa, al sindaco di Gozzano, al Consiglio Comunale e all’Assistente Sociale, in cui si rinfaccia ripetutamente l’impossibilità per un uomo di cultura di vivere con l’elemosina di 300 mila lire al mese.

Teresio scrive duro con frasi sputate, elencando provocatoriamente, i “debiti” a lui dovuti da parte delle Istituzioni. “Il Vs. neghittoso comportamento non fa che acuire la mia disperazione e la mia angoscia, che viene definita ‘depressione'(molto impropriamente)”. “Il Vs. silenzio continua a rappresentare la Vs. totale colpevolezza ed era, è e rimane tuttora un prolungato tentativo di omicidio da parte Vs. nei miei confronti”. E in un’altra lettera, indirizzata al sindaco e chiaramente provocatoria: “Chiedo a Lei e al Consiglio Comunale e allo Stato Italiano di concedermi l’eutanasia, perché io non desidero più ‘vivere’ in una società amorfa, inetta, assassina”. Gli veniva sanzionato da parte delle Istituzioni e dell’indifferenza sociale una condanna a morte civile, senz’alcun processo. Scrive Luigi Bianco: “Teresio sembra sempre più elevarsi a pedagogo ‘pasoliniano’: un educatore senza stipendi e interessi, finalizzato soltanto alla causa universale della ‘liberazione dell’uomo’ “. E Maria Grazia Lenisa, nella recensione a Le lacrime di Sisifo (Pomezia-Notizie, dicembre ’95): “Teresio Zaninetti è poeta di tutte le rivoluzioni, è l’uomo che dividerebbe il suo pane con gli altri, che vive fino in fondo il suo amore-dolore, fino alla risposta dell’odio più cocente contro ogni forma di potere oppressivo, prima di tutto in se stesso onde assassina (Sisifo non rassegnato) in sé Tiresia che gli consegna inerme l’ultima perla della verità”.

Dunque, vogliamo ribadirlo: un uomo che non sa “barare con l’universo”. Anche lo scrivente, che ha conosciuto Zaninetti nell’aprile ’97, ha firmato ben volentieri insieme a molti altri uomini di cultura, per fargli ottenere i benefici della legge Bacchelli. Una volta tanto si riuscirà ad alleviare la pena di un poeta senza dover ricorrere all’elemosina e respingendo la soluzione estrema del suicidio?

[Nota: Teresio Zaninetti morirà il 21 gennaio 2007]

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In un primo momento, il saggio era stato pubblicato col titolo “Vince chi perde”.


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Edito in proprio

2018

Tutti i diritti riservati

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COME IN UNO SPECCHIO

La sua vicenda presenta sorprendenti analogie con la storia di John Nash, resa nota dal film A Beautiful Mind, interpretato da Russell Crowe.

Davide è nato a Genova il 16 agosto 1970. All’età di 18 anni inizia a manifestare segni di disequilibrio.

La convinzione di non essere accettato dagli altri, i comportamenti strani, l’odio-amore per il computer (è diplomato in informatica), il tentativo di incendio in casa per distruggere i programmi da lui creati nel timore che glieli potessero rubare, le frequenti allucinazioni: evidenti manifestazioni della sua dichiarata schizofrenia.

Un punto di non ritorno? Pare di sì, anche se ci sono sprazzi di lucidità che fanno sperare che la malattia possa regredire.

Persone simili, tipiche border line, vivono in una sorta di sogno immenso che domina tutta la loro vita. Anche se, nella maggior parte dei casi, la realtà ha il sopravvento.

Due storie che, per certi versi presentano molte analogie: quella di Davide e di John Nash. Con le loro formule matematiche si sentono vittime di un complotto organizzato da uno psichiatra che in realtà sarebbe una spia che vuole rubare le formule. Senza distinguere la realtà dall’immaginazione.

Fa ben supporre, in ogni caso, che il professor Nash sia stato insignito del Premio Nobel nel 1994.

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SULL’ “EFFETTO PLACEBO” E LO SATO DI “CRISALIDE”

Quando il discepolo è pronto, il Maestro appare.


Buddismo Zen


Non voltarti a guardare il passato: non serve a nulla. Pensa che non appena il tuo presente e il tuo futuro diventeranno gioiosi, anch’esso cambierà significato, come una strada sassosa a chi è giunto attraverso essa ad uno stupendo luogo di villeggiatura. Noi vediamo la bottiglia “mezza piena” o “mezza vuota”: ma se la chiameremo nel primo modo, contribuiremo a renderla tale; se la chiameremo “mezza vuota”, contribuiremo a svuotarla sempre di più. E’ un discorso in realtà semplice ma apparentemente complesso (è complesso perché ci siamo messi in mente un sacco di idee strane e ci crediamo perché “lo dicono gli altri”).

Come si può trovare spiegato nel libro Visualizzazione (Edizioni Xenia), ognuno ha due emisferi cerebrali attraverso cui operano la mente e l’anima: il sinistro che è logico-razionale-matematico-cosciente (su di esso è modellato il computer), il destro visivo-musicale-inconscio-immaginativo (è il “cervello dell’artista”, che opera durante l’attività creativa, la fantasia, il sogno). Quest’ultimo – sul quale si fonda in realtà la pratica dell’ipnosi e dell’autoipnosi – ha poteri straordinari, nel bene e nel male, nel predisporre corpo e psiche. Una prova? L’ “effetto placebo”, che consiste nell’efficacia di farmaci in realtà inefficaci per malati convinti dell’efficacia del farmaco e che si “immaginano”(cioè si “vedono nella mente”) guariti.

Tale “effetto placebo” e il suo opposto, che chiamiamo “effetto delebo”, “funzionano” in realtà in ogni ambito della vita: in altre parole, “immaginarci” negativamente facilita l’autoprovocarci malattie psichiche e somatiche; “immaginarci” positivamente aiuta l’autoguarigione e lo star sempre meglio. Il segreto dei poteri “miracolosi” del “pensiero positivo” è tutto qui.

E’ possibile proprio come per un “listato” di computer riprogrammarci a piacere (vedi Visualizzazione).

Volendo sfiorare il discorso sulla fede, si può dire che chi ha perduto una persona cara può riacquistare “pensiero positivo” se riesce a credere che tale perdita corrisponde a una “nuova nascita in un’altra vita: la persona cara “trapassata” ad altra vita ci è vicina anche se non la vediamo con occhi di carne e, se ciò è avvenuto prematuramente, la “fiducia” (fede) in Dio ci fa capire che tale mistero ha un significato positivo e che un giorno esso ci verrà reso manifesto.

Apriamo qui una parentesi per affermare che un riferimento alla “crisalide” è quanto mai opportuno: per motivi religiosi (stato di “crisalide” è quello del Cristo fra la crocifissione e la Resurrezione; stato di “crisalide” sarà il nostro nel passaggio da questa all’altra vita); per motivi personali (“chi non è morto e rinato almeno una volta nella vita non sa cosa significa veramente vivere”, scrive Bassani); per motivi storici (sono convinto che alla soglia del terzo millennio dell’era cristiana l’umanità abbia intrapreso – ancora spesso inconsapevolmente – una svolta epocale preparata da uno stadio di crisalide: “ma non sapete voi che noi siamo vermi / nati a formar l’angelica farfalla?”, scrive Dante.

[Notizie raccolte dallo scambio epistolare avuto con l’amico prof. Giordano Genghini negli anni 1994-95.]

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LA PIU’ STRAORDINARIA AVVENTURA

Paracelo scrisse: “Il Cielo è l’Uomo e l’Uomo il Cielo e tutti gli uomini sono un Cielo e tutti i Cieli non sono che un Uomo”.

La più straordinaria avventura è quella dello spirito; l’incontro col Sé, con l’indicibile, nel momento in cui, scaduti i giorni terreni (il tempo osceno), egli consegnerà alla terra la sua veste di carne corruttibile. Per lui così intimamente naturale e congenito (e che ha gestito quale strumento concessogli per una vita in prestito), ora il “suo” corpo non è che una “cosa” da abbandonare. La vita fisica (la vita “offesa”, come qualcuno l’ha definita, o la morte-vita, come dicono in molti letterati e poeti), non è che una parentesi, un lampo. Un destino ben più alto che non l’umano transeunte, col suo carico di sofferenze, desideri ed esperienze lo attende, nel riunificarsi al cosmo con la sua controparte dalla quale egli si staccò nel momento in cui scelse di incarnarsi in un grembo, scendendo sulla Terra.Creatura di Cielo, ha vissuto una breve parentesi fuori dal cielo come creatura di terra (trovandosi lacerato dai due poli tra un intrinseco sentirsi appartenente all’infinito e un vivere una realtà contingente, tra ombra e luce, corpi e cose caduche); per poi tornare alle origini angelo tra gli angeli.

Cosa c’è di più straordinario e meraviglioso? Mistero indicibile, l’uomo, “piccolo sgorbio disegnato fra certe grandezze a noi ignote” (Sinjavskij), ma destinato a grandi cose nei disegni di Dio – questo frammento dell’Universo eppure infinito, compreso nella Mente infinita del Tutto.

“La vera alchimia interiore”, afferma Silvia Pedri nel suo articolo Indicatori del destino, “comprende anche la sfera del nostro io spirituale”; e aggiunge: “L’opera alchemica di esternazione del proprio destino ha il contenuto della forza angelica del corpo mentale, la modalità e l’azione di quella del corpo astrale e il luogo di esecuzione indicato dall’angelo del corpo fisico”.

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LILITH E IL SUO SIGNIFICATO MITOLOGICO

Moses de Leòn nel Sèpher ha-Zohàr (XIII secolo), definisce Lilith come seduttrice di uomini e strangolatrice di neonati. Lo scrittore riporta una credenza che identifica Lilith con la regina di Saba. Nella tradizione kabbalistica Lilith è rappresentata come una donna nuda il cui corpo termina con una coda di serpente. Presso gli ebrei esiste l’usanza di appendere amuleti sopra il letto delle partorienti. In La kabbalah e il suo simbolismo (1960), Scholem riporta una credenza narrata nel 1717: “Credono [gli ebrei] che quando un uomo perde il seme con l’aiuto di Mahlat e di Lilith, ne nascano spiriti cattivi”. In letteratura si ricorda che Victor Hugo dedica a Lilith una lunga poesia, in La leggenda dei secoli (1883). In La figlia di Lilith (1889), A. France la presenta quasi come una femminista. Un’altra poesia dedicata a Lilith la troviamo nell’opera di A. Crowley Lo scarabeo alato (1910). Citiamo ancora Primo Levi col suo Lilith e altri racconti (1981) e Anais Nin con Venus erotica. Infine, uno sguardo al mondo della celluloide: il regista R. Rossen gira nel 1964 il film terrore Lilith, mentre si fa notare in modo particolarmente incisivo nel 1970 il film di K. Anger Lucifer rising.

Si ricorda che Lilith in astrologia è considerata la Luna Nera; dallo studio dei transiti nei vari segni, e Case, si possono verificare gli aspetti più nascosti della sessualità. Nella Luna Nera è racchiusa una sensualità priva però del potere creativo proprio di Plutone. Essa sembra essere un punto focale legato al nostro passato, alla nostra “matrice karmica”. Secondo lo studioso Max Duval, essa è “il secondo fuoco dell’orbita lunare”. Pare che questo presunto secondo satellite terrestre fosse noto al tempo della civiltà egizia col nome di Nephtys. Si narra che il diluvio di Atlantide sarebbe stato provocato da un satellite di materia oscura avvicinatosi troppo alla Terra; questo corpo diventerà appunto Lilith.La Luna Nera e Lilith hanno gli stessi significati simbolici: esse simbolizzano il potere inconscio femminile in veste moderna, la forza della sua emancipazione; il che ci porta a considerare giustamente i rapporti tra uomo e donna sostanzialmente modificati. (E’ chiaro che Lilith spaventi il maschio tradizionale, che subito vede sorgere “complessi” di castrazione). Secondo la tradizione ebraica Lilith sarebbe stata la prima sposa di Adamo, la quale non volle sottomettersi al suo padrone, perché ella esprimeva l’uguaglianza dei sessi. La leggenda c’informa che Lilith, in seguito al rifiuto nei confronti di Adamo, fu allontanata da potenze superiori e sostituita da Eva.

Fonte: notizie liberamente tratte da I mondi ultraterreni, G. Berti, Mondadori 1998, e da Luna Nera-Lilith, F. Capone, Edizioni Capone 1978.

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ONEIROS

Il mondo apparente potremmo paragonarlo a una serie innumerevole di macchie o incrostazioni che,sovrapposte al Disegno originario della Bellezza infinita, rendono quest’ultimo invisibile a occhi di carne.

Tuttavia, il numinoso si lascia a volte “visitare” con lampi fugaci in veste onirica, tramite “presenze” costituite da archetipi.

Il sogno in se stesso possiede un evidente carattere numinoso. Esso è una seconda vita.

Più d’uno ha scritto che il sonno è il fratello minore della morte, e che il sogno sarebbe il cordone ombelicale con l’aldilà.

Il sogno, via regia per l’inconscio e sua autorappresentazione, si esprime col linguaggio dei simboli.Un sogno può essere concepito come un dramma in cui noi recitiamo tutti i ruoli, quello di attore, regista, autore, suggeritore, e anche quello di spettatore.

I sogni sono la voce della nostra natura istintiva e animale; la voce della sostanza cosmica che c’è in noi. Per Roger Callois i sogni hanno lo stesso senso della forma delle nuvole e dei disegni delle ali di farfalla. Filosofi come Platone, Aristotele, Pitagora, espressero la loro credenza nel carattere profetico dei sogni. Famoso fu il sogno del presidente Lincoln il quale “vide” la propria morte; impressionanti furono i sogni profetici di Edgar Cayce, uno tra i maggiori sensitivi del suo tempo.

Secondo gli antichi oniromanti, i sogni veritieri uscivano da una porta d’avorio, quelli falsi da una porta di corno.

Poiché tutto soggiace a errore, sostenne Cartesio, le immagini che vediamo a occhi aperti varranno quanto quelle che scorgiamo in sogno. Dice Guglielmo Marra: “Il sogno è lo specchio dove la veglia si riflette e si incontra con la sua immagine negativa”; e ancora: “Il sogno avrebbe la funzione di valvola, attraverso la quale si scaricano le tensioni accumulate durante la veglia” (Il mistero dei sogni, Meb Editrice).

Il doppio dell’io che vediamo in sogno è come l’immagine di Narciso riflesso nello stagno. Nei sogni sul “doppio”, nella letteratura cinese, si avrebbe un io che sogna un altro io che incontra un altro io.

Possiamo dire che il sognare presenta una qualche somiglianza con la creazione artistica; esso “è matrice dell’arte” (Proust).

Dice Schopenhauer che il sogno è una breve pazzia e che la pazzia è un lungo sogno. Abercrombie afferma che vi è una notevole analogia tra i fenomeni mentali nella follia e nel sogno.

Potremmo paradossalmente paragonare questa esistenza materiale a un sogno rispetto alla vita eterna o Realtà del Sé (totalità interiore dell’anima), allo stesso modo in cui il sogno stesso è tale rispetto alla vita mortale (un sogno nel “sogno”).

In definitiva, siamo noi il sogno del Sé, o è il Sé il nostro sogno?

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SIMBOLOGIA DELLE VOCALI

In una sua poesia Rimbaud assegna un colore diverso a ogni vocale. Secondo il poeta, il senso delle vocali si può riassumere così: A, nero; E, bianco; I, rosso; U, verde; O, azzurro. Egli usa poi questa tabella con paralleli basati sull’esperienza sensoriale. A tale proposito, Ernst Junger nel suo saggio L’elogio delle vocali * fa questa considerazione: “Poiché Rimbaud possiede uno sguardo che sa spingersi anche al di là della pura sfera artistica abbiamo qui un sintomo della profonda diversità fra le lingue. In ogni caso, ci sentiamo piuttosto inclini ad associare la A e la O al rosso e al giallo, colori di luce, mentre la I e la U sono più vicini ai colori della terra”. E ancora: “Nella sua Filosofia della composizione Poe definisce la O la più sonora delle vocali. La A è l’aquila, la O è il falco dell’universo sonoro”. “Noi usiamo per la O un ideogramma che riproduce la forma dell’occhio”. Secondo Junger, infine, la A significa verticalità e ampiezza, la O altezza e profondità, la E il vuoto e il sublime, la I la vita e la putrefazione, la U la generazione e la morte. Nella A invochiamo la potenza, nella O la luce, nella E l’intelletto, nella I la carne e nella U la terra materna, i sepolcri, l’età remota di Saturno.

Concludiamo questo breve excursus con la bella frase di Jacob Grimm, secondo cui “alle vocali nel loro insieme va attribuito un carattere femminile, alle consonanti un carattere maschile”.

* Ernst Junger, Foglie e pietre, Adelphi 1997

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SULL’ESSENZA DEL REALE

Amo ciò che non si vede. Soltanto nell’Idea, risiede il Reale; il tangibile e ciò che si percepisce coi sensi, è apparire, riflesso, velo esterno di una realtà invisibile.Sussulti di gioia mi dà il contemplare qualcosa di bello, di artistico, che aspira alla perfezione – si tratti di opera di Dio o dell’uomo -; mi emoziona non la cosa in sé (corruttibile), ma ciò che sta dietro, che vive dietro la cosa. Il cuore della “cosa”. Dove l’anima trova in se stessa la propria luce.

Il visibile, il contingente, non è che manifestazione, rappresentazione. Riflesso. (L’emanato = il relativo, lo speculare). La vera essenza è nel non-manifesto. Nell’Idea, nell’Indicibile.

Afferma Ida Magli (La Madonna, Rizzoli ’87): “Il nome è l’essenza. Le cose che esistono sulla terra sono copie dell’Idea che esiste in cielo”.

Sono cosciente che esiste un universo sottile, non manifesto, appunto, pur vivendo calato in un mondo più denso, dotato di una struttura concreta e di aspetti materiali. Pur sentendomi parte di questa realtà superiore, che mi unifica col Tutto, nella mia dimensione attuale non posso percepirla se non confusamente, come se leggessi una “visione” di Swedenborg. Di questa “realtà” posso possedere soltanto le apparenze, mai la sostanza.

Sentiamo, in proposito come si esprime Elémire Zolla nel suo volume Uscite dal mondo (Adelphi, ’92), citando il pensatore Arturo Reghini: “Reghini delinea l’esperienza centrale, l’estasi filosofica,cui più volte si dedicò, in alcuni articoli, specie uno a firma di Pietro Negri, sulla rivista “Ur” nel 1928: rievoca l’esperienza dell’immaterialità per cui ci si accorge che non si corporei,o meglio che il corpo è in noi, con tutte le altre cose, e tutto fa capo a un nostro centro profondo, abissale e oscuro […]. In questo stato la coscienza appare come una variabile e il corpo come una funzione. Si coglie spingendosi come in alto mare, anagogizzando, giungendola punto che in sanscrito ridirebbe di sandhya, contatto o interfaccia tra sonno profondo e morte: si diventa come pianta o pietra; come angeli si vede l’essenza del reale”.

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SOTTO UNA “CATTIVA STELLA”

“Quanti ebbero occasione di conoscerne la personalità sono concordi,nel dire di lui, che fu un essere umano con un “cuore alto come il cielo”, ma il destino sottile come carta. Di solito, quando una persona non rintraccia una propria luce ad oriente, finisce per possederla in una balsamica strada di ponente.

Ma per l’autore di questo “diario” nessuna luce risultò recuperabile: né a oriente né a ponente.


Così ha inizio l’autobiografia di Pietro Valassina, autore di un pamplet dal titolo Solo i cani hanno un cuore (supplemento al periodico Logos n. 35, nov.-dic. 1988).

Il i° ottobre del 1915 in una clinica di Milano una sconosciuta diede alla luce un bimbo, e poi subito si eclissò. Il piccolo, a cui venne dato il nome di Pietro, venne accolto nel brefotrofio provinciale e sottoposto a cure perché risultava colpito da paralisi infantile. Dall’età di 4 anni iniziò il suo calvario, sballottato tra istituti e famiglie sempre diverse, cosa che gli fece rimpiangere sempre una struttura familiare tradizionale. A 8 anni gli morì il padre adottivo e la prima “madre” si risposò. Fu per lui una ferita che sarebbe rimasta sempre aperta.

Un giorno Pietro si sentì chiamare “bastardo” e fu per lui un marchio impresso a fuoco. A 10 anni era già scappato di casa più d’una volta, Durante una di queste fughe ebbe l’incontro più tenero e”umano” della sua vita: un cane molto grosso e molto mansueto, con cui fece amicizia. In compagnia di Bill – così lo battezzò il ragazzo – trascorse 18 giorni. Grande fu il suo dispiacere quando dovette separarsene, poiché lo rintracciarono e ricondussero in seno alla famiglia, per essere destinato (fino a successiva fuga) a lavoro durissimo e a maltrattamenti, che sovente giungevano fino alle sevizie gratuite.

Verso i 15 anni fu rinchiuso in un istituto di Arese, dove si trovò subito a disagio per la disciplina ferrea. Era sempre triste, piangeva e il suo chiodo fisso era la mamma.

Il suo animo s’inaspriva sempre di più. Ma finalmente parve che il direttore dimostrasse verso di lui un volto un po’ più umano: s’interessò a far rintracciare la madre di Pietro e gliela fece incontrare. La donna però subito si mostrò fredda e distaccata. Pietro restò all’Istituto fino a 21 anni. Fece il “premilitare”, poi fu accolto in casa della mamma. Ma la sua infelicità non lo abbandonò! In casa risultava di troppo; la madre aveva un amante e per lui era peggio di un’estranea. Un giorno Pietro fu ricoverato d’urgenza per appendicite acuta. Una volta dimesso, tornò a casa, ma nel frattempo la mamma aveva cambiato residenza. Si recò alla nuova abitazione ma si vide respingere con la motivazione che non c’era posto per ospitarlo!

Non trovava pace da nessuna parte.

Fu in seguito rinchiuso presso la Sacra Famiglia, perché risultava “deficiente e bisognoso di cure”. Ma vi restò poco perché si fece cacciare via.

Trascorse un periodo nero: faceva la fame e desiderava morire. Infine, riuscì a trovare lavoro come fattorino; lavorò fino all’età di 25 anni, quando avvenne la chiamata alle armi: il ritardo al servizio militare era dipeso da riforma per bassa statura. Dato lo stato di guerra fu fatto idoneo e assegnato al 3° Genio di Pavia. Dopo sette mesi fu destinato al fronte di Grecia.

Tempo dopo, in seguito a un attacco aereo in cui fece da scudo a dei bambini, veniva rimpatriato con una nave-ospedale. Aveva subito lesioni al cervello.

Si succedevano continui attacchi epilettici; fu ricoverato all’ospedale di Arezzo. Gli riconobbero le infermità per causa di servizio. Richiamato, fu aggregato all’8° Fanteria di Monza. Nel raggiungere il Corpo, fu assalito da un attacco epilettico fortissimo. Si riprese, ma per strada lo sorprese un attacco aereo e proprio davanti all’entrata del rifugio cadde una grossa bomba che procurò danni e feriti. Malgrado ferito, Pietro si caricò in spalla una G. di F. ferita gravemente e si trascinò fino a Porta Venezia, dove trovò militi che li soccorsero. Fu ricoverato in gravi condizioni.

Qualche tempo dopo, essendosi ripetuti gli attacchi epilettici, Pietro fu ricoverato all’ospedale di Baggio. Qui da una ispezione di un generale tedesco fu deciso che i militari guariti dovevano essere trasportati in campi di concentramento. Avvenne che un giuda, suo “compagno”, per un compenso di 70 mila lire, lo fece catturare. Fu caricato su un carro bestiame e avviato al Campo di concentramento di Walsrode. Da qui, fu trasferito al Campo di Sant’Antonin a Bitterfeld (Sassonia), dove fu costretto a lavorare duramente. Non resistendo alle sofferenze, tentò di fuggire, senza riuscirvi; dopo essere stato ferocemente torturato, fu inviato al campo di sterminio di Buchenwald, e dopo una ventina di giorni trasferito a Osendorf, dove rimase per otto mesi, condannato ai lavori forzati; dopo di che (pesava soltanto 38 chili!) tornò a Sant’Antonin.

Pietro fu liberato dagli americani. Rimpatriò nel ’46 e venne ricoverato in pietose condizioni, all’ospedale Bristol di Merano. Fu sottoposto a visita psichiatrica e internato nel Manicomio di Pergine.

Infine fu dimesso. La guerra era finita. Terminata la prigionia, ma i guai continuavano. Pietro si sentiva solo e abbandonato; l’unico amico restava Bill, un bastardo, come lui. Riuscì a trovare lavori saltuari, ma invariabilmente veniva licenziato o per mancanza di lavoro o a causa della sua malattia. Si trovò una complice-amante, e rubava oggetti d’oro che lei riusciva a piazzare bene.

Poi tutto finì, quando lei gli scrisse che s’era fidanzata. Dimesso dal carcere dov’era intanto finito, la trovò che s’era sposata. Dopo essersi ingrassati a sue spese, i due invitarono Pietro a

sparire.


Conobbe un’altra donna, Celestina. Godeva allora di una pensione di invalidità di guerra. Ma presto tutto finì con il trasferimento di lei in Francia, e fu meglio così perché aveva un carattere impossibile. Dopo qualche mese, Pietro si legò a un’altra donna, Gaetana Palermo, che pensò di legare al suo assetato affetto con un regolare matrimonio. Non l’avesse mai fatto! Era cattiva, bugiarda, dedita all’alcool; sovente veniva arrestata dalla Squadra del Buon Costume. Dopo cinque mesi dal matrimonio, Pietro un giorno si ammalò e fu lasciato solo in casa. Lei ritornò il giorno dopo, per cui egli non poté trattenersi dallo schiaffeggiarla. Lei, ubriaca, sporse denuncia per maltrattamenti, sfruttamento e altro. Pietro venne arrestato immediatamente.

La moglie si premurava di fargli delle visite, ma al solo scopo di strappargli una delega per la riscossione della pensione. Mentre a lui assicurava aiuto in occasione del processo, fuori complottava con Celestina, ritornata intanto dalla Francia, sua amica di marciapiede, che, anche perché gelosa, approfittò dell’occasione per contribuire alla sua totale rovina.

Il complotto gli valse una condanna di 5 anni, 9 mesi e 5 giorni di reclusione, più sei mesi di Casa di cura, lire 80 mila di spese processuali, interdetto dai Pubblici Uffici per sei anni, decaduto dalla patria potestà, dall’autorità maritale, risarcimento danni alla parte lesa, eccetera. Dopo oltre un anno di detenzione, si aggiunse la sorpresa che la moglie dava alla luce un “figlio”, frutto delle sue scorribande. Pietro presentò denuncia di adulterio e misconoscimento di paternità, ma poco più tardi ritirò le denunce, non volendo per il piccino la sua stessa sorte disastrosa. La moglie cominciò a inviargli una fitta corrispondenza, fatta di strane dimostrazioni di affetto, però non dimenticando di far richiesta in ogni scritto dei libretti delle sue due pensioni di invalidità (quella di guerra e quella di lavoro). Nel contempo anche il padre della moglie entrò in scena per strappargli la delega della riscossione delle pensioni, poiché, asseriva, era lui che provvedeva ai bisogni del bambino. Quest’ultima precisazione veniva però smentita dalla figlia della moglie, che assicurava che le spese erano sostenute dall’Opera Maternità e Infanzia, e diffidava dall’inviare deleghe o denaro.

Pietro si limitò a farsi soffiare 15 mila lire. Da allora non si hanno più notizie di entrambi. Per il fatto che la condanna superava i 5 anni di reclusione, anche le pensioni gli vennero sospese.

Per le tragiche situazioni morali, giuridiche e materiali, le condizioni psichiche di Pietro tendono ad aggravarsi. A causa della semi-infermità mentale fattagli beneficiare nella sentenza di condanna, l’espiazione avviene presso una sezione per minorati psichici, presso il Manicomio Giudiziario.

“Dalla cella che occupo qui in Napoli, guardo ora mestamente volare i passeri e i colombi. E invidio la loro libertà. I miei pensieri si accavallano e fra questi penso sovente al mio presente e al mio domani. L’avvenire è buio. Avvilentemente buio. Buio. Buio. Anche qui ho la compagnia delle bestie. E’ quando scendo in cortile. Sono due cagne”.

”Conto di farmi ancora vivo per dire se la mia sorte è cambiata; o se essa si è accanita con la consueta ferocia contro di me”.

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GRIDANDO L’AURORA

Edito da Feltrinelli, nell’aprile del 1980 usciva Nero di Puglia, una dura testimonianza di Antonio Campobasso, nato da una pugliese e da un padre africano mai conosciuto. Più che un’autobiografia essa è una singolare cantata meridionale-africana avente come leit motiv la schiavitù e il dolore, come precisa Alfonso di Nola nella prefazione, dove aggiunge: “Campobasso nulla ha commesso, molto ha pagato”; “il suo urlo è diventato il tam-tam di una negritudine occasionale”.

Antonio nacque a Bari mentre l’Italia partoriva la Repubblica, il 2 giugno 1946. Campobasso è uno scrittore nuovo, e la sua prosa spesso cede il passo all’andamento impetuoso dei versi. Egli ci racconta la sua vita “con un vigore e un ritmo tali da superare la barriera del fatto privato per diventare segno dell’emarginato”. Lasciamo che sia lui stesso a presentarsi: “Ed eccomi ora qui, Antonio Campobasso, devo gridare la mia cronaca e cerco un giudice per un processo che non si farà mai”. E ancora: “Non sapevo che un colore e un odore umano diversi ti pesano addosso. Ero nato, così per caso, in un paese mio/non mio, in mezzo alla guerra…”.

A tre anni e mezzo la figura di sua madre svanì ed egli fu sempre privato del suo affetto. Antonio visse insieme alla nonna, a Triggiano, conoscendo povertà e fame. Verso i nove anni già cominciava a essere preso a schiaffi dalla vita quando i coetanei gli facevano pesare la sua diversità coprendolo di farina e di insulti.

Nel giugno 1955 Antonio passò all’orfanotrofio di Giovinazzo, dove tutto era regolato sotto l’insegna della carità cristiana. Il presidente era un magnate della dc. Dopo quindici giorni Antonio ricevette la prima punizione: digiuno completo per non essersi presentato per la Messa. E da allora, altre punizioni, a catena… Infine passò al reparto dei grandi, e il direttore gli consentì l’iscrizione alla scuola d’arte. La professoressa di disegno fu il suo primo amore, e nel desiderio di possederla, l’immagine femminile si confondeva con quella della madre (la quale intanto viveva in Inghilterra).

Poi il sogno si spezzò: la donna desiderata si sposava. Seguì un periodo di crisi in cui Antonio a scuola si dimostrò un buono a nulla. Era l’ottobre del ’62, sette anni trascorsi in orfanotrofio, quando il direttore decise che per il ragazzo era giunta l’ora di lavorare. Lo mandò presso suo fratello che gestiva una trattoria, asserendo che quella era “una porca fortuna che gli cadeva addosso”…

La giornata per il ragazzo non aveva respiro, il tempo lo inseguiva tra pulire e lavare e servire. Usciva dalla nuova “prigione” soltanto una volta alla settimana. Alla fine ne ebbe abbastanza di quella schiavitù e fuggì. Fu subito ripescato e picchiato essendo anche accusato ingiustamente di aver rubato mille lire dalla cassa. Antonio gridò in faccia al padrone che non intendeva più servirlo; alla fine questi gli consegnò 500 lire e gli disse di sparire per sempre. Era il marzo del ’63.

Il Nostro iniziò la vita di vagabondo e per sopravvivere cominciò a rubare. Una notte fu pescato da due poliziotti e condotto in questura. Da qui al riformatorio il passo fu breve. Destinazione il Nicola Fiorelli di Bari. Antonio Campobasso fu schedato e incasellato.

Un giorno per accorrere in difesa di un ragazzo scoperto a fumare, afferrò l’agente e lo scaraventò a terra. Lo ricoprirono di botte e di sangue, e poi su in infermeria, dove lo attendevano non cure ma altre botte. Interrogato, sputò in faccia a un agente che faceva apprezzamenti nei riguardi di sua madre che se l’era intesa con un negro. E giù altre botte con più ottusa ferocia, fino a massacrarlo, usando anche un tubo di gomma tolto al rubinetto dell’ambulatorio. Per una settimana Antonio non riuscì a muoversi dal letto.

Da Bari, egli passò al riformatorio di Delicato, e poi a Urbino. Il desiderio di libertà si faceva irresistibile, e un giorno scappò saltando il muro del cortile nell’ora della Messa, ma fu subito ripescato e rinchiuso in cella di isolamento. Ben altre cinque volte scappò da Urbino insieme ad altri compagni, rubando auto per allontanarsi, ma ogni volta lo riacciuffavano, isolandolo e pestandolo. Il riformatorio lo aveva strutturato: gli aveva indurito quella sua scorza di aggressività e ribellione. In seguito a un’ordinanza verbalizzata nei suoi riguardi, Antonio fu dimesso per “irrecuperabilità sociale”. Ottobre ’65.

Alla questura gli presero le impronte digitali. Era un delinquente.

Vagava di città in città riprendendo la vita del vagabondo, rubava auto usando le chiavette delle scatole di Simmenthal, per correre lungo ignote vie… Il 7 settembre ’66 a Napoli, ruba una macchina e si lancia a folle velocità verso Lìcola. I carabinieri lo fermano perché ha i fari alti, e lo portano in caserma. Lo interrogano a forza di schiaffi, gli impongono di confessare furti mai commessi e infine lo consegnano al carcere di Poggioreale. Antonio lo chiama “tomba di vivi”. Quanto alle violenze subite, scrive: “questi ceffoni mi pesano addosso da sempre, non li cancello, sono la barriera tra l’essere e il non essere, fra il negro che porta in sé gravi odori di lontane foreste e il mondo distante ed ignoto dei bianchi profumati degli aromi di lievi profumi…”. E ancora: “Questi ceffoni mi danno il diritto di rifarmi il selvaggio di antichi abissi, mi chiamano a danzare la danza del fuoco, la danza della morte…”.

A Poggioreale tutto è ritmato, giorno e notte, da pestaggi e da celle d’isolamento. “Le guardie hanno fini gusti sanguigni…”, scrive Campobasso.

Giornate e minuti pesano come secoli. Oltre all’ora d’aria e l’ora della minestra, tutto il resto si immerge in un vuoto sconfinato e allucinante.L’11 luglio 1968 a Poggioreale si crepa per l’afa e manca l’acqua. I detenuti sganciano lo scarico della tubatura. Non si riesce più a sopravvivere. Il 12 luglio, dopo una protesta, alcuni detenuti vengono prelevati, pestati e reclusi in isolamento. Gli altri, durante il passeggio, decidono di non tornare nelle celle se prima non siano stati liberati i loro compagni. Il direttore acconsente a farli risalire, ma il maresciallo dichiara che “nelle condizioni in cui si trovano non possono risalire”. I detenuti fingono di rientrare, salgono al padiglione “Salerno”, vi sirinchiudono, spaccano tutto, scendono al reparto isolamento e liberano i loro compagni.”Questa è la rivolta di Poggioreale che la stampa del potere borghese ha gonfiato e trasformato in un attentato contro la sicurezza dello Stato…Questa rivolta, piccola cronaca legata ad acqua che manca, a cessi che non funzionano…”; così scrive Campobasso riguardo alla rivolta che lo faceva uno dei trenta protagonisti. Accusato di sequestro di persona, violenza, resistenza, devastazione, lo spedirono a Messina dove restò due mesi e mezzo. Da quel momento ebbe inizio un lungo periodo in cui Antonio venne sballottato da un luogo all’altro, lungo lo stivale – itinerario che egli chiama “atlante dei tormenti”. Il periodo più lungo fu di cinque mesi, al Manicomio di Aversa.Dopodiché egli riprese il suo transito infernale attraverso gli istituti carcerari. Da Benevento a Volterra, a Spoleto, a Porto Azzurro… Ad Alghero per due volte ingoia chiodi; relativa cura di patate bollite… Il 21 giugno ’74, Bari gli apre le sbarre.La storia di Antonio Campobasso non è ancora conclusa. A Roma lo pescano nuovamente perché deve scontare una condanna aggiuntiva.”Ho pagato il mio colore con il mio sangue”: questa è la forte affermazione di Campobasso. Ed essa dice tutto.Dopo vario girovagare, Antonio per vie traverse finisce in una scuola di recitazione dove ha l’opportunità di affinare la sua naturale vocazione di attore. Così termina la sua narrazione: “Non so se domani sarà per me un’aurora o una morte. Attendo gridando l’aurora”. Quell’ “aurora” da lui tanto invocata dopo tanto buio.

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